Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“I CRIMINI DI ISRAELE A GAZA HANNO RAFFORZATO HAMAS: PRIMA ERA IMPOPOLARE, ORA E’ IL PARTITO DEGLI EROI”
“Con quello che sta accadendo a Gaza e con ciò che abbiamo subìto ogni giorno per 75 anni, non accettiamo lezioni di moralità da Israele e dall’Occidente”. I miliziani di Hamas “hanno avuto il grande merito di riportare la causa palestinese al centro dell’attenzione mondiale”. E sono adesso “eroi” per la popolazione. Che fino a un mese fa “in buona parte li disprezzava”.
A parlare così non è una terrorista e nemmeno un’estremista, ma una pacata intellettuale cosmopolita, laica. Una che non ha votato Hamas nelle elezioni del 2006 e non lo farà mai nella vita. Una che non sopporta né guerre né eroi. E che ha partecipato alle trattative per gli accordi di Oslo nella delegazione palestinese di Yasser Arafat. Alla pace ci ha creduto.
“Oggi io non condanno Hamas”, dice a Fanpage.it. “E se Israele e l’Occidente ritengono che si possa annientare Hamas o comunque escluderla da un processo di pace, non hanno proprio capito niente della situazione qui”.
Suad Amiry, architetto, accademica, ex consulente del governo dell’Olp, vive in Cisgiordania. A Ramallah, il centro amministrativo dello Stato “a riconoscimento limitato” di Palestina. Amiry è soprattutto una meravigliosa scrittrice. Nel suo “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori, 2020) dà nomi, vita e sogni a persone che troppo spesso sono rimaste senza un volto, per noi che li chiamiamo genericamente “palestinesi”.
La storia d’amore tra due ragazzini, Shams e Subhi, ci fa vagare per le strade del porto di Giaffa all’inizio della Nakba, la diaspora causata dalla formazione dello Stato di Israele, nel 1948. È una Giaffa che, per umanità, colori e peripezie dei suoi abitanti, somiglia in modo sorprendente al porto di Bahia descritto da Jorge Amado. Forse perché i porti e più in generale “la gente, i ragazzi e i loro sogni sono uguali proprio dappertutto”, come dice Suad Amiry. Che non ha letto Amado.
Intorno a Giaffa e alle vicende dei personaggi del libro, infuria la bufera politica. Shams e Subhi, poi, invecchieranno attraversando tutte le tragedie del loro popolo. “Tutto ha origine nel 1948”, commenta la scrittrice
Restiamo al telefono con Suad Amiry per oltre un’ora. Parlare con lei significa avere la misura dell’esasperazione che regna anche tra i moderati, in Palestina. E di quanto siano irrealistici molti dei dibattiti tra gli “opinionisti” dei nostri talk show. L’intervista è stata accorciata e montata per esigenze di spazio e di comprensione del testo.
Professoressa Amiry, la ragazzina Shams, protagonista del suo libro, rappresenta la tragedia vissuta dai palestinesi negli ultimi 75 anni. Divenuta anziana, quel che più caratterizza Shams è — cito — “la grande capacità di perdonare”. Avete ancora la capacità di perdonare?
Il problema è che non abbiamo mai avuto un momento, uno spazio per poterci fermare, respirare e perdonare. Io vorrei poter perdonare e addirittura poter dimenticare di essere palestinese. Ma negli ultimi 75 anni siamo stati continuamente sotto attacco. Per guarire delle ferite e perdonare c’è bisogno di spazio, di calma. Di pace. E c’è bisogno di esser riconosciuti. Non abbiamo mai avuto niente di tutto questo.
E cosa avete avuto, invece?
Una continua aggressione. Che avviene in molti modi. Se voglio uscire dalla città dove vivo, devo passare da un check point israeliano. A volte non posso andare a far lezione all’università perché c’è un posto di blocco. Non passa giorno che non venga distrutta una casa, o chiusa una scuola, o espiantato un uliveto. La pressione sulla Cisgiordania dei coloni israeliani, sempre protetti dal loro esercito, non si ferma mai. Come possiamo fermarci noi per poter lenire le ferite, liberarci dal nostro trauma e perdonare? Non abbiamo mai avuto un attimo di respiro.
Che oggi ci sia almeno un pausa umanitaria o meglio ancora un cessate il fuoco è quanto chiunque dovrebbe augurarsi. Al di là dei crimini commessi, delle ragioni e dei torti. Ma dopo? Cosa serve dopo?
Un cessate il fuoco fermerebbe la tragedia di Gaza, che sta creando sempre più rabbia, frustrazione e disperazione. Anche in questo sta l’assurdità dell’azione israeliana. Perché dopo qualsiasi cessate il fuoco si dovrà trovare una soluzione politica. I sentimenti alimentati in questi giorni la rendono sempre più difficile. Mi pare impossibile che il mondo non possa fermare i bombardamenti su Gaza. Per questo ritengo Usa ed Europa corresponsabili dell’aggressione contro i palestinesi.
Lei crede che dopo quel che è successo nell’ultimo mese sia ancora possibile la soluzione dei “due Stati”?
È necessaria una soluzione per i palestinesi. Due Stati o un solo Stato. Non è questo il punto. Ma gli israeliani non vogliono alcuna soluzione. Cosa gli impedisce di ristabilire i confini del 1967 (prima della Guerra dei sei giorni e della conquista israeliana di Cisgiordania, Gaza e altri territori, ndr)? Il fatto è che vogliono la Cisgiordania per loro. E infatti la stanno colonizzando. Come si può tornare a un processo di pace, così?
Con una mediazione internazionale che fornisca garanzie anche a Israele, probabilmente.
E questo è un problema ancora maggiore. Perché Stati Uniti ed Europa hanno perso ogni credibilità, come possibili mediatori. Il presidente americano, in particolare, mi pare che faccia solo da assistente a Netanyahu.
Veramente i tentativi di mediazione sono in atto. Ma Netanyahu è un osso duro. Quanto è colpa del suo governo, se si è arrivati a tutto questo?
All’interno del governo Netanyahu ci sono coloni che parlano apertamente di annessione della Cisgiordania. Questo dice tutto. La stessa opposizione israeliana sta mettendo in questione che Israele sia una democrazia. Democrazia per chi? Non certo per gli arabi. Il problema è l’occupazione dei nostri territori. Come può essere “democratico” un Paese che occupa territori altrui?
Fatto sta che in Israele ci sono istituzioni democratiche ed è possibile un’alternanza al potere. Un governo diverso cambierebbe le cose? Renderebbe possibile un percorso verso la pace?
Ma non c’è stato solo il governo Netanyahu. Son passati trent’anni dagli accordi di pace di Oslo. Nel frattempo Israele non ha mica avuto solo governi di destra.
Gli Usa, alcuni Stati arabi e la stessa Autorità palestinese stanno pensando a un futuro senza Hamas, per Gaza. È uno scenario realistico?
Non lo è. Oltre a commettere crimini di guerra e a dimostrare quotidianamente una brutalità inaudita, Israele a Gaza sta commettendo un grande errore: ritiene che uccidendo civili porterà i palestinesi ad allontanarsi da Hamas. È il contrario: ha reso Hamas popolare come non mai.
Perché, Hamas non era già popolare?
Per niente. Se ci fossero state elezioni a Gaza, Hamas non avrebbe potuto sperare di vincerle. L’azione di Israele ha rovesciato la situazione. Prendete il mio caso, anche se vivo a Ramallah e non a Gaza: sono laica e di sinistra. Mai nella vita voterò per Hamas. Ero molto triste dopo la vittoria di Hamas alle urne, nel 2006. Ma quando vedo gli israeliani bombardare una scuola, da che parte pensate che stia in questa guerra tra Israele e Hamas?
Con Hamas, supponiamo.
Hamas ha avuto il merito di riportare la questione palestinese all’attenzione del mondo.
Sì, con le atrocità disumane del 7 ottobre scorso. Donne, bambini, anziani, ragazzi a una festa: una macelleria. Lei condanna Hamas per quella barbarie?
Di 7 ottobre noi palestinesi ne abbiamo subiti migliaia. Li subiamo tutti i giorni dal 1948. Israele è un Paese fondato sulla colonizzazione della Palestina. Il problema è all’origine.
Ma lei condanna Hamas per il 7 ottobre?
Facendo questa domanda, dimostrate di prendere le parti di Israele contro noi palestinesi.
No guardi, è solo una domanda.
Perché non chiedete a un israeliano se condanna quel che sta facendo Israele a Gaza.
Lo faremo senz’altro. Ma al momento stiamo parlando con lei…
Hamas ha il diritto di combattere. Che ci piaccia o no. I palestinesi hanno il diritto di lottare contro l’occupazione. Come ogni altra nazione al mondo. Il modo in cui lo facciamo è affar nostro.
Quel che ha fatto Hamas il 7 ottobre è mostruoso e insostenibile. Ed è affare di tutta l’umanità.
Personalmente sono d’accordo che un eccidio di civili è sempre orribile, chiunque siano le vittime. Etica e moralità però oggi devono convivere in me con il mio stato di palestinese sotto occupazione. I padri della patria di molti Paesi hanno iniziato come terroristi. Penso a Mandela, Ho Chi Minh e tanti altri. Non posso condannare Hamas.
Per prendere un “terrorista/padre della patria” a noi familiare: i metodi di Mazzini erano parecchio diversi da quelli di Hamas…
Non dateci lezioni di moralità, grazie. Con tutte le vittime civili causate dall’Occidente in tante guerre lontane e recenti non mi sento di dover prendere lezioni di moralità da voi occidentali.
Lei riconosce allo Stato di Israele il diritto di esistere?
Un’altra domanda pro-israeliana. Che significa Stato? Significa forse che io non debba avere alcun diritto a Jaffa (l’antico porto diventato parte di Tel Aviv, Israele, ndr) da dove viene la mia famiglia e dove è la casa di mio padre, adesso di proprietà degli israeliani? O significa forse che devo diventare sionista? No, grazie.
L’obiettivo di Israele è distruggere Hamas. E possibile distruggere Hamas?
Assolutamente no. Tantomeno adesso. I miliziani di Hamas sono diventati eroi. Glielo dice una che non sopporta le guerre e nemmeno gli eroi. Ma così stano le cose. Israele non ha capito la situazione. Né l’hanno capita gli Usa. Come tante altre volte nella Storia. Dal Vietnam all’Afghanistan.
Hamas dovrebbe trattare con Israele?
Significherebbe riconoscere lo Stato ebraico. Sarà possibile solo quando Israele riconoscerà la Palestina. Per la mia esperienza personale come componente della delegazione di pace per gli accordi di Oslo, riconoscere Israele non porta in alcun luogo. Dà solo vantaggi a una controparte che non ha alcuna intenzione di riconoscere uno Stato palestinese.
Ma così non se ne esce, professoressa. Il filosofo palestinese Salam Fayyad in un articolo su Foreign Policy ha proposto un fronte politico unico con all’interno anche Hamas sotto l’egida dell’Autorità palestinese di Ramallah. Almeno questo potrebbe funzionare?
Sì, ed è quello che io stessa propongo a Abu Mazen (al secolo Mahmoud Abbas, leader dell’Autorità palestinese, ndr), che anche per il discredito pilotato da Israele ha di fatto perso il rispetto di gran parte della popolazione. Non potrebbe mai governare Gaza senza Hamas.
C’è molto astio, da parte dei palestinesi, verso l’Europa. Ma i consigli di guerra Netanyahu mica li tiene a Bruxelles…
I vostri Paesi sostengono Israele in ogni modo. Ed è vergognoso che in Europa si vietino o si limitino le manifestazioni pro-Palestina.
Veramente ce ne sono dappertutto…
Sono stati posti limiti e divieti. In Francia, in Germania e altrove.
Ovviamente ci sono problemi di lotta al terrorismo. E di lotta all’antisemitismo, che torna a serpeggiare in Europa. Non sono forse problemi da affrontare? Hamas inneggia allo sterminio degli ebrei…
L’antisemitismo è un problema vostro, di cui ora date la colpa ai palestinesi. Noi siamo diventati il capro espiatorio del vostro antisemitismo. Fin dal 1948. Siamo le vittime delle vittime. Delle vostre vittime. Con la cui persecuzione mai avemmo niente a che fare. Hamas, qualunque cosa dica la propaganda di Israele, non è la continuazione di Hitler. I razzisti non siamo noi.
Che dovrebbe fare l’Europa?
Trovare il modo di imporre a Israele un cessate il fuoco. E magari dichiarare la creazione dello Stato palestinese. Come si fece a suo tempo per Israele. Più realisticamente, l’ Europa deve favorire una soluzione politica. Evitare che ci siano altre guerre in futuro, scongiurare le prossime vendette. La chiave è la fine dell’assedio di Gaza e dell’occupazione della Cisgiordania.
(da Fanpage)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
HA SCAMBIATO LE ISTITUZIONI PER IL SUO TINELLO DI CASA
La forma è sostanza, dice il saggio, ma è un concetto che, come comunità, abbiamo dimenticato da tempo immemorabile.
Quando un membro della Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai accoglie un giornalista “sotto esame” mostrando carota e cognac, come ha fatto l’esponente di Forza Italia Gasparri, vuol dire che confonde le istituzioni con il suo tinello: ovvero le abita (nel suo caso da una vita intera) non come uno dei momentanei rappresentanti, ma come un inquilino stabile, e in ciabatte.
Non ha alcun rispetto non solo per il cittadino venuto a rendere testimonianza; neppure per il ruolo istituzionale che in quel momento ricopre.
Già quel ruolo è antipaticamente ingombrante: che il Parlamento sia dotato di uno strumento di controllo – nella sostanza uno strumento censorio – sulle attività del servizio pubblico televisivo è un malinteso al quale si sarebbe dovuto mettere fine da tempo.
Se poi lo si ricopre, quel ruolo, senza alcuna percezione del proprio potere di intimidazione e di interferenza, come Gasparri ha fatto per molti anni (eguagliato, forse, solo dal renziano Anzaldi), sentenziando sul lavoro altrui senza capirne nulla, distribuendo pagelline e anatemi; e infine, forse ritenendolo spiritoso, si introduce un’udienza mostrando carota (??) e cognac (??) al cittadino che sta per essere ascoltato; beh, significa che la forma (che è sostanza) non è più percepita come un vincolo che riguarda tutti, e tutti ci rende uguali.
Lo si dice sempre, vale la pena ripeterlo. Un comportamento come questo, negli Stati Uniti e in altri Paesi con senso delle istituzioni, sarebbe inconcepibile.
Un giudice o un deputato o un rappresentante dello Stato si sente, in quel ruolo, obbligato a una forma solenne e inderogabile. Lo spiritoso – se gli riesce – lo fa a casa sua.
(da La Repubblica)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“PER DARSI CORAGGIO, MELONI HA AFFERMATO CHE IL DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE È OTTIMO. VERREBBE DA DIRE OTTIMO E ABBONDANTE COME IL RANCIO MILITARE, IL PIÙ DELLE VOLTE UNA SCHIFEZZA,,, “SE LA RIFORMA VERRÀ BOCCIATA, NON SARÀ OBBLIGATA A TOGLIERE IL DISTURBO. QUESTO NO. MA PERDERÀ QUELLO CHE HA DI PIÙ CARO: LA FACCIA”
“Per darsi coraggio, Giorgia Meloni ha affermato che il disegno di legge costituzionale licenziato dal consiglio dei ministri è ottimo. Verrebbe da dire ottimo e abbondante come il rancio militare, il più delle volte una schifezza”. Lo scrive il costituzionalista ed ex parlamentare del centrodestra Paolo Armaroli in un articolo pubblicato sulla rivista online Beemagazine.it in cui invita Meloni “a ripensarci”.
“No, le cose purtroppo non stanno così – prosegue Armaroli -. Perché la meta del premierato sarà pure luminosa, ma la direzione di marcia non porterà a niente. Peggio, l’eterogenesi dei fini l’avrà ancora una volta vinta. Con il risultato che si registrerà un arretramento rispetto al premierato di fatto con il quale l’inquilina di Palazzo Chigi calca la scena. Ammesso e non concesso che la riforma superi le colonne d’Ercole del referendum confermativo. Altrimenti saranno dolori seri per Giorgia e i suoi cari. Cominciamo col dire, come si è accennato, che Giorgia oggi cavalca un premierato di fatto. Non è stata eletta dal popolo, è vero. Ma prima delle elezioni politiche i leader del centrodestra hanno convenuto che sarebbe diventato presidente del consiglio il capo del partito più votato. E Fratelli d’Italia ha avuto un tale successo elettorale da surclassare i suoi alleati. Tant’è che nelle consultazioni al Quirinale Sergio Mattarella non ha dovuto sudare sette camicie per conferire l’incarico alla Meloni e poi per nominarla presidente del consiglio. Un presidente del consiglio, si badi, che ha le caratteristiche del primo ministro vero e proprio. All’inglese. Al punto di poter chiedere al capo dello Stato e ottenere lo scioglimento anticipato delle camere. Come accade di norma nel Regno Unito. E lo scioglimento puramente minacciato è un elisir di lunga vita per il governo”.
Armaroli critica poi, articolo per articolo, il disegno di legge del governo dimostrando che il premier eletto sarà più debole di quello attuale. C’è poi il dubbio che la riforma passi il referendum confermativo: “E se la riforma verrà bocciata, Giorgia non sarà obbligata a togliere il disturbo. Questo no. Ma – conclude – perderà quello che ha di più caro: la faccia”.
(da agenzie)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
GLI ALTRI MINISTRI UE SONO STUPEFATTI: DURANTE LA RIUNIONE DELL’ECOFIN IL SEMOLINO DELLA LEGA NON HA PROFERITO PAROLA
«Non si capisce più cosa voglia l’Italia». Quando finisce la riunione dell’Ecofin che per la prima volta apre concretamente la strada alla riforma del Patto di Stabilità, i principali partner europei – a partire da Francia e Germania – restano sbalorditi dalle minacce di Roma di porre il veto. Il ritorno alle vecchie regole, infatti, rappresenterebbe un problema soprattutto per il nostro Paese. Il segnale offerto ai mercati finanziari sarebbe disastroso.
La stessa Bce, che sta riducendo gli acquisti dei titoli di Stato, ha spiegato che un mancato accordo provocherebbe conseguenze nei Paesi più esposti. Ossia l’Italia.
Ma lo sconcerto nasce anche da un’altra circostanza: il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, nel corso del vertice non ha detto nulla di quel che ha fatto trapelare ufficiosamente alla stampa italiana. «Grazie alla Spagna – sono state al contrario le sue parole – per il lavoro compiuto al fine di arrivare ad un’intesa. È un bel passo avanti».
La contraddizione tra il “dentro e fuori”, dunque, ha reso incomprensibile la linea italiana. E ha di fatto sospinto il nostro Paese nell’angolo dell’isolamento. L’esecutivo di centrodestra avrebbe dovuto saldare un’alleanza almeno con l’Eliseo e Madrid. Ma non ne è stato capace. Anzi, l’esito è che la partita della governance economica si ritrova completamente nelle mani di Francia e Germania, i cui due titolari dell’Economia si incontreranno nei prossimi giorni a Berlino. Roma è tagliata fuori.
L’isolamento ha preso plasticamente corpo proprio durante l’Ecofin. Mentre alcuni degli Stati “frugali” come Austria, Finlandia e Ungheria (la sovranista Ungheria) si lamentavano per la mediazione spagnola giudicata troppo morbida, nessuno ha preso le difese del governo Meloni.
Anche perché proprio nei negoziati degli ultimi giorni la Spagna aveva tenuto conto delle indicazioni di Parigi che erano involontariamente allineate alle richieste italiane. Il Tesoro sostanzialmente aveva ottenuto tre benefici importanti: il piano di rientro dal deficit è diluito automaticamente su sette anni e non su quattro per i Paesi che prevedono riforme strutturali nel Pnrr; alcune spese come quelle per la Difesa, i prestiti sempre del Pnrr e i cosiddetti cofinanziamenti avranno un trattamento “agevolato” nel calcolo del deficit (non è un vero proprio scomputo ma quasi); e dopo il percorso del rientro dal deficit, la riduzione del debito – spalmato su almeno quattro anni – sarà “mediamente” dell’1 per cento annuo e quindi sarà elastico (un modo per consentire eventuali campagne elettorali).
Certo in cambio di tutto questo la Francia ha concesso alla Germania una sorta di “salvaguardia” nella riduzione del deficit: ossia anziché scendere sotto il 3 per cento, dovrà essere limato sotto il 2. Una sorta di “cuscinetto” reclamato da Berlino che non si fida di alcuni partner, a cominciare dall’Italia. Ma si tratta comunque di una soglia che il nostro Paese ha quasi sempre rispettato.
La “voce grossa” di Roma, dunque, viene considerata inspiegabile. Così come sono state colte con sorpresa le critiche che informalmente il governo Meloni ha mosso al Commissario italiano agli Affari economici, Paolo Gentiloni. Anzi, i “falchi” accusano l’ex premier italiano di essere troppo accondiscendente con il suo Paese.
Il doppio binario di Giorgetti, quindi, viene letto come un modo per fare propaganda nel perimetro ristretto della politica italiana. E anche per tenere alta la tensione su alcune delle prossime scadenze. In particolare tre. La prima è fissata per il 21 novembre. Quel giorno la Commissione emetterà il suo giudizio sulla legge di Bilancio.
La seconda riguarda proprio il Pnrr. Le prime valutazioni sulla revisione presentata da Palazzo Chigi non sono entusiasmanti. […] Il quadro complessivo non torna. Il nuovo progetto rischia quindi di essere sospeso o rinviato.
§Il terzo nodo è il Mes. Giorgia Meloni non si è ancora decisa al via libera, il nervosismo dei partner sta crescendo. Palazzo Chigi deve insomma decidere: subire la riforma del Patto o promuoverla. Ma se Francia e Germania si metteranno d’accordo, difficilmente qualcuno potrà dire no.
(da La Repubblica)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO LA POLONIA, DALLA SPAGNA ARRIVA UN ALTRO DURO COLPO AL PROGETTO DI GIORGIA MELONI DI UN ASSE POPOLARI-CONSERVATORI PER ROVESCIARE LE ALLEANZE NELL’UE
Pedro Sánchez è a un passo dal formare il suo nuovo governo. Chiuso l’accordo con i catalani sull’amnistia, la prossima settimana il leader socialista avrà l’investitura.
E la Spagna infliggerà un altro colpo — dopo le elezioni polacche — al progetto meloniano di un asse tra popolari e conservatori, per rovesciare le alleanze nell’Unione europea. Intendiamoci: il prezzo che Sánchez pagherà per fare il governo sarà molto alto. La Spagna non è mai stata così divisa dai tempi della guerra civile. Cortei della destra protestano sotto le sedi socialiste.
Il leader di Vox Santiago Abascal accusa il Psoe di aver fatto un colpo di Stato. «Un patto infame» ha twittato uno dei fondatori di Vox, Alejo Vidal-Quadras; poi è andato a messa nella cattedrale di Madrid; all’uscita un motociclista nascosto dal casco, forse un sicario, gli ha sparato in faccia ed è fuggito. Vidal-Quadras è fuori pericolo, i media non collegano il suo ferimento alla politica; ma certo la tensione è al culmine.
A ogni alleato Sánchez ha dovuto concedere qualcosa.
Ai catalani, l’amnistia per i ribelli che avevano tentato la secessione e l’apertura a un referendum consultivo. Alla coalizione radicale Sumar, la riduzione dell’orario di lavoro. I baschi di sinistra di Bildu chiedono di avvicinare a casa i detenuti dell’Eta, oggi prigionieri in carceri distanti anche mille chilometri; i baschi di destra si accontentano di uno sconto sulle tasse sui profitti energetici (l’amministratore delegato del colosso petrolifero Repsol, Josu Jon Imaz, è l’ex presidente del partito nazionalista basco).
La Spagna avrebbe dovuto essere il primo tassello del disegno sovranista: sostituire i socialisti nell’alleanza con i popolari alla guida dell’Unione europea. In effetti alle elezioni del 23 luglio scorso il Partido Popular è stato il primo partito; ma i suoi alleati di Vox sono andati meno bene del previsto. Il leader del Pp, Alberto Núñez Feijóo, non ha ottenuto la fiducia. La palla è così tornata a Sánchez.
Non è solo una questione interna spagnola. Anche nelle elezioni polacche il partito di Jaroslaw Kacinsky, alleato di Giorgia Meloni, è arrivato primo, ma non ha partner per formare un governo: Varsavia cambia segno, torna al potere l’europeista Donald Tusk, che è un esponente dei popolari ma guarda al centro liberale, non alla destra populista.
Tutto questo lascia intendere che il ribaltamento delle alleanze a Bruxelles non ci sarà. L’onda sovranista resta forte. I popoli d’Europa chiedono più protezione nazionale.
Ora Giorgia Meloni può insistere sul suo schema di gioco. Oppure può lavorare alla costruzione di un partito moderato che inevitabilmente in Europa si confronta con i socialisti. Molti osservatori sostengono che la premier abbia già scelto la seconda strada. Però non l’ha ancora detto, anzi, con i socialisti ha sempre escluso qualsiasi collaborazione. Per Vox, Sánchez è un «infame», un «traditore» che tratta con i terroristi e svende l’unità della Spagna.
Però al prossimo vertice europeo è Sánchez che la Meloni rischia di ritrovarsi davanti. Mentre il suo alleato e vicepremier Matteo Salvini rivendica l’alleanza con Marine Le Pen e Alternative für Deutschland. Qual è l’interesse nazionale italiano? Quale Europa nascerà dal voto del prossimo giugno? Il nostro governo sosterrà ancora Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, o ha in mente un altro candidato? La campagna elettorale per le Europee non si farà soltanto con la propaganda, ma anche con le scelte politiche.
(da Corriere della Sera)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
ECCO I TRUCCHI PER NASCONDERE I RITARDI
L’ultima novità è che le liste d’attesa non esistono. Eppure ciascuno di noi ogni volta che è alle prese con la prenotazione di una visita medica o di un esame diagnostico sa bene come funziona: o paghi o ti arrangi.
Ma quanto tempo realmente passa fra la prescrizione del medico e l’erogazione del servizio che riceviamo come pazienti?
Il dottore di famiglia o lo specialista indicano il codice di priorità sulla ricetta: se urgente, il sistema sanitario nazionale deve garantire la prestazione in 72 ore; se c’è il codice «breve» entro 10 giorni; se è differibile entro 30 giorni per una visita, e 60 per un esame; entro 120 giorni se si tratta di prestazioni programmate. In quale percentuale i tempi indicati sono rispettati? E c’è un controllo efficace per intervenire dov’è necessario? Vediamo come i cittadini continuano a essere presi in giro.
Perché finora ci hanno imbrogliato
Finora non ci sono mai state analisi sui tempi di attesa con numeri attendibili che provengono da fonti istituzionali indipendenti: come già denunciato in un Dataroom del maggio 2022 (qui) il sistema di monitoraggio previsto per legge non funziona (qui).
Il motivo? Sui siti regionali sono pubblicati migliaia di dati, ma ogni Regione è libera di utilizzare il criterio di raccolta che più le fa comodo: i risultati dei tempi di attesa non sono differenziati in base al codice di priorità, i giorni indicati possono essere una previsione o quello che in realtà il paziente ha dovuto attendere, possono essere presi in considerazione solo gli ospedali più efficienti, oppure un giorno-indice, ecc.. Insomma, non c’è una linea guida comune e nessuna trasparenza sulla situazione reale, che era invece lo scopo delle legge voluta nel febbraio 2019 dall’allora ministro Giulia Grillo.
La settimana-campione
Per risolvere un problema bisogna innanzitutto conoscerlo. Partendo da questo assunto l’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas), che fa capo al ministero della Salute, con la Fondazione The Bridge, ha realizzato un progetto-pilota: alle Regioni sono stati chiesti i tempi di attesa di 14 visite e 55 prestazioni di diagnostica su una settimana campione, dal 22 al 26 maggio 2023. L’obiettivo è di portare alla luce tutta la verità sulle liste di attesa, con un criterio di raccolta dei dati che superasse le criticità denunciate. I risultati dell’analisi, per la prima volta, mostrano in modo inconfutabile i trucchi che vengono adottati per fare sembrare sulla carta che il problema non c’è.
I dati delle Regioni
Nove Regioni preferiscono continuare a trascurare il problema, o non riescono ad avere idea di quanto tempo deve attendere un cittadino per ogni singola visita o esame: Valle d’Aosta, Bolzano, Molise e Puglia hanno ignorato la richiesta di Agenas; Lombardia, Liguria, Basilicata e Sicilia non sono state in grado di produrre i dati; quelli della Calabria non sono utilizzabili perché incompleti. Invece 6 Regioni hanno risposto fornendo i tempi di attesa di 2-3 ospedali: Veneto, Lazio, Abruzzo, Campania, Umbria e Sardegna, per un totale di 23.656 visite e 24.478 esami. Hanno invece fornito tutte le informazioni richieste il Piemonte, Trento, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Marche, per un totale di 101.265 visite e 122.208 esami.
Il primo appuntamento disponibile
Prendiamo in considerazione 3 esami diagnostici e 2 visite da garantire entro 10 giorni e vediamo qual è il primo appuntamento disponibile all’interno dell’Asl di riferimento del paziente. Il 78% delle Tac, il 67,5% delle risonanze magnetiche e il 78% delle ecografie all’addome risultano erogate nei tempi di legge.
Concentriamoci sui casi più eclatanti. Piemonte e Sardegna riescono a garantire addirittura il 100% delle Tac e delle risonanze magnetiche, Campania e Lazio il 100% delle risonanze magnetiche, il Piemonte il 99,6% delle ecografie all’addome.
Abruzzo e Campania il 100% delle visite cardiologiche;
l’Abruzzo il 100% delle visite ortopediche.
embra di sognare! Anche con dati raccolti ed elaborati in modo corretto i risultati appaiono in gran parte ingannevoli. Perché?
Il gioco delle tre carte
I tempi di attesa monitorati dalle Regioni prendono in considerazione il numero di giorni che trascorrono dalla chiamata del paziente al call center (Cup) per prenotare alla data dell’appuntamento. Se però gli rispondono che in quel momento non c’è posto e lo invitano a ritelefonare dopo una settimana o due, la data che farà fede è quella della seconda chiamata, nella quale l’operatore fisserà effettivamente l’appuntamento. Della prima richiesta del paziente non resta traccia, anche se in realtà la sua attesa è iniziata da allora. In questo modo però tutti i tempi di prenotazione risultano più brevi. La prova che il meccanismo è diffuso la troviamo nei dati di Agenas che contano, e per la prima volta, quanto tempo trascorre da quando io ho in mano la ricetta del medico a quando telefono al Cup per prendere l’appuntamento. Solo il 18% lo fa il giorno stesso o il giorno dopo, se deve fare l’esame in 72 ore; il 41% se deve farlo in 10 giorni; il 51% se deve farlo entro 60. É paradossale: prima devo avere un esame o una visita, più tardi chiamo. Non può succedere davvero così. È ragionevole pensare che io la telefonata al Cup la faccio subito, ma solo al 18% viene dato l’appuntamento, e infatti ne rimane traccia. A tutti gli altri viene detto di richiamare perché non c’è posto. Se ne deduce che di quell’82% una parte non farà la visita nei tempi previsti, e un’altra parte si rivolgerà alla Sanità a pagamento. L’Osservatorio sui consumi privati in Sanità (Cergas-Bocconi) stima che su 100 esami 21 sono a pagamento; e 41 su 100 visite mediche.
L’altro problema è che i dati comunicati dalle Regioni si riferiscono solo alle telefonate fatte al call center che, nella realtà, spesso intercetta solo una parte delle richieste (non quelle, per esempio, fatte agli sportelli). Ciò emerge andando a vedere il numero di prenotazioni fatte per mille abitanti: è realistico che nell’Asl di Roma 1 e Rieti nella settimana tra il 22 e il 26 maggio solo 30 pazienti abbiano avuto bisogno di prenotare una Tac entro 10 giorni oppure che nell’Asl di Oristano solo 2 avessero bisogno di una risonanza magnetica sempre entro 10 giorni? Lo stesso vale per le visite: possibile che in tutto il Piemonte solo in 376 abbiano bisogno di una visita cardiologica? In Emilia-Romagna, che può essere considerata una Regione benchmark le prenotazioni sono intorno a 1 per 1.000 abitanti. Dove ci sono percentuali inferiori vuol dire che i dati non intercettano le vere richieste dei cittadini. E quindi come si risolve questa piaga se i direttori generali mascherano la realtà?
Le scelte dei cittadini
Infine, ci sono anche i pazienti che scelgono una data d’appuntamento diversa da quella proposta dal Cup, e in un caso su due aspettano di più. Quasi l’80% lo fa per andare in una struttura, o addirittura in un reparto, diversi da quelli proposti, dove pensano di essere seguiti meglio.
Qui però non si può puntare il dito contro nessuno, si tratta di ritardi subordinati a una libera scelta del paziente.
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
E NEL PARTITO CRESCONO I MALUMORI: “ROBA DA MATTI, HANNO PERSO OGNI MISURA”
Da via della Scrofa i malumori salgono sonori e si sentono forse per la prima volta. Questo modello del partito familista reso ancora più evidente con l’ascesa di Arianna Meloni, sorella maggiore di Giorgia Meloni e moglie del ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, «disturba».
Romana, classe 1975 (due anni in più della presidente del Consiglio), Arianna Meloni la politica – aveva raccontato in una lunga intervista rilasciata a Il Foglio durante l’estate 2022 – la fa fin da quando era giovane. Ma mai in prima persona. «Io sono un’ansiosa: non mi piace apparire. Ecco perché non mi sono mai candidata, nonostante faccia politica da quando sono ragazza». Dal 2000 lavora per la Regione Lazio come precaria («Sempre lo stesso genere di contratto, senza evoluzione di carriera, stesso stipendio»).
«La ribelle della famiglia», da capa del tesseramento di Fratelli d’Italia, il mese scorso ha imposto ai dirigenti di tesserare più persone possibile entro il 16 ottobre. Ordine eseguito. In tutta Italia si è visto un incremento di circa il 40%. «Quanto ce costa, però», racconta un dirigente che chiede l’anonimato, non essendo autorizzato a parlare della questione figuriamoci di quello che non va nel partito. Già, perché la sorella d’Italia avrebbe chiesto anche una quota specifica a seconda del peso politico. A chi è ai vertici fino mille-duemila, ai novizi 300. «Chiedere, pretendere, alzare la voce», è questo il metodo con cui la responsabile del dipartimento adesioni della segreteria politica difende l’impero meloniano.
Di recente è stata nominata anche nel Consiglio di amministrazione della Fondazione Alleanza nazionale. Poltrona di peso: la Fondazione possiede tra liquidità e patrimonio immobiliare quasi 230 milioni di euro e finanzia iniziative di propaganda e comunicazione. Il suo ruolo nel partito è stato fino a oggi quello della consigliera personale della presidente del Consiglio, coordinatrice delle decisioni che contano. Senza farsi troppo vedere, quasi nell’ombra, del resto: «Il potere – come spiegava una volta Francesco Cossiga – ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio. Chi parla è un burattino, chi manovra è il burattinaio». Giorgia Meloni di nessuno si fida più che di sua sorella («Siamo simbiotiche»).
E adesso Arianna Meloni tiene in ordine le file del partito ma anche i conti. Si è parlato e scritto molto della sua possibile candidatura alle Europee. Alla domanda su una sua disponibilità a mettersi in gioco, ha risposto al Corriere della Sera: «Preferirei di no. Ma sono un soldato». Intanto al «soldato» è stato affidato il compito di preparare il terreno in vista delle Europee, ovvero «la sfida più importante per il partito al governo in questo momento storico. Tutte le nostre figure politiche più esperte credo che debbano necessariamente mettersi a regime, ponendo al primo posto la necessità di lavorare per un bene maggiore sacrificando se occorre un bene minore». Sacrificio è la parola chiave. In vista delle elezioni europee, Fratelli d’Italia ha chiesto ai suoi parlamentari e dirigenti di partito una cifra decisamente fuori dal comune: 50 mila euro a testa una tantum per finanziare la campagna. «Certo, ci giochiamo tutto», spiegano i meloniani. Eppure i parlamentari versano ogni mese la propria quota al partito, pari a mille euro ciascuno. E non sono neanche pochi: 118 deputati, 63 senatori.
«Ma questa sarà una campagna in grande. Anche Salvini ha chiesto ai suoi 30 mila euro. Non bisogna stupirsi. E finora l’invito è rivolto soprattutto ai parlamentari più facoltosi e a nomi di peso», specificano da Fratelli d’Italia. Perché la campagna elettorale costa, lo sappiamo, costa moltissima fatica e moltissimi soldi. Ma il punto di rottura psicologico si sente già sotto traccia: intemperanze, nervosismo. «Ma questa è una roba da matti. Hanno perso ogni misura. Su questo sta giocando sul fuoco». Del resto anche i dirigenti di Fratelli d’Italia, non solo le sorelle Meloni, tengono famiglia.
(da L’Espresso)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
I FATTI SI RIFERISCONO ALLE ELEZIONI COMUNALI DI MONCALIERI DEL 2020 QUANDO VENNE DEPENNATO ALL’ULTIMO UN CANDIDATO DOPO AVER PERO’ RACCOLTE LE FIRME CON LA SUA PRESENZA IN LISTA
È stato assolto Riccardo Molinari, il capogruppo della Lega alla Camera dei deputati, dall’accusa di falso nel processo in cui era imputato per la cancellazione della candidatura di Stefano Zaca’ alle elezioni amministrative di Moncalieri del 2020.
L’assoluzione è stata pronunciata anche per gli altri due imputati: il segretario provinciale della Lega Alessandro Benvenuto e per Fabrizio Bruno, uomo di fiducia del Carroccio. Per tutti e tre (assistiti dall’avvocato Luca Gastini) il pm Gianfranco Colace aveva chiesto la condanna a 8 mesi, “il minimo della pena”, ma il giudice Paolo Gallo ha deciso, dopo una camera di consiglio durata circa un’ora, che “il fatto non sussiste”.
Il processo ruotava intorno alla candidatura del medico legale Stefano Zacà, storico esponente di Forza Italia: il suo nome venne improvvisamente cancellato con un tratto di penna dalla lista “Lega Salvini Piemonte”, subito prima della consegna delle liste all’ufficio elettorale. Tuttavia era stato esposto per mesi negli elenchi delle raccolte firme presentate ai cittadini.
«Falsificazione mediante alterazione della lista» era l’accusa di cui dovevano quindi rispondere i tre imputati. Durante le indagini era emerso che si trattava di una sorta di cortesia politica, per evitare cioè uno sgarbo a Forza Italia. E mentre Molinari e Benvenuto secondo il pm “disponevano la cancellazione”, a tracciare quella riga di tratto-pen nero per l’accusa sarebbe stato Bruno.
L’inchiesta era partita da un esposto dei Radicali Italiani da parte di Giulio Manfredi, Silvja Manzi e Silvio Viale con l’avvocato Alberto Ventrini. Zacà si era costituito parte civile.
Al processo avevano testimoniato anche la parlamentare di Forza Italia Claudia Porchietto e l’ex ministro e coordinatore regionale di Forza Italia Paolo Zangrillo (inizialmente indagato e poi archiviato).
Entrambi avevano raccontato in aula lo stupore di quei giorni per la candidatura giudicata inopportuna che violava una sorta di patto non scritto, di non candidare militanti fuoriusciti dai rispettivi partiti. “Ero venuta a saperlo dai giornali” aveva detto Porchietto “rimasi sorpresa e amareggiata”.
(da agenzie)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
GRANE SOVRANISTE: DOPO IL FLOP DEL “MERCANTE IN FIERA” SCOPPIA IL CASO DELLE COLLOCAZIONE DELL’ATTORE: “NON RESTERA’ FERMO, ANCHE SE PAGATO”
Il vero “mercante in fiera” è quello che adesso si gioca tra la Rai e Pino Insegno, almeno stando alle parole del suo manager, Diego Righini, che all’indomani della bocciatura del conduttore per la prossima edizione dell’Eredità, sollecitata dalla società di produzione del programma, Banijay, e accolta dalla Rai (dopo i pessimi risultati del suo Mercante in fiera in termini di ascolti), fa sapere che il suo assistito accetterebbe volentieri un’altra conduzione importante, ma di restare in panchina non se ne parla proprio.
“Il contratto di Pino Insegno è blindato e riguarda la conduzione de Il mercante in fiera e L’eredità, o un programma similare. Quindi se gli propongono la conduzione di Affari tuoi va benissimo, ma se lo lasciano in panchina, ancorché pagato, allora ci muoveremo diversamente”. Righini ne parla con l’agenzia Adnkronos prima di un incontro in programma oggi con Angelo Mellone, il direttore del DayTime Rai.
Affari tuoi, come noto, va in onda su Rai 1 subito dopo il Tg1 delle 20, è (saldamente) condotto da Amadeus e registra una media del 22% con punte del 25%.
“Ancora non ci è stato comunicato niente, né da Banijay né dalla Rai – precisa Righini – e Pino ha già iniziato a lavorare al programma. Spero che l’incontro con Mellone sia chiarificatore anche sul versante dell’alternativa che ci offrono. Ripeto: se tolgono a Pino L’eredità per affidargli Affari tuoi va benissimo, ma non accetteremo che resti in panchina anche se pagato”.
(da agenzie)
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