1° MAGGIO 1947: LA PRIMA STRAGE DI STATO
IN RICORDO DI PORTELLA DELLA GINESTRA
30 aprile 1947. Serata splendida di primavera.
A San Giuseppe Jato i marciapiedi sono pieni di persone sedute davanti la porta a godersi il fresco serale.
La televisione non esiste. I pochi fortunati che possiedono una radio alzano il volume al massimo e ascoltano le notizie dall’esterno.
È anche un modo per ostentare l’oggetto posseduto.
I contadini con i pantaloni di velluto e la camicia di “sbarracanu” (una stoffa molto resistente che si usava per le camicie dei contadini) conversano con i vicini di casa.
Nella maggior parte dei casi l’argomento principale della conversazione si concentra sulla festa del I° Maggio e il corteo che partendo da San Giuseppe Jato arriverà a Portella delle Ginestre. Le donne in casa a preparare il pasto serale e il companatico per la festa dell’indomani.
Alla Camera del Lavoro, anche sede del PCI locale, il segretario Sarino Di Piazza detto “pannizzu” per la sua giovane età (è uno dei pochi di famiglia non ricca che ha fatto il ginnasio e perciò occupa quel posto) si dà molto da fare ad organizzare per la mattina successiva: bandiere rosse del PCI, della Camera del Lavoro, ritratti di Di Vittorio, di Togliatti e di Nenni. I
n paese, nel mondo della sinistra, c’è euforia per la recente vittoria del Blocco della sinistra alle elezioni regionali.
A casa mia, mio padre ha deciso di portare alla “festa” me e mio fratello rispettivamente di 11 e 13 anni. Mia madre ha preparato il companatico: frittata di uova e ricotta.
Mattina del I° maggio: grande adunata in Corso Umberto I° davanti la sede della Camera del Lavoro.
Si organizza il corteo: in testa bandiere, ritratti, e tutti i dirigenti locali della sinistra, segue una folla immensa. Molti con muli e carretti erano già partiti.
Gli slogan: “Evviva il I° maggio Festa dei lavoratori” — “Vogliamo pane e lavoro”.
Intanto venditori di frutta, di calia e simenza (ceci e semi di zucca), di poveri e semplici giocattoli sono andati di buon mattino a piazzare le loro bancarelle.
Molte persone, di colore politico diverso, fanno delle battute sarcastiche, anche di cattivo gusto, rivolte alle persone che con allegria si avviano alla festa. In seguito a quello che è successo molte di queste persone saranno interrogati dai carabinieri.
Parte il corteo, mio padre mio fratello ed io siamo in mezzo alla folla. Dopo poco più di 1 ora ci troviamo insieme al popolo di Piana e al popolo di San Cipirello, nelle spianata di Portella. È festa.
Vengono piazzate le bandiere intorno al “Sasso di Barbato”. Chi è arrivato col mulo o col carretto ha cercato un posto per “sbardari u mulu” (togliere il basto al mulo) o “spaiari u carrettu” (sganciare il mulo dal carretto). C’è allegria.
La banda musicale di Piana suona, le persone delle bancarelle offrono la loro merce ad alta voce con la solita cantilena. Si è in attesa dell’oratore ufficiale Mommo Li Causi.
Passa il tempo e Mommo non arriva, non si conosce il motivo del ritardo (non esistono i telefonini).
La gente incomincia ad avere fame e vuole mangiare. Giacomo Schirò, dirigente del PSI di San Giuseppe Jato decide di cominciare a parlare lui, sperando che nel frattempo arrivi Mommo. Sale sul “Sasso di Barbato”. Io ragazzino undicenne, curioso mi metto in prima fila a circa 2 metri di distanza dall’oratore, la mia testa arriva all’altezza dove lui ha poggiato i piedi, mio padre e mio fratello dietro di me.
Giacomo Schirò inizia con le seguenti parole: “il I° maggio del 1945 eravamo poche decine di persone nel 1946 eravamo alcune centinaia oggi siamo una folla immensa”.
A questo punto si sentono le prime raffiche di mitraglia. Tutti rimaniamo ammutoliti e, passati alcuni secondi, visto che non era successo niente, un uomo di Piana incoraggia tutti dicendo: “su li nostri, ma chi un ciaviti vinutu mai a chiana?” cca si spara pi fari festa” (Sono i nostri a sparare. Non siete mai venuti a Piana degli Albanesi? qui si spara per far festa).
Intanto gli assassini si sono accorti che avevano sbagliato il bersaglio. Ritornano le raffiche, questa volta sopra la folla, urla dei feriti, grida da chi chiamava i parenti, cavalli imbizzarriti. La “festa” è finita.
Chi può torna di corsa al proprio paese. Con mio padre e mio fratello ci ritroviamo sulla strada per San Giuseppe Jato. A metà percorso incontriamo 5 carabinieri, a piedi, trafelati, provenienti dalla stazione di San Giuseppe Jato.
A San Giuseppe Jato e a Piana degli Albanesi si pensò subito che la strage di Portella della Ginestra (undici morti (nove adulti e due bambini) e ventisette feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate) fosse stata opera della mafia locale (ancora oggi lo storico Giuseppe Casarrubea scrive che la mafia partecipò alla strage).
Molti mafiosi furono arrestati la stessa giornata della strage e poi rilasciati. Si seppe in seguito che a sparare furono alcuni componenti della banda di Salvatore Giuliano. Ci fu il processo di Viterbo e alcuni di questi vennero condannati, tra i quali il braccio destro e cugino di Giuliano, Gaspare Pisciotta.
La magistratura non indagò sui possibili mandanti. Ma Giuliano e la sua banda non potevano avere interesse a fare quella strage se non con la promessa di una amnistia.
Il Ministro dell’Interno era Mario Scelba.
In seguito Giuliano fu ammazzato mentre dormiva e poi fu inscenato un conflitto a fuoco. Pisciotta, dal carcere di Palermo, aveva annunciato di dire la verità nel processo d’appello e prima che lo potesse fare fu avvelenato col caffè.
Michele Maniscalco
(da Politicaprima.it)
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