Ottobre 9th, 2020 admin
ORA NEL MIRINO C’E’ IL SOLE 24 ORE… ERA NECESSARIO SCENDERE SOTTO IL LIMITE DI LEGGE DEL 20% PER PROCEDERE A NUOVE ACQUISIZIONI
Gedi, gruppo editoriale che fa capo alla famiglia Agnelli e che controlla tra gli altri i
quotidiani La Stampa, Repubblica e Secolo XIX, comunica che “è stato raggiunto un accordo per la cessione del ramo d’azienda delle testate Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, La Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara alla società Sae Srl, rappresentata da Alberto Leonardis”.
L’imminente cessione non era ormai più un segreto, sebbene Gedi abbia tentato sino all’ultimo di tenere nell’ombra la trattativa. Nei giorni scorsi i dipendenti dei quotidiani locali del gruppo erano scesi in sciopero. La nuova società, di cui i giornalisti denunciano la totale inesperienza in campo editoriale, ha già messo nero su bianco tagli al costo del personale per 1,7 milioni di euro.
I dipendenti delle testate coinvolte nella vendita sono 162, 120 giornalisti e una quarantina di poligrafici. ”Gedi – continua una nota – ha individuato in Sae Srl la società che per affidabilità, progetti e intenzioni potrà offrire la miglior garanzia di continuità, rafforzamento e prestigio a testate che per storia e tradizione rappresentano una parte importante dell’editoria quotidiana, grazie al contributo di valore assicurato negli anni dai colleghi giornalisti e poligrafici”.
Molte le speculazioni sulle ragioni della vendita. Inizialmente si era ipotizzato che Gedi volesse ridurre la sua quota di mercato, in ossequio alla legge che prevede un massimo del 20% in capo ad un unico soggetto, per acquisire i giornali locali del gruppo Athesis vale a dire L’Arena, Brescia Oggi e il Giornale di Vicenza.
Negli ultimi giorni ha però preso consistenza l’ipotesi che il vero obiettivo sia il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore.
L’associazione degli imprenditori controlla oggi il 61% del gruppo, il resto è in borsa. Gli Agnelli potrebbero anche entrare con una quota. Qualche voce trapelata dal palazzo di via Monte Rosa a Milano rafforza questa ipotesi. Negli ultimi anni i bilanci del quotidiano economico finanziario sono stati rimessi in carreggiata, sebbene questo sia avvenuto tagliando i costi senza mai invertire il calo dei ricavi. La Exor, finanziaria della famiglia Agnelli, possiede anche il celebre settimanale economico britannico “The Economist”
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 24th, 2020 admin
“IL SEGRETO E’ PUNTARE PIU’ SUI LETTORI CHE SULLA PUBBLICITA’”… “L’ACQUISIZIONE DI REPUBBLICA DA PARTE DI ELKANN? AVRA’ CONSEGUENZE POLITICHE MA LE RAGIONI SONO INDUSTRIALI”
A guardare oggi i risultati del New York Times – 6 milioni di abbonamenti e 800 milioni di dollari
di ricavi digitali nel 2019 – si fa fatica a credergli.
Eppure – giura Mark Thompson, amministratore delegato e presidente del gruppo che edita il quotidiano americano – quando da Londra è arrivato a New York con il suo accento da élite british e un’esperienza esclusivamente televisiva, tutti scommettevano che da lì a poco la “Gray Lady” sarebbe andata in bancarotta.
Era il 2012, Thompson lasciava una Bbc in grande forma e uno stipendio non legato ai ricavi aziendali, per trasferirsi in giornale poco incline a prendere in considerazione dirigenti cresciuti oltre i ponti e i tunnel di Manhattan, e che perdeva milioni di dollari – trimestre dopo trimestre – a causa di una strategia esangue che puntava tutto sui giornali locali e un digitale zoppicante.
Otto anni dopo, il New York Times è esattamente quello che l’amministratore delegato outsider aveva sognato: un brand globale, che macina profitti su diverse piattaforme e riesce – proprio per questo – a farsi amare dai millennial.
Certo, poi è arrivata la pandemia. Thompson, 63 anni, un libro tradotto in italiano La fine del dibattito pubblico, la affronta muovendosi solo in bicicletta e lavorando prevalentemente da casa. Da lì risponde via Zoom alle domande di Open.
Le aziende giornalistiche in tutto l’Occidente sembrano vittime di un crudele paradosso legato al Coronavirus: a una crescita esponenziale di lettori corrisponde un calo drastico degli investimenti pubblicitari che porta a licenziamenti, chiusure, tagli. Voi come state reagendo?
«Ci aspettiamo un dimezzamento degli investimenti pubblicitari ma i nostri abbonamenti digitali continuano a crescere: non dipendendo dalla pubblicità, soffriamo molto meno di altri. Faremo anche noi dei tagli ma non riguarderanno giornalisti, né il comparto digitale. Mai come in questo periodo abbiamo bisogno di giornalismo di qualità e quindi continueremo ad assumere e investire: fortunatamente siamo abbastanza forti per potercelo permettere»
Cosa vuol dire essere un leader in questo momento?
«È strano fare il leader da casa. Non hai la percezione reale di quello che succede nella tua azienda: gli umori, i pensieri, le preoccupazioni per una fase durissima della vita pubblica e privata. Ma è anche un momento di grande energia in cui la missione del giornalismo si sente ancora di più. Stiamo ragionando anche su cosa prendere e lasciare dell’esperienza dello smart working, che di sicuro ci costringe a non dare più per scontata la presenza fisica negli uffici: ci interroghiamo su quale sia il beneficio reale dello stare insieme. Lo smart working non è una rivoluzione, ma permette di vedere chiaramente il suo opposto: il mondo statico e regimentato dell’ufficio, che però qui appartiene al passato: i nostri giornalisti sono già redazioni di corrispondenza individuali. Con il Coronavirus cambieranno solo le proporzioni»
Lavorare chiusi in casa davanti al pc non è in contraddizione con il mestiere di giornalista?
«Siamo dentro alla più grande storia giornalistica degli ultimi decenni, che è fatta anche di migliaia di rumors, false informazioni, cospirazioni che dobbiamo debunkare. Credo che il direttore del Times (Dean Baquet ndr) sia piuttosto contento del fatto che è possibile svolgere la maggior parte di questo lavoro con un cellulare. Certo, mandiamo ancora le persone fuori a raccontare quello che vedono, ma la maggior parte del giornalismo sta funzionando da remoto e va bene così. Tutti preferirebbero fare un’intervista di persona piuttosto che al telefono ma non dobbiamo essere sentimentali: il giornalismo moderno viene già fatto prevalentemente via Skype e al telefono. In particolare quello che coinvolge esperti, epidemiologi e scienziati»
Nonostante i giornali avessero iniziato a scrivere del pericolo del Coronavirus ben prima dell’inizio dell’emergenza, la maggior parte dei cittadini ha impiegato molte settimane preziose prima di crederci. Le persone non si fidano più dei giornali?
«Viviamo in un mondo dove molte persone leggono solo quello in cui credono. E, spesso, quando incontrano fatti che possono contraddirlo, continuano a preferire la loro visione del mondo. Eppure, anche se crediamo in qualche strana teoria sulla nutrizione o seguiamo una stramba dieta (e questo capita anche ai migliori), non vuol dire che smettiamo di andare dal dentista. Le persone rivendicano il diritto di essere scettiche e, allo stesso tempo, continuano ad andare dallo specialista se hanno problemi ai denti. Anche Trump non credo sia così azzardato con i denti come lo è quando deve scegliere il farmaco da assumere per proteggersi dal Coronavirus. In alcune zone d’America l’epidemia è vissuta come il cambiamento climatico: un piccolo problema che è stato montato dalle élite contro i lavoratori. Le proteste contro il lockdown dipendono più dalla politica che dalla consapevolezza o dalla sfiducia nel giornalismo. Non è un caso che interessano principalmente gli Stati che hanno votato per Trump. Oggi è più facile farsi guidare dall’ideologia che dai fatti»
Alcuni ritengono che il New York Times contribuisca a polarizzare il dibattito politico: siete diventati il quotidiano globale del pensiero liberal?
«Non c’è dubbio che siamo diventati un giornale “globale” – per copertura e organizzazione – ma nel mercato globale del giornalismo in termini numerici valiamo molto poco. E non credo che fuori dagli Usa veniamo percepiti come una forza liberal o di “sinistra”. È vero però che i regimi non ci apprezzano, che a Bolsonaro e Orban non piace il New York Times»
Anche il fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo non vi ama.
«I politici tendenzialmente non amano il buon giornalismo. Ma cosa diversa è dire che siamo una forza polarizzante globale: la sinistra in Europa non c’entra nulla con noi. Le persone all’estero quando pagano per le news non scelgono noi. So bene che in molti mercati siamo il terzo, quarto, quinto giornale e va bene così. Se un lettore deve pagare per le notizie in Italia preferirà sempre comprare il Corriere, la Stampa o la Repubblica»
A proposito di editoria italiana, osservatori sostengono che l’acquisto da parte del gruppo Exor – di proprietà degli Agnelli – del gruppo Gedi, proprietario di Repubblica, provocherà uno spostamento del giornale verso il centro, cambiando così il dna del quotidiano. Cosa ne pensa?
«In moltissimi Paesi, inclusi gli Stati Uniti, stiamo assistendo a operazioni di consolidamento editoriale: giornali e gruppi che si fondono spinti da esigenze più economiche che politiche. È inevitabile: quando un’industria matura non riesce a crescere ha bisogno di fare un’operazione scalabile, è una tattica di difesa. Ora, il modello italiano è da sempre regionale e molto politico: per consolidarsi ha bisogno anche di passare a posizioni più centriste. Ma non è una questione ideologica: è industriale»
Un ragionamento che potrebbe sembrare controintuitivo: in un mondo polarizzato dovrebbe funzionare di più una testata con una forte connotazione politica. O no?
«Qui parliamo di principi economici di base. Una pubblicazione cartacea o digitale ha dei costi fissi molto alti: redazione, carta, sede, marketing, tecnologia. In passato, grazie a una pubblicità altamente profittevole potevi sostenere un giornale che vendeva solo in una regione o in un paio di regioni. Se hai meno margini di profitto, devi avere molti più lettori e allo stesso tempo tenere i tuoi costi bassi. È qui che parte il consolidamento: metti più giornali insieme per condividere i costi ed espandere il tuo lettorato. Per riuscirci devi passare da una prospettiva regionale a una nazionale, da una linea partigiana a una linea moderata: è sopravvivenza. È vero che Internet richiede opinioni molto forti, ma puoi avere un giornale “moderato” e aperto a diverse voci con una pagina delle opinioni molto forte. Comunque, siamo onesti, la carta collasserà in ogni caso. Le persone smetteranno definitivamente di comprare i quotidiani di carta»
Quando?
«Immagino un decennio di vita ancora per il New York Times cartaceo, che sono sicuro sarà uno degli ultimi giornali – Germania a parte – a sospendere le pubblicazioni in edicola. In un paio di decenni saremo un mondo post cartaceo, quindi la nostra sopravvivenza dipende solo dal digitale e dalle scelte che faremo in quell’ambito. La pubblicità online non è affidabile: bisogna puntare sugli abbonamenti, su un giornalismo per cui le persone scelgono di pagare»
Anche gli under 40?
«La mia azienda è composta al 50% dai millennial. Oggi in molti dipartimenti del giornale abbiamo leader ventenni che prendono decisioni. C’è stata una rivoluzione all’interno dell’organizzazione: i millennial si occupano di tutto – politica, esteri, cultura – e questo ci ha permesso di arrivare a loro. Il podcast The Daily ha 3 milioni di ascoltatori al giorno. Questo vuol dire che ogni giorno 3 milioni di persone dedicano 20, 30 minuti all’ascolto, che è molto di più del tempo che ormai si dedica alla lettura di un giornale. Sono tutti millennial. Se realizzi prodotti di qualità pensando a loro verrai premiato»
Nate Silver, il guru dei dati che ha lavorato con voi dal 2010 al 2013 , mi ha raccontato che, arrivato al giornale, un caporedattore gli disse: “Quando lavori al New York Times il tuo cognome è Times”. È curioso che in meno di un decennio il giornale sia cambiato così tanto.
«La guerra culturale con Nate è coincisa con il mio arrivo. Da allora abbiamo cambiato moltissimi capi di settore. Questo è cruciale: non puoi avere gli stessi capi per sempre. Sono davvero pochissime le persone del “vecchio mondo” che possono reggere la trasformazione di cui ha bisogno oggi un’azienda giornalistica. Persone che hanno fatto carriera in un modo pre-digitale come possono guidare la transizione verso il nuovo? Il carico professionale, tecnologico, ma anche personale ed emotivo che comporta questo lavoro è impressionante. Io riesco a sostenerlo ma siamo pochissimi. Una volta quelli che si occupavano di dati nei giornali erano gli uomini grigi in fondo al corridoio, oggi sono al centro del giornale.
Però, in qualche modo, è ancora vero che il cognome di chi lavora qui è Times. Quando Nate Silver è andato via non abbiamo finito di fare infografiche e data journalism, anzi siamo diventati bravissimi. E forse la forza del Times è proprio questa: essere la casa di individui che sono diventati brand a loro volta – penso a Thomas Friedman, Paul Krugman, Maureen Dowm, Michael Barbaro – ma che continuano a trovare un valore immenso nell’essere associati al Times. Noi vogliamo essere una fabbrica di star, un magnete creativo che attiri giovani di talento per dare loro una chance. I valori e le pratiche del giornalismo restano le stesse: fact checking, oggettività, fonti multiple, attenzione alla scrittura. Ma oggi sappiamo che tocca essere flessibili se vuoi avere a che fare con i talenti»
Parlando di talenti, il vostro ultimo acquisto Ben Smith – ex direttore di Buzzfeed – nella sua prima rubrica da media columnist ha sostenuto che siete diventati un monopolio dell’informazione: avete cannibalizzato tutte le nicchie digitali che vi sfidavano assumendo i giornalisti migliori.
«Quando dicono che siamo come Google o Amazon, io dico di guardare ai numeri. La ricerca su Google è redditizia in tutti Paesi occidentali, come l’e-commerce di Amazon. Io bramerei per raggiungere anche solo il 5% dei lettori di un Paese fuori dagli Stati Uniti»
Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore un altro articolo di Smith che smonta la tecnica giornalistica di Ronan Farrow, autore delle inchieste che hanno dato via al MeeToo. Con un solo articolo vi siete fatti nemici sia i paladini del movimento che i colleghi del New Yorker.
«Non sono responsabile per la parte editoriale e posso solo dire che è stato un ottimo articolo. A proposito del #MeeToo voglio invece dire che l’impegno del Times verso il movimento è davvero difficile da mettere in discussione. Abbiamo seguito la vicenda ben prima che lo facesse Farrow, documentando da sempre le violenze subite da giovani donne e uomini sul posto di lavoro. Porre dubbi e domande sulla pratica investigativa non vuole dire mettere in discussione un movimento o un’istituzione come il New Yorker. Peraltro noi veniamo continuamente criticati da giornali autorevoli, ogni mattina trovo un plico di articoli che fanno le pulci al Times a firma del Washington Post o Vanity Fair. Sa che le dico? Questa è la vita».
(da Open)
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Maggio 5th, 2020 admin
IL NUOVO QUOTIDIANO DI DE BENEDETTI SCEGLIE L’EX VICE-DIRETTORE DEL “FATTO QUOTIDIANO”
La direzione del nuovo quotidiano fondato dall’Ingegnere sarà affidata all’ex vicedirettore del Fatto quotidiano, un giovane di 35 anni, come aveva anticipato Open
È nata ufficialmente la nuova avventura editoriale di Carlo De Benedetti, con la costituzione dal notaio della società “Editoriale Domani spa”, che sarà posseduta da due società con l’Ingegnere come azionista unico. A presiedere l’azienda che darà vita al nuovo quotidiano ci sarà il senatore del Pd Luigi Zanda, che proprio oggi si è dimesso da tesoriere dem, mantenendo il seggio in Senato.
La società parte con un capitale di 10 milioni e avrò nel Consiglio di amministrazione, oltre Zanda, Giovanni Canetta, Federica Mariani, Virginia Ripa di Meana, Massimo Segre e Grazia Volo. Sia Zanda che il padre di Virginia Ripa di Meana erano stati per diversi anni nel Cda de l’Espresso, quando era ancora di proprietà proprio di De Benedetti.
Come anticipato da Open, la direzione del nuovo quotidiano nato per sfidare la Repubblica era sin dall’inizio orientata su un giovane. E la scelta, secondo Prima comunicazione, sarebbe caduta sull’ex vicedirettore del Fatto quotidiano, il 35enne Stefano Feltri, oggi alla guida di ProMarket.org e collaboratore dell’economista Luigi Zingales.
Un profilo da giornalista economico, una carriera rapida e brillante. Prima al Foglio di Giuliano Ferrara e al Riformista di Antonio Polito, quotidiani garantisti, oggi negli Stati Uniti con il professor Luigi Zingales, l’economista liberista che piaceva molto alla candidata vicepresidente Sarah Palin.
Giovane e brillante, liberale e manettaro, populista e antipopulista. Ora la svolta a sinistra di Repubblica, con l’idea di rubare una fetta di pubblico al giornale fondato da Eugenio Scalfari. Un’area potenzialmente florida, ma non facile da conquistare. Chi conosce bene Stefano Feltri non ha dubbi sulla sua bravura, semmai sull’operazione: «Il mondo di riferimento di questo giornale potrebbe non riconoscerlo come uno di loro. Rischierebbe di essere un pesce fuor d’acqua. Lo considererebbero quasi di destra».
(da agenzie)
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Maggio 4th, 2020 admin
SI DELINEA L’ORGANIGRAMMA DEL NUOVO QUOTIDIANO DI DE BENEDETTI
Il senatore Luigi Zanda ha rassegnato oggi le dimissioni da tesoriere del Partito Democratico. 
“Auguri a Luigi Zanda – scrive il segretario Nicola Zingaretti – che ringrazio per il lavoro di questi mesi da Tesoriere del Partito. Gli avevo chiesto, per la sua autorevolezza e per le sue indiscutibili capacità, di ricoprire questo delicato e fondamentale incarico, anche a fronte di una situazione molto difficile per le finanze del partito e per i dipendenti, che Luigi ha saputo esprimere al meglio affrontando diverse sfide elettorali e organizzative”.
E proprio oggi è stata costituita oggi a Torino, presso il notaio Silvia Lazzaroni, con un capitale di 10 milioni di euro, la società Editoriale DOMANI S.p.A, posseduta da due società il cui azionista unico è l’ingegner Carlo De Benedetti. Presidente è proprio Luigi Zanda. Il Consiglio di amministrazione è formato, oltre che da Zanda, da Giovanni Canetta, Federica Mariani, Virginia Ripa di Meana, Massimo Segre e Grazia Volo. Secondo quanto si è appreso, è iniziato l’iter per costituire la Fondazione Domani, presieduta dall’ingegner De Benedetti, alla quale, dopo la fase di avvio, andrà la proprietà dell’Editoriale Domani
(da agenzie)
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Maggio 3rd, 2020 admin
SI CHIAMERA’ “DOMANI” E SARA’ DIRETTO DA UN GIOVANE
Che qualcosa bollisse in pentola lo si era già capito nei giorni scorsi con una serie di voci che non
avevano trovato conferma ma neanche smentita.
Oggi siamo in grado di rivelarvi che l’ingegner Carlo De Benedetti, a lungo proprietario di Repubblica, ha deciso di fondare un nuovo giornale che andrà su carta e su web e si chiamerà Domani.
Il quotidiano sarà diretto da un giovane – non si sa di più per ora – e farà concorrenza, manco a dirlo, a Repubblica. De Benedetti divenne proprietario ed editore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari 35 anni fa.
Col suo giornale-partito e con il settimanale l’Espresso l’ingegnere ex proprietario della Olivetti ha compiuto tante battaglie, vinte e perse, per poi progressivamente lasciare la proprietà e la guida operativa della casa editrice ai figli Rodolfo e Marco. Pochi mesi fa papà Carlo aveva tentato di riacquistare direttamente azioni e guida del giornale a cui era rimasto legato, ma i figli avevano preferito trattare e poi cedere agli Elkann che da 3 anni erano già soci dei De Benedetti nella Gedi, risultato della fusione tra l’editoriale della Stampa e del Secolo XIX e appunto Repubblica-L’Espresso.
Era stato un addio amaro e certo non voluto quello dell’ingegner Carlo De Benedetti e le recenti convulsioni che hanno portato alla sostituzione di Carlo Verdelli con Maurizio Molinari alla guida della quotidiano romano sono state forse l’occasione che De Benedetti aspettava per tornare in pista: oggi ha scritto a molti amici e conoscenti per informarli di aver preso la decisione.
Non solo: insieme al giornale nascerà una fondazione, che diventerà proprietaria di “Domani” quando l’editore non ci sarà più. “Basta eredi!!!”, conclude il suo messaggio De Benedetti senior. E in quei tre punti esclamativi c’è tutto.
(da Open)
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Aprile 26th, 2020 admin
EXOR, LA HOLDING DEGLI EREDI AGNELLI, DISPONE DI 11 MILIARDI DI LIQUIDITA’… COSA VOLETE CHE SIANO 102 MILIONI SPESI PER PRENDERSI IL GRUPPO STAMPA-REPUBBLICA-SECOLO XIX, LA RETE DEI GIORNALI LOCALI E LE RADIO?
Purtroppo è così: bisogna partire dai bilanci, dai profitti, dai soldi. Non c’è poesia, né avventura. I cedimenti romantici sono roba per i nostalgici.
Solo il denaro, l’esercizio brutale del potere spiegano come sia possibile che il nipote dell’Avvocato Agnelli abbia concesso una mancia ai figli di Carlo De Benedetti e si sia preso la Repubblica e tutto il resto, abbia cacciato il direttore Carlo Verdelli, minacciato di morte, senza nemmeno avvertire il fondatore Eugenio Scalfari. Un po’ di rispetto, almeno per l’età.
Un comportamento che forse ha scosso i fragili pensieri dei teorici delle “radici comuni” – un mix di Fiat, di nostalgia delle amanti dell’Avvocato e di Platini, di Giustizia e Libertà in pillole, di giornalisti “de sinistra” ma compiacenti coi potenti perché tutti teniamo famiglia – pronti a giustificare il matrimonio tra la Stampa e Repubblica-Espresso quando comandava De Benedetti e oggi sorpresi per l’arroganza di John Elkann che non solo compra tutto, ma affonda lo sfregio sull’immagine di Repubblica portando alla direzione Maurizio Molinari, totalmente estraneo a questa storia, comunque la si giudichi una bella storia di editoria, di giornalismo, di cultura e di società.
Ma non c’è da discutere, i soldi pesano. Exor, la holding degli eredi Agnelli, dispone di circa 11 miliardi di euro di liquidità, fondi spendibili per cogliere occasioni nel mondo della finanza e dell’industria, utili magari per diversificare dall’industria dell’auto.
Negli ultimi mesi Elkann ha rimpinguato le casse con la promessa di un dividendo straordinario Fca di 1,5 miliardi, a valle della fusione con Psa, e con la cessione dell’americana Partner Re alla francese Covèa per 9 miliardi di euro, con una plusvalenza di 3 miliardi.
Prima aveva venduto la Magneti Marelli, un gioiello, ai giapponesi. Cosa volete che siano 102 milioni di euro spesi da Elkann per prendersi tutto il gruppo Stampa-Repubblica-Secolo XIX, la rete dei giornali locali, le radio?
Un’inezia, il vassoio dei pasticcini della domenica. Elkann, che ha comprato anche le quote di minoranza di Giacaranda Caracciolo e della famiglia Perrone, forse spenderà altri 80, 90 milioni di euro per rastrellare con un’offerta pubblica tutte le azioni. Ma non è un grande sforzo se hai in cassa 11 miliardi da spendere.
Questa novità, il blitz di Elkann, giunge in un momento drammatico per l’editoria italiana, non solo per gli effetti della pandemia che colpisce il Paese.
I giornali soffrono da anni. Il mercato della pubblicità pure. Le tirature dei principali quotidiani sono inguardabili tanto sono scese in basso. In questa congiuntura è impossibile fare miracoli.
Il mercato della pubblicità vale in Italia circa 9 miliardi di euro l’anno (2018, fonte Upa), la quota maggiore va ancora alle tv (3,8 miliardi, pari al 43% del totale), poi c’è Internet (3,1 miliardi, pari al 34,9%). I quotidiani non arrivano a 600 milioni (6,7% del mercato), le radio raccolgono 431 milioni (4,9%), i periodici confermano la loro debolezza (4,4%).
I nuovi padroni della pubblicità sono Facebook e Google, con il loro monopolio nelle piattaforme e tecnologie.
Solo un intervento politico, sanzionatorio, almeno a livello europeo, come quello che spezzò il monopolio delle telecomunicazioni in America può aprire di nuovo il mercato. Se guardiamo solo ai giornali viene da piangere.
L’Agcom sostiene che dal giugno 2015 al giugno 2019 le copie cartacee sono passate da 2,34 milioni a 1,58 milioni al giorno, con una contrazione del 30%. Economicamente bisognerebbe riequilibrare questa flessione con le copie digitali, ma sarebbe necessario seguire criteri condivisi da tutti gli editori.
Comunque si può dire che il digitale, anche nei suoi risultati migliori, non compensa i ricavi persi dall’editoria tradizionale in Italia.
Cosa farà allora il nuovo polo di giornali radio internet di Elkann? C’è la promessa della trasformazione digitale, di valorizzazione dell’indipendenza.
Sembra probabile che verrà creata una sola piattaforma editoriale, produttrice di contenuti, capace di elidere doppioni e costi, mantenendo l’apparente autonomia delle testate per difendere marchi territoriali e nazionali.
Ovviamente la “razionalizzazione” comporterà dei sacrifici in termini occupazionali: perché avere tre redazioni a Genova, o un paio a Milano, Torino, Roma?
Ora che una quindicina di quotidiani, tra grandi e piccoli, sono controllati dalle stesse mani la cosa più semplice da ipotizzare è che ci sia una direzione editoriale unica (Molinari, appunto), un risparmio di risorse da una parte per investirle altrove, il taglio di rami secchi e l’apertura di strade nuove.
La trasformazione digitale non c’è stata nella nostra editoria, tutti i treni sono passati ma gli editori hanno preferito vivacchiare per difendere i loro margini, sempre più bassi, scaricando i costi sociali delle ristrutturazioni sui fondi pubblici e gli enti di previdenza.
Nessun ha rischiato nulla. Non basta portare pezzi del giornale di carta sul web per fare la rivoluzione digitale.
Oggi l’editoria nazionale è questa: il neofita Elkann da una parte e Urbano Cairo, con il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e la7 dall’altra.
Non si scappa, questa è la realtà. Restano i giornalisti. Resta il giornalismo, un mestiere bellissimo.
I giornali, anche se malmessi, non sono carta straccia, meriterebbero più rispetto sia da parte dei padroni che dei lettori. Raccontano il nostro tempo, seguono le stagioni della vita, sostengono la nostra memoria, sono portatori di passioni.
I giornalisti, in questo brutto momento, possono ricorrere al pensiero di un grande collega. Giorgio Bocca, tra i fondatori di Repubblica, scrisse amare considerazioni sullo stato dell’informazione in Italia, prima di lasciarci, ma con una speranza: “Sono convinto che ci sarà ancora bisogno di un giornalismo etico, d’informazione, d’inchiesta. Sarà sempre indispensabile per una società civile”.
(da TPI)
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Aprile 23rd, 2020 admin
GIANNINI NUOVO DIRETTORE DE LA STAMPA E MATTIA FELTRI ALLA GUIDA DI HUFFINGTON POST
Proprio nel giorno in cui la Federazione nazionale della Stampa (il sindacato dei giornalisti) e
l’associazione Articolo 21 mettono in atto un tweet storm in difesa di Carlo Verdelli, direttore di Repubblica, da tempo bersaglio di minacce di morte sui social per lettera , la casa editrice della Repubblica e della Stampa, la Gedi, ha deciso di sostituire Verdelli.
Al suo posto arriverà il direttore della Stampa Maurizio Molinari che verrà sostituito a sua volta alla guida del quotidiano torinese da Massimo Giannini, storica firma di Repubblica e volto noto anche ai telespettatori.
Sempre dalla Stampa arriverà al giornale on line Huffington Post (pure di proprietà della Gedi) Mattia Feltri, che prenderà il posto di Lucia Annunziata, dimessasi da qualche settimana.
(da agenzie)
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Dicembre 1st, 2019 admin
LE VARIE VOCI CHE SI RINCORRONO
John Elkann non ha intenzione di acquistare il gruppo GEDI per poi rivendere La
Repubblica a Carlo De Benedetti. L’indiscrezione era rimbalzata nei giorni scorsi dopo la nota alla Consob che confermava la trattativa fra i figli dell’Ingegnere e l’erede della famiglia Agnelli ma è smentita oggi nell’articolo a firma di Sergio Bocconi sul Corriere della Sera: l’operazione dovrebbe prevedere come primo passo la vendita della quota di GEDI che fa capo a CIR, pari al 45,7% del capitale, a Elkann che già possiede il 6,2%. Smentite anche le dimissioni di Carlo Verdelli, arrivato da poco alla guida del quotidiano
Sempre gli ambienti vicini a Elkann sottolineano che l’obiettivo è assicurare a Gedi condizioni di stabilità che «consentano alla società di evolvere velocemente, compiendo scelte che non possono più essere rimandate».
In sostanza si ritiene necessario procedere a un risanamento, all’integrazione organizzativa all’interno di Gedi, nata nel 2017 con la fusione fra Espresso e Itedi, e a un rilancio in una prospettiva prioritariamente digitale.
Garantendo, si sottolinea inoltre, «l’autonomia redazionale, perché il giornalismo di qualità troverà sempre un mercato, a condizione sia autorevole e indipendente».
Intanto Marco Palombi sul Fatto mette insieme tutti i dubbi sull’operazione:
Si vedrà se i prati sono davvero in fiore, ma resta la domanda sul senso economico dell’operazione. L’ultima trimestrale di Gedi, quella al 30 settembre, parla di una situazione non piacevole: -18,3 milioni di risultato netto e fatturato in discesa in tutte le voci (vendite, pubblicità, etc.), ma il bilancio senza la vendita del gestore delle reti Persidera sarebbe in sostanziale equilibrio.
Il valore della società, secondo l’ultimo report Mediobanca, è di circa 240 milioni (al lordo di un passivo ingente) per il 75% grazie alle radio: il problema più grosso, nel medio periodo, sono Repubblica e i suoi 400 dipendenti.
La verità però è che si fatica a comprendere il senso industriale di un’operazione del genere:
La direzione industriale sembra essere quella di costruire una rete di quotidiani locali e la prima cosa che balza all’occhio è la duplicazione delle redazioni in almeno due città (Torino e Genova), senza contare – parlando di Repubblica- il costo non compensato dai ricavi di alcuni dorsi locali (ad esempio Palermo e Bari).
Insomma, se Elkann vuole gestire probabilmente dovrà tagliare, ma la realtà è che il giornale fondato da Eugenio Scalfari, a forte vocazione nazionale e politica, pare il meno sensato in un progetto del genere: venderlo potrebbe essere quasi naturale.
A meno che non siano vere le voci malevole che già circolano: la fusione con Peugeot & C. alla fine sarà un bagno di sangue per le fabbriche italiane in termini di occupazione. Quando si licenzia, avere qualche giornale a disposizione certo non fa male.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 2nd, 2019 admin
NEL 90% DEI CASI GLI OMICIDI SONO RIMASTI IMPUNITI
Negli ultimi 10 anni, almeno 881 giornalisti sono stati uccisi nel mondo per aver raccontato la verità. In nove casi su 10, gli omicidi restano impuniti.
Le uccisioni sono aumentate del 18 per cento nel mondo nel quinquennio 2014-2018 rispetto ai cinque anni precedenti, e il 55% degli omicidi ha avuto luogo in Paesi “in pace”. Quasi il 90% dei responsabili delle uccisioni dei 1.109 giornalisti assassinati tra il 2006 e il 2018 non è stato punito.
I Paesi con il più alto tasso di vittime tra i giornalisti sono gli Stati Arabi, seguiti da America Latina, Caraibi e Asia. L’Unesco, registra tuttavia un calo del numero di omicidi nei primi 10 mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con 44 omicidi di giornalisti segnalati al 30 ottobre 2019, rispetto ai 90 della stessa data del 2018.
Sono i dati diffusi dall’Unesco nella Giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti.
La direttrice generale dell’organizzazione delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura, Audrey Azoulay, li definisce “preoccupanti”. Quest’anno il 2 novembre si concentra sui giornalisti locali, sottolinea, attraverso la campagna #KeepTruthAlive per sfidare la percezione che gli omicidi avvengano solo lontano dagli occhi del pubblico, colpendo principalmente i corrispondenti di guerra stranieri.
“Accende i riflettori sui giornalisti locali che lavorano sulla corruzione e sulla politica in situazioni non conflittuali, che hanno rappresentato il 93% delle morti dei giornalisti negli ultimi 10 anni. L’Unesco chiama a rispondere tutti coloro che mettono a rischio i giornalisti, che li uccidono e che non fanno nulla per fermare questa violenza. La fine della vita di un giornalista non dovrebbe mai essere la fine della ricerca della verità“, dichiara Azoulay in una nota.
Anche il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha voluto partecipare alla celebrazione di questa Giornata. “Non c’è democrazia senza la libertà di stampa - scrive su Twitter -. Nel giorno internazionale per porre fine all’impunità dei crimini contro i giornalisti, rendiamo omaggio a Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak e a tutti quelli in tutto il mondo che hanno perso la vita e hanno subito attacchi per aver svolto il loro lavoro”.
Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger maltese, impegnata in numerose inchieste e attiva contro la corruzione, è stata assassinata in un attentato dinamitardo nel 2017, mentre Jan Kuciak, giornalista slovacco, impegnato in indagini sulla gestione di fondi strutturali dell’Unione europea nel suo paese è stato trovato ucciso nella sua abitazione nel febbraio 2018.
“Quando i giornalisti sono presi di mira, la società nel suo complesso paga il prezzo” ha dichiarato il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres. “Se non riusciamo a proteggerli, sarà estremamente difficile per noi rimanere informati e contribuire al processo decisionale. Se i giornalisti non riescono a fare il loro lavoro in sicurezza, il mondo di domani sarà segnato da confusione e disinformazione”, ha aggiunto. Infine, ha detto “senza libertà d’espressione e media liberi sarà impossibile far progredire la democrazia e raggiungere gli obiettivi di sviluppo durevole che ci siamo preposti”.
(da agenzie)
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