Settembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
CATAPULTATA NEL COLLEGIO TRA MARSALA E TRAPANI NON SI E’ MAI VISTA
La Fascina viene, la Fascina non viene, dov’è la Fascina?
L’ultima fidanzata di Berlusconi – calabrese e arcorese adottiva – è stata catapultata tra Marsala e Trapani, nel collegio uninominale Sicilia 1. Bene, anzi benissimo per lei: sulla carta è un seggio blindato alla Camera. Qui però non l’ha vista o sentita nessuno. Non si è presentata nemmeno una volta: non un comizio, una comparsata in una rete locale, una diretta social. Niente.
S’era accesa una speranza: Marta e Silvio insieme a Trapani, sabato 17 settembre. Il plenipotenziario locale, Gianfranco Miccichè, ci contava: “Spero sia vero, stiamo facendo di tutto per renderlo possibile”, sussurrava sull’approdo della royal family. Poi il sogno s’è affievolito. Venerdì pomeriggio la numero 2 in Sicilia, Gabriella Giammanco, cade dalle nuvole: “Berlusconi e Fascina a Trapani? Non ne so nulla”.
Infine la capitolazione, confermata dal responsabile trapanese di Forza Italia, Toni Scilla: “L’ipotesi è tramontata”. Possibile – gli chiediamo – che l’insigne Fascina sia eletta senza venire nemmeno una volta? Scilla balbetta: “Guardi, bisogna capire. Non è tutto chiuso, diciamo… Quello che sarà il percorso… Capisce bene che spostarsi è complicato”. Possibile – insistiamo – che nessuno abbia mai sentito la sua voce? “I catapultati sono in tutti i partiti. Bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno. Abbiamo la compagna del presidente, Forza Italia è ancora attrattiva, può essere un collegamento con Roma”. Presi i voti, Fascina dovrebbe rappresentare un territorio che ignora. “Ci sarà bisogno di un lavoro in sinergia”, sospira Scilla.
Chiediamo conforto a Giacomo Pilati, giornalista e scrittore, orgogliosamente trapanese. “La Sicilia ha la sindrome della colonia. È da sempre terra di conquista, con i voti già blindati per le figurine che calano dal Nord”. Non mancherebbero ragioni per ribellarsi:
“Nei pronto soccorso, da Trapani a Palermo, per un codice verde aspetti 12 ore. Dicono che siamo la terra del reddito di cittadinanza, ma vedo sacche di miseria ovunque. I siciliani si comprano con poco: due promesse, tre slogan”.
Non solo a destra: nel collegio di Fascina, il Pd ha messo in cima al listino bloccato Annamaria Furlan, ex segretaria della Cisl, genovese. E l’avversario diretto di Marta è un dem palermitano, Antonio Ferrante, che “almeno ha avuto il buon senso di affittare una casa a Trapani per la campagna elettorale”, ironizza Massimo Marino, editore della rete locale Telesud.
I catapultati prosperano. L’ex forzista Vittoria Michela Brambilla – i cui natali sono in quel di Calolziocorte, Lecco – è lanciata in quota Fratelli d’Italia nel collegio della Camera di Gela, Caltanissetta e Canicattì. Brambilla è votata alla causa animalista: l’ex ministra di Berlusconi gira l’isola, sì, ma si fa vedere quasi solo in canili, oppure ai tavoli contro il randagismo o la violenza sui quadrupedi. A Caltanissetta – racconta con un certo, anonimo imbarazzo chi ha assistito – si è congedata dopo pochi minuti, dicendo che doveva prendere un aereo.
Pure lei, come Fascina, ha la strada spianata per Montecitorio malgrado sia regina d’assenteismo: nell’ultima legislatura ha saltato il 99,2% delle sedute. La “quasi moglie” di B. è una gigante, in confronto: ha partecipato a un quarto delle votazioni.
Chi il suo collegio lo gira davvero è Bobo Craxi. Le Politiche regalano anche questo: lo scontro a distanza tra i figli (milanesi) di Bettino. Bobo, kamikaze del Pd, nel collegio quasi impossibile Palermo 2, alla Camera. Stefania per Forza Italia al Senato, nel collegio di Gela (ma col paracadute di una doppia candidatura in Lombardia).
“Mi hanno fatto pure la carognata di mettermi contro mia sorella”, confessa sconsolato Craxi junior, a margine di un incontro. Vederlo in t-shirt mentre si fa intervistare da Pino Maniaci un venerdì sera, nella sperduta Montelepre – la cittadella del bandito Salvatore Giuliano, arroccata a 50 minuti da Palermo – di fronte a un plaudente pubblico di 6 persone (compreso chi scrive) mette tenerezza. “Macché paracadutato”, dice, “io sono un professionista! E ho rappresentato l’Italia a livello internazionale – è stato sottosegretario agli Esteri – crede che non possa rappresentare la Sicilia?”. Le possibilità che accada, per i sondaggi, sono misere.
L’ultima parola spetta a Tino Vittorio, docente di Storia, scrittore e intellettuale catanese. La Sicilia, ha scritto, è un mare pieno di mazzuni, di “pesci babbei”, e allora “le prossime elezioni siano apocalittiche, annunzianti il disvelamento totale, la parusia, della politica: la babbeità”. Tino tifa disastro: “Sa che le dico, forse sono meglio i catapultati degli ignoti che fuoriescono dai sotterranei dell’avvilimento della politica locale. Meglio non conoscerli! La politica come la si intende – passione, progetto, persino azzardo intellettuale – qui non esiste”.
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
BRUXELLES PROPONE DI TAGLIARE IL 65% DEI FONDI DI COESIONE ALL’UNGHERIA (7,5 MILIARDI) PER LE VIOLAZIONI ALLO STATO DI DIRITTO
La Commissione europea propone al Consiglio europeo il taglio del 65% dei fondi di coesione dell’Ungheria (pari a 7,5 miliardi di euro) perché il rischio posto al budget Ue nel quadro delle violazioni allo stato di diritto “permane” nonostante le misure promesse dal governo di Budapest di sistemare i problemi indicati dalla Commissione.
Ora il Consiglio ha tre mesi di tempo per esprimersi (la decisione è a maggioranza qualificata).
Il collegio dei commissari si è riunito al palazzo Berlaymont – eccezionalmente di domenica, visto che mezzo esecutivo europeo settimana prossima sarà a New York per l’assemblea generale dell’Onu – per decidere cosa fare dei 22,5 miliardi di euro di fondi complessivamente stanziati per l’Ungheria per il periodo 2021-27. Il Parlamento Europeo, d’altra parta, ha appena bollato Budapest come “un regime ibrido di autocrazia elettorale” (di fatto una democratura) e ha chiesto al Consiglio di agire, attivando l’articolo 7, che prevede sanzioni fino alla sospensione dei diritti di voto.
Ora, nulla di tutto ciò appare all’orizzonte. Ma la pressione su Orbán aumenta, anche considerando l’atteggiamento ungherese sulle questioni che contano ora a Bruxelles: sostegno all’Ucraina, transizione energetica, pressioni sulla Russia. Orbán, nel tradizionale ritiro di Kötcse organizzato dal suo partito, Fidesz, recentemente ha sparato ad alzo zero contro l’Europa, promettendo di voler bloccare il rinnovo delle sanzioni contro Mosca in autunno ed evocando persino l’uscita dell’Ungheria dal blocco “entro il 2030”, ovvero quando il Paese diventerà un contributore netto. Insomma: finiti i soldi, arrivederci. Ma un conto sono i ritrovi politici, dove si galvanizza la base, un altro il lessico istituzionale, in cui contano i fatti.
Il governo ungherese di Viktor Orban dice di voler chiudere entro novembre la vertenza politica con l’Ue che rischia di costarle un taglio ai fondi europei. Lo ha detto Gergely Gulyas, ministro della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Budapest intende fare alcune “concessioni”, un pacchetto di leggi a suo dire “concordato con Bruxelles” che comprende l’istituzione di un’autorità indipendente anti-corruzione, una riforma degli appalti e altre misure in chiave della lotta alla corruzione.
(da agenzie)
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Settembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
“QUESTA LEGGE HA PRODOTTO UNA LEGISLATURA CON TRE GOVERNI DIVERSI, MAGGIORANZE DIVERSE, ORIENTAMENTI POLITICI DIVERSI. MA C’È DI PEGGIO. LA DISFUNZIONE DEL SISTEMA PARLAMENTARE: IL GOVERNO È DIVENTATO LEGISLATORE”
Ultimi giorni di lavoro per il Parlamento eletto nel 2018. Si chiude la diciottesima legislatura dell’Italia repubblicana. Con quale bilancio?
I parlamentari uscenti furono eletti con la legge Rosato del 2017, la stessa con la quale si voterà il 25 settembre prossimo. Una legge che ha introdotto una formula elettorale sbagliata, che costringe le forze politiche sia a competere, sia a cooperare, con i risultati schizofrenici che sono sotto gli occhi di tutti. Una legge che ha prodotto una legislatura con tre governi diversi, maggioranze diverse, orientamenti politici diversi. Ma c’è di peggio. Il Parlamento-legislatore, in questo quinquennio, è stato pressoché assente: solo un quinto della legislazione è stato di iniziativa parlamentare e la metà degli atti con forza di legge è stata costituita da decreti – legge, cioè da provvedimenti governativi, che il Parlamento deve esaminare in tempi ristretti, perché dettati da necessità e urgenza. I numeri dell’attività legislativa del Parlamento diminuiscono ulteriormente se si considera che una buona parte delle altre leggi è costituita da atti «dovuti», quali le leggi di bilancio e quelle di ratifica di trattati internazionali. Inoltre, i governi hanno posto la questione di fiducia su decreti-legge 107 volte. A un governo la fiducia basterebbe, secondo la Costituzione, una volta sola, subito dopo la nomina.
Quindi, sei volte nei cinque anni passati, nei due rami del Parlamento, per i tre governi che si sono succeduti. Ma se il governo pone la questione di fiducia su una norma e ottiene un voto favorevole, il testo è approvato e tutti gli emendamenti parlamentari respinti. La questione di fiducia viene usata per compattare la maggioranza di governo, evitare l’ostruzionismo e i «franchi tiratori», e quindi accelerare l’approvazione delle proposte del governo.
Un numero così alto di questioni di fiducia è il sintomo di una disfunzione del sistema parlamentare: il governo funziona sempre meno come comitato direttivo della maggioranza parlamentare o non sa «negoziare» con la sua maggioranza, e deve quindi ricorrere alla questione di fiducia per far cessare le voci dissenzienti.
Dunque, il governo è diventato legislatore e strozza sempre più la discussione parlamentare, nel corso della conversione in legge dei decreti-legge, con il ricorso alla questione di fiducia.
Questo non vuol dire, però, che il Parlamento resti afono. Bisogna pagare un costo di questo vistoso spostamento dei poteri dalle assemblee all’esecutivo: i decreti-legge crescono di due terzi durante il tragitto parlamentare.
Se le leggi le fa il governo, bisogna pur dare un contentino al Parlamento, lasciando che i parlamentari, ridotti a fare un mestiere diverso, gonfino i decreti-legge con disposizioni settoriali o microsettoriali, che rispondono alle richieste delle loro «constituencies» e preservano il loro potere negoziale.
Il quadro delle disfunzioni non termina qui. Si aggiungono altri protagonisti, i gabinetti ministeriali e le amministrazioni pubbliche. Questi si muovono in due diverse direzioni. Da un lato, cercano di spostare alla sede parlamentare decisioni che dovrebbero essere prese dalle burocrazie. Queste sono intimorite dalle originali e spesso eccessive iniziative di procure, penali e contabili, e mirano a trovare uno scudo nella legge (di conversione di decreti-legge). Dall’altro, anche le amministrazioni pubbliche sono composte da donne e uomini con le loro debolezze, aspirazioni, esigenze, e non è difficile per esse trovare una voce in uno o più parlamentari ben disposti.
L’ultimo tratto di questo circolo vizioso è stato segnalato dal senatore Andrea Cangini in un documentato ed appassionato discorso parlamentare, in occasione della conversione del decreto-legge 36 del 2022 per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ha osservato: l’interlocutore del Parlamento sono le strutture tecnico-amministrative che appoggiano o dovrebbero appoggiare le azioni del governo, gli «apparati burocratici e le alte burocrazie che rappresentano un potere in sé». «L’impressione è che l’interlocutore del Parlamento sia, per esempio, la Ragioneria generale dello Stato». Cangini ha aggiunto: è vero che la politica è in crisi, ma l’autocefalia amministrativa è «un limite enorme all’esercizio democratico del potere da parte del Parlamento della Repubblica», uno squilibrio costituzionale, una «intollerabile umiliazione al potere legislativo».
Dunque, governo legislatore, Parlamento-legislatore interstiziale (in sede di conversione dei decreti-legge), ricorso alla fiducia per strozzare i tempi e i poteri parlamentari, registi fuori del Parlamento.
È un gioco in cui tutti perdono. Il governo che legifera, invece di indirizzare. Il Parlamento-legislatore interstiziale. L’amministrazione sempre più vincolata da troppe norme. I guardiani dello Stato distolti dalla loro autentica funzione. La collettività che paga un costo complessivo altissimo in termini di conoscibilità delle norme, di vincoli da esse disposti, di costi. I guasti che ho cercato di descrivere non sono cominciati dal 2018, ma si sono accentuati nell’ultima legislatura.
Dipendono da incuria per le istituzioni. Anche queste richiedono manutenzione. I governi dovrebbero rafforzare i loro legami con le maggioranze parlamentari che li sostengono. I parlamentari dovrebbero pianificare la loro attività legislativa, ridurre invece di aumentare il numero delle norme (se ogni nuova legge ne abrogasse almeno cinquanta, si potrebbe forse uscire dal labirinto legislativo), scoprire la codificazione a diritto costante, che tanto successo ha avuto in Francia, su iniziativa del Consiglio di Stato, che in Italia rema invece nella direzione opposta. Le procure dovrebbero applicare le leggi, non riscriverle con interpretazioni creative. I guardiani dell’amministrazione ritornare nei ranghi, aiutando una classe politica complessivamente debole a migliorarsi, piuttosto che tenerla sotto il giogo.
Sabino Cassese
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
I FONDI PER INTERVENIRE SUGLI ARGINI SONO STATI STANZIATI 36 ANNI FA MA NESSUNO LI HA MAI UTILIZZATI
Trentasei anni per assistere impotenti ad almeno tre alluvioni, costate una ventina di morti e danni per milioni di euro, e a una miriade di episodi minori collegati comunque a ondate di maltempo che non sono stati sufficienti per spingere chi avrebbe dovuto a mettere in sicurezza il fiume Misa.
Un corso d’acqua «a carattere torrentizio» che — come l’ingegner Alessandro Mancinelli, già consulente del comune di Senigallia aveva spiegato tempo fa in una sua relazione sul Piano straordinario di individuazione delle aree a rischio idraulico — è capace «di portate nulle nel regime di magra e di piene di centinaia di metri cubi». Anche senza bombe d’acqua, evidentemente.
È in particolare dal 1986, quando sono stati stanziati miliardi per la messa in sicurezza degli argini del Misa con i Fondi per gli investimenti e l’occupazione (Fio), che si comincia a parlare di cantieri da aprire a Senigallia per evitare le alluvioni che si sono susseguite numerose fin dal 1765: solo dal Novecento sono già state 13, le ultime tre in soli 16 anni.
Tutto ruota attorno alla creazione delle aree di laminazione, che servono a invasare le acque della piena e impedire che escano dagli argini e vengano mandate a valle. «Si tratta di milioni di metri cubi d’acqua», spiega Erasmo D’Angelis, ora segretario generale dell’Autorità di bacino del Tevere ma che nel 2014 — proprio all’indomani dell’alluvione del 3 maggio che aveva colpito sempre Senigallia provocando quattro morti — era il coordinatore della struttura di missione di Italia sicura, il programma del governo Renzi che aveva stanziato 45 milioni di euro degli otto miliardi complessivi, proprio per la costruzione della cassa di espansione per il Misa.
«Immensi contenitori, vasche enormi — spiega D’Angelis — che servono a immagazzinare l’acqua per frenarla. Il governo Conte ha cancellato Italia sicura e quel progetto, ma analoghe iniziative già finanziate a Genova e Firenze sono andate avanti». Anche questa avrebbe seguito la stessa strada, se tutto non si fosse fermato nel settembre 2020. «Per una questione di espropri — aggiunge — la procedura si è bloccata ancora per un anno e solo nel febbraio scorso, dopo le pressioni dei sindaci del territorio, c’è stata la consegna dei lavori, ma ancora non è partito nulla. Sono state sistemate solo alcune arginature».
Già il progetto del 1986 della Regione Marche non aveva visto la luce perché bocciato in quanto prevedeva un enorme cassone in cemento armato che non solo era stato considerato dagli esperti un errore dal punto di vista idraulico, ma avrebbe anche avuto un impatto negativo sull’ambiente.
Il successivo progetto, che prevedeva l’impiego di altri materiali, con la terra battuta, era stato invece inserito nel piano di Italia sicura. «Vi avevano partecipato tutti, dall’Autorità di bacino alla Protezione civile, e poi il Comune e la Regione — ricorda D’Angelis — non se n’è fatto nulla, eppure quel progetto non era politico ma una necessità per il territorio, come si vede oggi. Le casse di espansione, due delle quali sono già state progettate, erano necessarie. In questo campo il tempo fa la differenza, se lo sprechi corri dei rischi».
Senza contare che già nel 2009 la Regione aveva avviato gare per i lavori di messa in sicurezza del fiume perché ritenute «urgenti e prioritarie» ma anche in questo caso, nonostante i fondi fossero a disposizione, solo una minima parte degli interventi sul Misa è stata portata a termine.
Un caso di mala-burocrazia che si è trascinato fino al 2018 con i primi bandi, gli appalti assegnati ma solo per un tratto di Misa, con il blocco dei lavori a causa di problemi collegati alla valutazione di impatto ambientale. La modifica del progetto è durata altri tre anni, fino al 2021 quando finalmente i 900 mila euro stanziati per il posizionamento delle vasche di espansione hanno un loro utilizzo in un cantiere che viene aperto, appunto, pochi mesi fa. In questo caso in località Bettolelle.
Eppure sono state proprio le Marche a considerare il Misa un’area «a rischio idrogeologico molto elevato» (R4) nel Piano di assetto idrogeologico regionale. L’alluvione del 2006 ha portato alla progettazione di interventi con il posizionamento di casse di espansione in vari punti del fiume, come nel bacino del rio Scaricalasino.
Ma a tutt’oggi gli interventi hanno riguardato, solo quando è stato possibile, la bonifica del letto del fiume e il dragaggio per cercare di rimuovere i detriti dell’alluvione del 2014. Troppo poco, evidentemente. Senza contare il nodo della pulizia dei terreni colpiti dall’ondata di siccità di quest’estate, che non hanno opposto resistenza all’acqua uscita dagli argini, come evidenziano ancora oggi dalla Protezione civile, che fa notare anche l’importanza fondamentale di mantenere i fiumi puliti e che le abitazioni non si trovino proprio a ridosso dei corsi d’acqua già a rischio.
(da agenzie)
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Settembre 18th, 2022 Riccardo Fucile
NON MOLLA L’IDEA DI CANDIDARSI ALLA REGIONE LOMBARDIA, NONOSTANTE L’OPPOSIZIONE DI SALVINI MA ASPETTA UNA RISPOSTA “DOPO LA FORMAZIONE DEL GOVERNO”
Dottoressa Letizia Moratti, riavvolgiamo il nastro. Siamo a giugno. Lei dà la sua disponibilità a candidarsi alle Regionali lombarde per il centrodestra. Dopo qualche giorno Salvini ribadisce che il candidato è Fontana. Che succede adesso?
«Mi sono messa a disposizione come ho fatto in passato quando mi è stato chiesto. Dall’impegno in Regione Lombardia a gennaio 2021 come vicepresidente ed assessore al Welfare alla candidatura per la presidenza della Repubblica lo scorso febbraio. Per non citare i ruoli passati come sindaco di Milano e ministro dell’Istruzione».
Chi le ha chiesto di candidarsi?
«Voglio evitare di creare confusione in questo momento a ridosso delle elezioni nazionali».
La sua candidatura è ancora sul piatto?
«Sono a disposizione secondo principi di rispetto e lealtà sino a quando verrà fatta una scelta definitiva. Ritengo di poter offrire, anche con una mia importante rete civica già attiva, un valore aggiunto alla Lombardia, come ho dimostrato in un anno e nove mesi di lavoro».
Anche al di fuori del centrodestra?
«Come ho detto confermo la mia disponibilità in un’ottica di lealtà fino a quando non mi sarà data una risposta definitiva».
Quando?
«Dopo che si sarà formato il nuovo governo. Chiaramente in tempo utile per rispetto degli elettori e per poter ascoltare i territori».
Fontana aspetta ancora la benedizione di tutto il centrodestra. Lei ha parlato con Meloni e Berlusconi?
«Le interlocuzioni sono sempre attive. Adesso è in corso un’importante campagna elettorale nazionale ed è giusto che ci si concentri su quella».
È vero che Berlusconi ha messo un veto sul suo nome?
«Non mi risulta affatto».
A FI la Sicilia, a FdI il Lazio, alla Lega la Lombardia. È così o la partita è ancora aperta?
«Intendo la politica come una delle massime espressioni dell’impegno civile democratico e repubblicano, non come una spartizione di poltrone o una lottizzazione fatta con il manuale Cencelli alla mano. Ritengo sia doveroso, per rispetto dei cittadini, proporre programmi adeguati per rispondere ai problemi concreti e figure in grado di metterli in pratica assumendosene la piena responsabilità».
Da candidata alle Regionali a possibile ministra in un governo del centrodestra. Prenderebbe il posto di Speranza?
«Il ministero della Salute è centrale nell’esecutivo per la necessità irrimandabile di investire sul sistema sanitario pubblico. Ritengo però di poter dare un contributo più completo nella mia Regione».
Com’è il suo rapporto con Giorgia Meloni?
«Di reciproca stima e cordialità. Giorgia Meloni è una persona molto seria, coerente e onesta. Si impegna, studia, si prepara cercando di ascoltare e comprendere le problematiche per poi riuscire a dare risposte concrete. Pur provenendo da estrazioni culturali diverse, la apprezzo per il pragmatismo: è una donna»
Si è parlato di lei anche come premier nel caso Meloni abdicasse. Quanto c’è di vero?
«Spetterà al capo dello Stato assegnare l’incarico di formare il nuovo governo sulla base dell’esito elettorale e delle consultazioni. Massimo rispetto istituzionale per il presidente Mattarella, chiamato a un compito ponderoso».
Ha criticato FI e Lega per la sfiducia a Draghi. Si ritrova ancora nel centrodestra?
«Per la situazione interna e soprattutto per il contesto internazionale, sarebbe stato opportuno continuare a sostenere il governo Draghi nel pieno dei suoi poteri. L’autorevolezza del premier, in particolare nello scenario europeo, avrebbe aiutato l’Italia. Di fronte a scenari di ingovernabilità però è stato altrettanto opportuno procedere celermente allo scioglimento delle Camere e al voto. Rivolgersi agli elettori non è mai un errore. Credo che in questo momento sia necessario però per la politica che ha a cuore le sorti del Paese un impegno comune verso una concordia nazionale capace di trovare alti comun denominatori, piuttosto che continue divisioni. Serve uno spirito repubblicano in grado di sintetizzare le differenze all’interno di programmi di ampio respiro e lungo periodo»
Auspica un governo di unità nazionale?
«Di unità di tutte le forze no, perché non sarebbe realistico. Auspico uno spirito di concordia nazionale che escluda gli estremismi e che lavori per trovare punti di convergenza rispetto a tutto ciò che separa. Viviamo un momento estremamente difficile alle prese con una pandemia ancora non finita, di una guerra dentro i confini europei, i problemi energetici stanno colpendo in maniera pesantissima famiglie, imprese, ma anche il terzo settore. Mi è arrivato l’appello di San Patrignano che assiste gratuitamente centinaia di ragazzi e ad agosto dell’anno scorso pagava 70 mila euro di bolletta energetica. Questo agosto è arrivata a 700 mila. In un momento cosi il dovere della politica non è quello di marcare le differenze ma trovare punti comuni che rappresentino l’interesse delle persone».
In che formula politica si può tradurre?
«Credo che le formule politiche cosi schematiche, centrodestra, centro, centrosinistra, siano superate. La società sta cambiando con una velocità impressionante per cui quello che era valido fino a poco tempo fa deve essere rimesso in discussione anche dai partiti. Il tema dei diritti che evolve, i cambiamenti climatici mai veramente presenti nell’agenda politica».
L’agenda del centrodestra?
«Così come potrei dire che il centrosinistra ha sempre visto il tema dell’impresa come tema delle élite e non di chi crea lavoro. Entrambi gli schieramenti devono ripensare a politiche che vanno incontro alle esigenze delle famiglie e delle imprese».
Resta il Terzo polo. Calenda la stima. Lei?
«C’è reciproca stima anche con lui. In questa contesa elettorale apprezzo coloro che si rifanno al metodo di lavoro impostato da Draghi, in particolare all’attenzione rivolta alle necessarie riforme legate al Pnrr, che vanno sostenute e completate. Condivisibile la necessità poi di avviare una politica energetica strategica per l’interesse nazionale che riconfiguri il mix energetico per il fabbisogno del Paese. Un nuovo assetto che deve comprendere la realizzazione di rigassificatori, il via libera alle estrazioni nazionali, il nucleare di ultima generazione. In politica estera, imprescindibile la conferma dell’adesione all’alleanza atlantica e ai principi dell’Europa unita. Senza contare la necessità di provvedere a maggiori investimenti su sanità e istruzione pubbliche».
Il suo nome torna in ogni situazione. Dal Quirinale, a premier, a ministro, a governatrice. Fa gli scongiuri?
«Sono certamente lusingata della stima che mi viene attribuita. Vivo queste candidature come civil servant. Se sono consapevole di poter dare un concreto contributo al bene pubblico mi rendo disponibile, altrimenti declino. Non sono alla ricerca di incarichi, per cui non faccio alcuno scongiuro».
(da agenzie)
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