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FECCIA SOVRANISTA: ALLA FESTA DI AFD IN BRANDEBURGO I NEONAZISTI CANTANO “ADESSO LI DEPORTIAMO, LI DEPORTIAMO TUTTI”

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

IN UN VIDEO SI VEDE ANCHE ANNA LEISTEN, CAPA DELL’ORGANIZZAZIONE GIOVANILE DELL’AFD IN BRANDEBURGO, CHE CANTA MENTRE LA POLIZIA NON INTERVIENE

Domenica alle sei di pomeriggio, poco dopo gli exit poll, l’Afd brandeburghese aveva già acceso la musica per festeggiare il trionfo elettorale in un locale affittato a Potsdam. E dalle casse è rimbombato quasi subito un brano dal ritmo trash e dal refrain tanto stupido quanto agghiacciante: “E adesso andiamo, adesso li deportiamo, li deportiamo tutti”.
In un video di quei momenti, si vede chiaramente Anna Leisten, capa dell’organizzazione giovanile dell’Afd in Brandeburgo, che canta i versi razzisti, e che alza insieme ad altri militanti estasiati un cartello con la scritta “deportiamoli a milioni”. Intorno, parecchi funzionari dell’Afd, bevono birra e sembrano divertiti dalla canzone.
Quest’estate un’altra canzone razzista aveva suscitato un’ondata di indignazione: nell’isola ‘dei ricchi’ Sylt, qualcuno aveva ripreso una manciata di istanti di una festa in cui un gruppo di ragazzi cantava a squarciagola “la Germania ai tedeschi, fuori gli stranieri” sul ritmo di un noto brano da discoteca, “L’amour Toujours” di Gigi D’Agostino.
I proprietari del locale avevano denunciato i protagonisti del video, il cancelliere Olaf Scholz aveva definito “schifoso” l’episodio, la ministra dell’Interno Nancy Faeser aveva stigmatizzato “il profondo razzismo” che emergeva da quell’episodio. Nel video si vede anche un uomo che con due dita sulla bocca imita i baffi di Hitler e alza il braccio destro in un accenno di saluto nazista.
(da agenzie)

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REFERENDUM CITTADINANZA, BOOM DI FIRME, SIAMO GIA’ A 370.000 E IL SITO VA IL TILT PER I TROPPI ACCESSI

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

IL TEMPO STRINGE, OBIETTIVO 500.000 ENTRO IL 30 SETTEMBRE

Quasi 370mila firme. “La raccolta viaggia a una velocità impressionante grazie anche alla mobilitazione di tante personalità della cultura, dello sport, dello spettacolo, dell’accademia, del giornalismo. Questo dimostra due cose: primo, che c’è una volontà enorme di cambiare la legge sulla cittadinanza ingiusta, crudele e incivile; secondo, che gli italiani sono molto più avanti dei vari Meloni, Salvini, Vannacci e Tajani che invece vorrebbero leggi più dure per chi è nato, cresciuto, istruito e vive stabilmente in Italia – dice il segretario di +Europa, Riccardo Magi, sul referendum sulla cittadinanza presentato lo scorso 4 settembre – Ora serve uno sprint finale: manca una settimana da dedicare al raggiungimento delle 500mila firme per andare al referendum il prossimo anno in primavera”.
La piattaforma in tilt
Già in poche ore, però, il sito (referendumcittadinanza.it) è andato in tilt “per i troppi accessi”, come spiegano dal comitato promotore. Nel primo pomeriggio infatti risulta impossibile riuscire a completare la procedura per lasciare la propria firma sulla piattaforma messa a disposizione del ministero della Giustizia, che risulta inaccessibile ormai da ore. Un avviso spiega che il disguido è dovuti a problemi del server. “Stavamo viaggiando a un ritmo di circa 10mila firme all’ora quando la piattaforma pubblica per la raccolta firme del ministero è andata in tilt per le troppe firme –spiega sempre Magi di +Europa – Da circa due ore migliaia di persone stanno provano a firmare per il referendum cittadinanza senza successo, ricevendo messaggi di errore dalla piattaforma. Abbiamo immediatamente segnalato l’episodio agli uffici competenti e aspettiamo una risposta a breve. Resta però gravissimo che una piattaforma governativa, pensata per questo obiettivo, non riesca a tenere il flusso delle firme di queste ore”.
(da agenzie)

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LE AUTOSTRADE LOMBARDO-VENETE SONO UNA PACCHIA PER I PRIVATI, CHE INCASSANO I PEDAGGI, E UNA DISGRAZIA PER LE CASSE PUBBLICHE, CHE SI ACCOLLANO I COSTI

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

LA BREBEMI, LA TANGENZIALE ESTERNA MILANESE E LE DUE PEDEMONTANE HANNO REGISTRATO FINORA UN MILIARDO DI EURO DI PERDITE. A CUI SI AGGIUNGONO 4,6 MILIARDI DI DEBITI… GABANELLI: “È UN FALLIMENTO POLITICO PERCHÉ QUESTE STRADE SEMIDESERTE DAL PEDAGGIO EXTRALUSSO SONO TUTTE FIGLIE DEL DISEGNO DELLE DUE GIUNTE REGIONALI GUIDATE DAL CENTRODESTRA”

Quasi un miliardo di euro di perdite. A cui si aggiungono 4,6 miliardi di debiti che nei prossimi anni potrebbero triplicare. Il fallimento, politico e contabile, del nuovo sistema viabilistico lombardo-veneto sta in questi numeri. Contabile perché le infrastrutture in questione — l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano, la Tangenziale Esterna Milanese e le due Pedemontane, quella lombarda e la veneta — continuano a collezionare pessimi risultati di bilancio a causa del combinato disposto fra bassi incassi e alti costi gestionali.
E poi politico perché queste strade semideserte dal pedaggio extralusso sono tutte figlie di un disegno comune, cioè quello delle due giunte regionali da sempre guidate dal centrodestra, costruito sul «project financing», la soluzione evocata in tutti quei casi in cui le risorse pubbliche scarseggiano.
Funziona così. Il pubblico chiede a un privato di progettare, costruire e gestire un’opera e in cambio gli concede il diritto di sfruttarla attraverso l’incasso dei pedaggi e una garanzia per accedere al credito. Un fiume di denaro da restituire alle banche ma che, dato lo scarso traffico, rimane congelato perché l’attività può continuare grazie a costanti iniezioni di risorse pubbliche. Come si fa, infatti, a far fallire una azienda privata dalle cui sorti dipende un’infrastruttura pubblica?
La Brescia-Bergamo-Milano
La madre di questa contraddizione per la quale il pubblico affida al privato un’opera salvo poi salvarla da se stessa si chiama A35 Brebemi: 62 chilometri di autostrada che collegano la bassa bresciana alla periferia orientale di Milano. Messa in cantiere nel 2009 dalla giunta Formigoni che la riteneva un’opera necessaria, l’investimento iniziale per 1,7 miliardi di euro è stato finanziato da Intesa Sanpaolo, CdP e Bei. Inaugurata nel 2014 ha sempre scontato un grave problema di competitività nei confronti della quasi parallela e più economica A4
Appesantita dai debiti e rallentata da un pedaggio che è il doppio rispetto alla A4 (13,9 euro contro 5,6 per lo stesso tragitto), dal 2016 Brebemi ha cominciato a beneficiare di contributi pubblici per un totale di 360 milioni di euro. Un «project financing» di fatto sostenuto da soldi pubblici, mentre a incassare il pedaggio è una società privata.
Tangenziale Est esterna
Malgrado difficoltà e insuccessi, il modello Brebemi viene riproposto anche nella genesi di Tangenziale Est esterna, concepita dalla giunta Maroni per collegare la Brebemi alla A4 e alla A1 Milano-Napoli. Attiva dal 2015, recentemente è passata da Autostrade per l’Italia al gruppo Gavio. Nel 2023 la Teem è andata in rosso di 4,2 milioni su un giro d’affari di 85 portando il suo passivo totale a quota 170 milioni e il suo indebitamento oltre 1,1 miliardi. Per il futuro, anche in questo caso Gavio non scommette tanto su un (improbabile) incremento del traffico, quanto su un aumento dei pedaggi: più 4,34% nel 2023 e un più 2,3% nel 2024.
Pedemontana lombarda
Poi c’è la grande incompiuta: la A36, nota come Pedemontana lombarda che, con un esborso di 3,5 miliardi, contende all’A35 il primato di autostrada più costosa d’Italia. Nel bilancio 2023 sono segnati 11,9 milioni di rosso, facendo così salire a oltre 106 milioni le perdite pregresse. Socio di controllo è in questo caso un ente al 100% pubblico, cioè la Regione Lombardia, seguita da Milano Serravalle-Milano Tangenziali, a sua volta controllata da Ferrovie Nord Milano, il cui 57% è sempre in mano a Regione Lombardia.
Nei conti pesano i 37 milioni di oneri pagati sul finanziamento di 900 milioni erogato da Regione Lombardia a cui si aggiungono gli 1,7 miliardi erogati da Bei e CdP e altri 606 milioni di euro da qui al 2031 (175 di prestito e 431 di aumento di capitale grazie a una norma ad hoc per consentire il ripiano delle perdite attese inserita nel decreto Pnnr 4 nonostante Pedemontana non abbia a che vedere con il Piano di resilienza ) deliberati dalla giunta della Regione Lombardia il 5 agosto per realizzare i 26 km di collegamento della Pedemontana alla Tangenziale Est A51.
Lo scopo era quello di velocizzare gli spostamenti nell’area nord di Milano, collegando le province di Varese, Bergamo e i due aeroporti, Malpensa e Orio. La prima tratta collegata al raccordo con la A8 è stata aperta nel 2015, invece per il tratto di connessione alla A4 non sono ancora iniziati i lavori. Qui però non ci sarà un nuovo tracciato, ma si trasformeranno in autostrada i 10 km della Milano-Meda entro l’inizio delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026.
Pedemontana veneta
Il «project financing» piace anche agli amministratori veneti. Le stesse logiche sono state infatti applicate all’opera che, almeno sulla carta, dovrebbe alleggerire dal traffico l’autostrada Serenissima, vero cancello d’entrata in Italia di tutto il traffico merci proveniente dall’Est Europa. Una gestazione iniziata nel 1990.
La società individuata dal «project financing» è la Sis, formata dal gruppo piemontese Fininc e dagli spagnoli di Sacyr Vallehermoso e di Itinere Infraestructuras Sa. I lavori, iniziati nel 2012, si sono conclusi la scorsa primavera, e il 25 giugno al casello di Montecchio Maggiore per l’inaugurazione era presente lo stesso governatore veneto Luca Zaia, che ha dichiarato: «Gli studi dicono che rimarremo in passivo per i prossimi nove anni».
Il costo finale ipotizzato dalla Corte dei Conti è di 12 miliardi di euro. Ma come si è arrivati a questa somma? Come detto, in un ordinario «project financing» il titolare della concessione compensa le spese – e fa profitto, in genere – attraverso i pedaggi, mentre per la Pedemontana questa impostazione è stata ribaltata nel 2017.
Non riuscendo i privati a ottenere dalle banche le linee di credito necessarie per finanziare i cantieri, la Regione ha quindi proposto una soluzione inedita: accollarsi il rischio d’impresa impegnandosi a versare ogni anno un contributo ai privati, in media circa 300 milioni di euro a tranche per i 39 anni di concessione, in cambio dei ricavi generati dai pedaggi.
Il ruolo dello Stato
Bilanci in rosso, gravi esposizioni finanziarie, pedaggi fuori mercato e poco traffico. Evidentemente nella pianificazione delle opere qualcosa non ha funzionato. Palazzo Lombardia e Palazzo Balbi da tempo, silentemente, stanno cercando una «exit strategy» per salvare la faccia e il portafogli, e in barba ai proclami sull’autonomia, Veneto e Lombardia hanno finito per chiedere aiuto a Roma.
In particolare al compagno di partito Matteo Salvini che siede al ministero delle Infrastrutture, ed è l’autore di una riforma che, in linea con le richieste europee, dovrebbe semplificare la selva oscura delle concessioni autostradali. Si tratta del Ddl Concorrenza 2023, che ha ricevuto il via libera dal Consiglio dei ministri a luglio 2024. Nella bozza iniziale conteneva al Capo 1 «Disposizioni in tema di riordino delle concessioni autostradali» un articolo, il n. 16: «Possibilità di trasferire al Mit entro 60 giorni le tratte autostradali a pedaggio per le quali lo stesso non riveste funzioni di concedente».
Vale a dire quelle tratte in difficoltà finanziaria. Nella versione definitiva, che dovrà essere votata nei prossimi mesi dal parlamento, di questo articolo non c’è più traccia. Nessuno però esclude che il tema possa rientrare con un emendamento. Del resto un’autostrada una volta aperta, se i pedaggi non ripagano i costi, o la prende in carico la Regione che l’ha voluta, o le casse dello Stato. L’alternativa non c’è.
(da Il Corriere della Sera)

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VANNACCI NON HA ANCORA FATTO IL PARTITO MA GIÀ PARTE CON LE ESPULSIONI: IL GIORNALISTA MARCO BELVISO, REFERENTE PER IL NORDEST DELL’ASSOCIAZIONE “IL MONDO AL CONTRARIO”, È STATO CACCIATO

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

LA SUA COLPA? AVER RILASCIATO UN’INTERVISTA AL QUOTIDIANO “IL TEMPO”, DOVE SOSTENEVA CHE SECONDO LUI VANNACCI DOVREBBE SPOSTARE A DESTRA LA LINEA DELLA LEGA

Il partito non esiste ancora, ma fra i vannacciani sono già cominciate rese dei conti ed espulsioni.
La prima testimonianza arriva dal Veneto e riguarda uno dei quadri dell’associazione “Il Mondo al Contrario”, la prima e anche la più strutturata fra le varie sigle che un po’ in tutta Italia seguono il generale eletto come eurodeputato indipendente nelle liste della Lega.
Marco Belviso, giornalista e referente per il Nord Est oltre che fondatore in prima persona del movimento Gli amici del Nord Est per Vannacci, ha infatti pubblicato sui social un documento di espulsione spiegando che domenica pomeriggio tre esponenti di primo piano del Mondo al Contrario (il presidente Fabio Filomeni, il segretario Bruno Spatara e il tesoriere Gianluca Priolo) si sono presentati a casa sua a Mestre chiedendogli di sottoscriverlo.
Tecnicamente una seduta straordinaria del Consiglio di gestione del movimento che il 23 novembre a Grosseto comincerà la sua trasformazione da soggetto culturale a soggetto politico. La colpa di Belviso? Aver rilasciato un’intervista al quotidiano Il Tempo dove sosteneva che secondo lui Vannacci dovrebbe, prima ancora che fondare un suo partito, spostare a destra la linea della Lega in opposizione ai governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga.
Il documento di epurazione cita l’articolo 3.4 sui diritti e doveri degli iscritti che vieta di parlare pubblicamente di cose diverse dai contenuti del libro del generale e le raccomandazioni più volte espresse da Filomeni sulla necessità di astenersi da commenti politici e in particolare modo sul Carroccio.
«Sono circa le 17 di domenica pomeriggio quando ricevo un messaggio whatsapp di una persona che reputo un amico e mi comunica che sta per arrivare dalla Toscana a casa mia; suona il citofono, apro la porta ma assieme a lui si presentano altre due persone che vedo personalmente per la prima volta- scrive Belviso su Facebook-. Toni duri, mi dicono di restare in piedi e mi intimano di interrompere la mia professione di giornalista; poi estraggono un foglio che vogliono che firmi immediatamente.
I loro toni si fanno più minacciosi, la loro voce si alza, partono delle minacce neanche tanto velate. Suona nuovamente il citofono, così i tre scendono velocemente e salgono a bordo di una vettura nera con un quarto uomo al posto di guida, restato in attesa, con il motore acceso».
Il documento di espulsione, che Belviso non ha firmato, sembra comunque non ammettere repliche o ulteriori chiarimenti.
Il presidente Filomeni, contattato da La Stampa, lo conferma ulteriormente: «La lettera del Comitato di Gestione consegnata al sig. Belviso e dallo stesso resa pubblica è già eloquente sulle motivazioni della sua espulsione dal Comitato del quale ad oggi non ne fa più parte e non può parlare a nome dello stesso. Se questo signore persiste nell’esprimersi in termini lesivi dell’onorabilità del Comitato o dei suoi appartenenti ci vedremo costretti a rivolgerci nelle sedi opportune».
(da agenzie)

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MAXI FIGURA DI MERDA PER PUTIN: IL RAZZO RUSSO “SARMAT”, IN GRADO DI TRASPORTARE TESTATE NUCLEARI, È ESPLOSO SULLA RAMPA DI LANCIO DELLA BASE MILITARE DI PLESETSK

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

E’ UN GRANDE FALLIMENTO PER “MAD-VLAD”, CHE PUNTAVA SULL’ARMA PER “RESTITUIRE ALLA RUSSIA LA SUPREMAZIA NUCLEARE SULLA NATO”… IL PRESIDENTE DELLA DUMA VOLODIN, PARLANDO DEL MISSILE, AVEVA DETTO CHE SAREBBE STATO IN GRADO DI “RAGGIUNGERE STRASBURGO IN TRE MINUTI”, MA È UNA FETECCHIA

Le foto scattate dai satelliti sul poligono alle porte dell’Artico mostrano lo scenario del disastro: un cratere enorme circondato da un’area totalmente carbonizzata. Elementi che sembrano confermare l’esito fallimentare del test del supermissile intercontinentale Sarmat, una delle armi volute da Vladimir Putin per restituire alla Russia la supremazia nucleare sulla Nato.
L’ordigno sarebbe esploso venerdì durante il caricamento del combustibile liquido, distruggendo il silos di lancio e tutte le installazioni della base di Plesetsk, fino a disperdere le fiamme nei boschi confinanti: due giorni dopo c’erano ancora i pompieri impegnati a spegnere incendi.
Ufficialmente il Sarmat è stato dichiarato operativo da Mosca nel settembre 2023 e il Cremlino ne ha annunciato la distribuzione ai reparti a cui è affidato “l’equilibrio del terrore” atomico. Pochi giorni fa, il presidente della Duma Volodin ha addirittura minacciato il Parlamento Ue dopo il voto sulle armi a lungo raggio per Kiev, evocando proprio il Sarmat che «può raggiungere Strasburgo in tre minuti». Insomma, è diventato un’icona della riscossa russa.
Lo RS-28, alcune volte chiamato Satan II, è un ordigno colossale: pesa oltre 208 tonnellate ed è lungo 35 metri. Il propulsore a tre stadi gli dovrebbe permettergli di colpire a 18 mila chilometri di distanza, anche se fonti russe hanno parlato della capacità di volo sub-orbitale pari a oltre 35 mila chilometri: un drago che si aggira fuori dall’atmosfera in attesa di seminare un carico terribile.
La sua caratteristica infatti è quella di poter rilasciare sedici ogive termonucleari o in alternative tre navette ipersoniche Avangard che planano manovrando sugli obiettivi a ventimila chilometri orari. Un dispositivo apocalittico che i sistemi di difesa della Nato non sono in grado di intercettare.
Il progetto è cominciato dieci anni fa ed è stato magnificato in un discorso del presidente Putin nel 2018. Il 20 aprile 2022, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, c’è stato l’unico lancio di prova completo, che avrebbe dimostrato il funzionamento dei tre stadi del missile. Da allora però non risultano altri test conclusi con successo.
(da agenzie)

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A BERLINO L’ASILO NIDO COSTA 23 EURO, IN ITALIA QUASI UNO STIPENDIO

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

E POI PARLANO DI AIUTO ALLE FAMIGLIE

Tra Catania e Berlino ci sono 2.268 km. Da Roma sono “solo” 1.500. Quando Martina Mondati, genitori siciliani e suoceri residenti all’ombra del Colosseo, ha deciso di avere un bebè sapeva benissimo che non avrebbe potuto usufruire dell’aiuto non occasionale dei nonni. Troppo lontani. Ma non ci ha pensato nemmeno un attimo a rinunciare al suo legittimo desiderio di diventare mamma. E così nel 2022 è arrivata Mariavittoria, poi quest’anno, il 15 agosto, ha bissato con la nascita di Eleonora. Martina e il marito Jacopo vivono a Berlino da sette anni. Entrambi brillanti laureati in Economia sono due «cervelli in fuga» dall’Italia. Lei, 32 anni, è director del reparto assunzioni di tutta l’area Europa, Middle Est e Africa, di Gea group, multinazionale leader mondiale nella fornitura di macchinari per l’industria. Lui, due anni più grande, è manager nel reparto finanza di una grande azienda di delivery food.
Il contrasto con l’Italia: servizi carenti e bassa natalità
A Berlino si trovano così bene che da un paio di anni hanno acquistato casa. «È un ambiente più stimolante di quello che si può trovare in una grande città italiana, soprattutto dal punto di vista delle opportunità professionali. Pagano di più e fai più velocemente carriera», racconta Martina. Ma c’è anche un altro aspetto che i due giovani italiani apprezzano moltissimo: i supporti alla maternità e i servizi per l’infanzia. «Subito dopo che Mariavittoria ha spento la prima candelina, sono tornata a dirigere il mio team in azienda. Ero tranquillissima perché nel frattempo per Mariavittoria avevo ottenuto un posto in un asilo nido pubblico vicino casa. Orario 8-18. Costo 23 euro al mese, tutto compreso, anche i pasti». Nessun problema, nessuna angoscia. Martina tiene comunque a sottolineare: «Sono stata fortunata. Non è così in tutta la Germania, Berlino in questo senso è una sorta di isola felice». In questo contesto rientra anche un altro servizio: l’assistenza alle neomamme, che inizia già molti mesi prima del parto, con un’ostetrica dedicata. Tutto a carico del servizio sanitario pubblico. «Mi ha preparato all’evento, e poi una volta uscita dall’ospedale, è venuta regolarmente a casa. Mi ha spiegato come allattare, come cambiare i pannolini, come fare il bagnetto. Non mi sono mai sentita “persa”», racconta ancora Martina mentre tiene in braccio la piccola Eleonora che, durante tutto il colloquio telefonico, sta buona buona e non piange mai. La storia di questa coppia di giovani italiani all’estero, dovrebbe far riflettere molto i nostri governanti, passati, presenti e futuri.
Le sfide del sistema italiano e il piano nazionale
Quest’anno probabilmente toccheremo il record negativo di neonati: nel primo semestre sono stati solo 178 mila e con questo trend si prevede una chiusura 2024 a 374 mila nuovi bimbi, cinquemila in meno rispetto al record negativo toccato nel 2023. Le «culle vuote» non dipendono soltanto da una questione economica. Certo qualche soldino in più serve e a brevissimo vedremo se davvero il Pbs, il piano strutturale di bilancio che il governo deve presentare a Bruxelles, aumenterà i sostegni alla natalità e alla maternità per arrivare a maggiori detrazioni e aiuti per le famiglie con figli, come promesso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e dalla stessa premier Giorgia Meloni. Per l’assegno unico universale nel 2024 sono stati stanziati 20 miliardi di euro.
Ma la vera differenza sono i servizi reali su cui può contare una giovane donna che non vuole rinunciare né alla carriera né al desiderio di diventare mamma. Ebbene, da noi definirli carenti è un eufemismo. Secondo gli ultimi dati Eurostat (aggiornati a luglio scorso e relativi al 2023) la percentuale di bambini sotto i tre anni di età che frequentano gli asili nido in Italia è al 34,5%. In Olanda siamo al 73,3%, in Danimarca al 69,9%, nel Lussemburgo al 60%, in Francia al 57,4%, in Belgio al 56,3%, in Spagna al 55,8%. Non è un caso che tutti questi Paesi hanno un tasso di occupazione femminile molto più alto del nostro striminzito 57,2% (Eurostat, dati relativi al secondo quadrimestre 2024): in Olanda è al 79,9%, in Danimarca è al 73,3%, in Francia e Lussemburgo è al 72,2%, in Belgio al 68,6%, in Spagna al 66,5%. In Germania ha un impiego il 77,8% delle donne in età lavorativa. La correlazione tra disponibilità di asili e occupazione femminile è evidente. C’è poco da meravigliarsi, quindi, se l’Italia è al terzultimo posto nell’Ue per la nascita di bebè con un tasso di fecondità pari a 1,2 figli a donna. Tra l’altro quel dato sugli asili nido italiani pari al 34,5% è fuorviante. Come tutte le medie, ci sono aree che hanno una copertura maggiore (il Nord) e zone dove siamo fermi al 16% (gran parte del Sud). Raggiungere il target fissato dalla legge di Bilancio del 2022, ovvero 33 posti disponibili ogni cento bambini sotto i tre anni entro il 2027 in tutto il territorio nazionale, sembra davvero difficile. Così come appare quasi un miraggio il raggiungimento del 45% previsto a livello europeo entro il 2030. In molti contavano sul Pnrr (missione M4C1-18 dedicata al potenziamento dei servizi per l’infanzia), ma con l’ultima revisione c’è da segnalare un ridimensionamento: la cifra proveniente dai fondi Pnnr a disposizione del “Piano asili nido e scuole dell’infanzia” pari complessivamente a 4,6 miliardi di euro è diminuita di 1,3 miliardi di euro, il numero di nuovi posti disponibile da creare è stato più che dimezzato passando da un obiettivo iniziale di 264.480 a 150.480. Tagli decisi in seguito all’inerzia di molti Comuni che non hanno presentato la documentazione sufficiente (in molti casi nemmeno la richiesta) per l’accesso ai finanziamenti e per l’avvio dei cantieri, nonostante le proroghe concesse dai nuovi bandi. E anche i Comuni più solerti, che si erano già aggiudicati i finanziamenti, secondo quanto risulta dall’indagine della Corte dei Conti alla base della delibera n. 20 del 2022, dopo otto mesi ancora non avevano proceduto alle aggiudicazioni del lavori. Ritardi che hanno costretto il governo a modificare il cronoprogramma del piano, con il rinvio delle graduatorie.
Prospettive future e le dichiarazioni del Governo
In aula a Montecitorio, in seguito a un’interrogazione del Pd del giugno scorso, il governo ha comunque negato tagli ai finanziamenti sugli asili nido. «La revisione del Piano non ha abbassato le ambizioni del Pnrr Istruzione, né ha ridotto gli investimenti complessivi. Abbiamo appena adottato un nuovo Piano Asili del valore di 734,9 milioni di euro, finanziato con risorse nazionali ulteriori rispetto a quelle del Pnrr», ha affermato il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. Aggiungendo di avere chiesto «ad altri ministeri competenti le ulteriori risorse necessarie per raggiungere l’obiettivo, concordato con la Commissione Europea, di 150 mila posti». Ecco, appunto: nei programmi originari dovevano essere oltre 260 mila. Di questo passo per ancora troppe giovani mamme italiane conciliare maternità e lavoro resterà un percorso a ostacoli.
(da lespresso.it)

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PER LA MELONI VIENE PRIMA LA FAMIGLIA: LA SUA

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

PARENTI D’ITALIA OVUNQUE, MA ZERO TRASPARENZA, NOMINE E CONFLITTI DI INTERESSE SENZA FRENI… NEGLI STAFF MOGLIE MARITI, FIGLI D’ARTE ELETTI IN PARLAMENTO

Parenti dei ministri eletti in Europa, incarichi pubblici che passano da marito a moglie, riunioni di partito che, infine, somigliano a pranzi di Natale in famiglia. Il fatto che l’Antitrust richiami il governo a una maggiore trasparenza sui potenziali conflitti di interessi familiari non è cosa da poco, se il governo in questione è guidato da un partito, Fratelli d’Italia, che è un grande albero genealogico.
Non c’è solo il caso più noto, ovvero quello di Arianna Meloni, sorella di Giorgia e per anni compagna di vita del ministro Francesco Lollobrigida. Il groviglio di parentele e poltrone in FdI è un elenco corposo e non risparmia i più alti livello del partito e dello Stato.
A partire dal cerchio di fiducia della premier. La segretaria particolare di Meloni è Patrizia Scurti, il cui marito, Giuseppe Napoli, è capo-scorta della premier. La nipote di Scurti si chiama Camilla Trombetti: lavora con Giovan Battista Fazzolari. Altra vicenda celebre riguarda il presidente del Senato Ignazio La Russa. Suo fratello Romano è da anni uno dei volti noti di An e FdI in Lombardia, Regione della quale è assessore alla Sicurezza. Il genero di Romano La Russa è Marco Osnato, deputato da due legislature dopo una lunga militanza milanese. Il figlio di Ignazio è invece Geronimo La Russa, numero 1 della sezione milanese dell’Automobile Club Italia, ma pure nominato dal ministero della Cultura (gestione Gennaro Sangiuliano) nel Consiglio d’amministrazione del Piccolo Teatro di Milano.
L’area di competenza è la stessa di Mario Mantovani, appena eletto a Bruxelles. Già dominus della politica sanitaria lombarda, è uscito pulito da un lungo processo sugli appalti e si è preso la sua rivincita. Negli anni di lontananza dalla politica, nel partito ha fatto strada la figlia, Lucrezia Mantovani, eletta due volte alla Camera.
Il caso degli eurodeputati di FdI merita un capitolo a parte. Detto di Mantovani, nella pattuglia degli eletti ci sono ben due parenti di ministri meloniani. Per entrambi basta il cognome: Giovanni Crosetto e Alessandro Ciriani. Il primo è nipote di Guido, titolare della Difesa. È arrivato a Bruxelles dopo essere stato consigliere comunale a Torino. Il secondo è fratello di Luca Ciriani, ministro per i Rapporti col Parlamento, e per volare in Ue ha lasciato dopo anni otto la carica di sindaco di Pordenone.
Poi c’è un’altra euro-onorevole, Antonella Sberna, vicina ad Arianna Meloni e divenuta vice-presidente del Parlamento dell’Unione, in grado di coniugare lavoro e famiglia: il marito è Daniele Sabatini, consigliere regionale FdI nel Lazio. Accanto a Sberna, sempre a Bruxelles, siede il catanese Ruggero Razza: negli ultimi due anni la moglie Elena Pagana è stata assessora regionale in Sicilia, prendendo idealmente il posto del marito (a sua volta ex assessore di Nello Musumeci).
L’effetto domino è esilarante se si pensa che Pagana ha di recente lasciato la poltrona alla meloniana Giusi Savarino, il cui marito, Giuseppe Catania, siede all’Assemblea regionale. Cose che capitano, una specie di linea ereditaria sui generis. D’altra parte in Sicilia era già successo che l’onorevole Giovanni Luca Cannata, dopo due mandati a sindaco di Avola, non potendosi ricandidare lanciasse la corsa della sorella Rossana Cannata, tutt’oggi sindaca.
Ma sono i piani alti del governo a dare altre soddisfazioni. Un anno fa è stato designato nuovo direttore dell’Istituto Superiore di Sanità il professor Rocco Bellantone, stimato chirurgo di cui presto si è scoperta una insolita parentela: è lontano cugino di Giovan Battista Fazzolari, sottosegretario a Palazzo Chigi. “Siamo parenti di quinto grado”, minimizzò il factotum di Giorgia Meloni. Confermando però il legame.
Poi ci sono altri tre casi di governo. Uno è Andrea Delmastro, uomo di partito al ministero della Giustizia. La sorella, Francesca Delmastro, è sindaca di Rosazza, il paesino in provincia di Biella divenuto noto per il cenone pulp di Capodanno dell’anno scorso, quando l’onorevole Emanuele Pozzolo ebbe la brillante idea di presentarsi con una pistola (e di usarla pure).
Ai Delmastro fanno concorrenza i Cirielli. Edmondo Cirielli è viceministro degli Esteri in grande ascesa, al punto che si parla con insistenza di una sua possibile promozione a ministro quando Meloni deciderà di ridistribuire le deleghe finora in capo a Raffaele Fitto. A Cirielli potrebbe toccare il Sud, così in famiglia si brinderebbe alla seconda importante novità in pochi mesi.
Nel giugno scorso infatti il Cdm, su proposta del ministro della Salute Orazio Schillaci, ha nominato Capo del dipartimento prevenzione e emergenze sanitarie la dottoressa Maria Rosaria Campitiello, dirigente dell’Asl di Salerno e al contempo compagna di Cirielli. Da qualche tempo, la dottoressa guidava la segreteria tecnica di Schillaci. Infine c’è il nuovo ministro della Cultura Alessandro Giuli, la cui sorella Alessandra lavora
Tutto materiale da cui un’altra ministra, Daniela Santanchè, deve prendere nota. Anche lei ha famiglia, dopotutto. Il fratello, Massimo Garnero, è al secondo mandato da consigliere comunale a Cuneo, ma aspetta miglior fortuna: si era parlato di lui come possibile candidato alle ultime elezioni regionali in Piemonte, ma i guai giudiziari della sorella-ministra hanno forse suggerito di non esporlo troppo. Sarà per la prossima. Anche perché in Piemonte il seggio è toccato a Daniela Cameroni, compagna di vita del senatore Gaetano Nastri.
Il viaggio nel corpaccione dei parlamentari è in effetti un’altra mappa del tesoro per chi cerca parentele di rilievo. Marco Scurria, eletto a Palazzo Madama, è cognato di Fabio Rampelli, il “Gabbiano” di lunga data ormai alla sesta legislatura alla Camera. L’onorevole napoletana Marta Schifone è figlia di Luciano, già europarlamentare oltreché consigliere regionale in Campania, il cui ultimo incarico è quello di consigliere per il Mezzogiorno del fu ministro Sangiuliano. E non c’è bisogno di lunghe presentazioni se si parla della senatrice e sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti, ma soprattutto del padre Pino, storia del Movimento sociale. Isabella Rauti è stata anche moglie di Gianni Alemanno, che da tempo però ha separato la propria strada politica da quella di Meloni.
Sempre in Senato c’è Paola Amborgio, il cui marito, Roberto Ravello, fu assessore in Piemonte ai tempi di Roberto Cota e ora è tornato consigliere regionale. Alla Camera ecco Andrea Tremaglia, al primo mandato. Il padre Marzio, scomparso giovane, è stato assessore in Lombardia. Suo nonno era invece Mirko Tremaglia, tra i più noti missini delle origini che riuscì a diventare ministro per gli Italiani nel mondo nel secondo governo Berlusconi. Eredità pesante, come quella che tocca al senatore Sergio Rastrelli, a sua volta figlio di una colonna Msi come Andrea Rastrelli, che fu pure presidente della Regione Campania. Tutto in famiglia, come tradizione.
(da ilfattoquotidiano.it)

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PAZIENTI IN FUGA DAL SUD, L’ESODO CHE FA PIU’ RICCHI GLI OSPEDALI DEL NORD

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

IL DATO RECORD DELLA LOMBARDIA CHE INCASSA UN MILIARDO DI EURO

Si spacca sempre di più la Sanità italiana. Con la distanza tra la qualità dell’assistenza nelle Regioni che aumenta. A rivelarlo è un indicatore fondamentale: l’esodo dei pazienti. L’anno scorso, raccontano i dati delle stesse amministrazioni locali, i viaggi per fare interventi chirurgici, terapie ed esami diagnostici sono aumentati ancora, superando i livelli raggiunti prima del Covid. Sono ormai oltre mezzo milione le persone che si spostano.
I rischi dell’autonomia differenziata
La riforma dell’autonomia differenziata non è ancora realtà, ma il sistema di cura degli italiani è già spezzettato. La cosa rende assai fosche le previsioni su un futuro nel quale chi le Regioni ricche lo diventeranno ancora di più e attrarranno nuovi pazienti e professionisti, questi ultimi allettati con stipendi più altiche. Le Regioni povere, che vedranno ridursi le risorse perché i finanziamenti arriveranno dalle tasse incassate nelle realtà locali, staranno ancora peggio.
La vicenda del farmaco per il virus respiratorio sinciziale è una spia dei rischi legati alla regionalizzazione spinta, soprattutto perché ha dimostrato che se le trattative per i prezzi avvengono in ogni Regione, e non a livello centrale, possono esserci problemi, che in questo caso si sono ripercossi sulle realtà in piano di rientro, perché hanno i bilanci in rosso.
I 230 mila pazienti che si spostano
Ma se si osservano i numeri dei cosiddetti viaggi della speranza, le difficoltà sono ancora più evidenti. In un anno, secondo i dati raccolti dall’agenzia sanitaria delle Regioni, l’Agenas, sono stati circa 230 mila i cittadini delle realtà in piano di rientro (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). Il dato è del 2022. Nel 2023 le cose peggiorate.
Ogni prestazione sanitaria ha un costo e annualmente le Regioni calcolano quelle offerte ai pazienti arrivati dalle altre città. Serve a suddividersi il Fondo sanitario nazionale, perché chi ha elargito più prestazioni a chi è arrivato da fuori deve essere compensato. Il calcolo di quanto spetta a ciascuna Regione si realizza facendo la differenza tra le spese per i propri pazienti andati altrove e gli incassi per i malati arrivati. Esistono spostamenti fisiologici, perché magari riguardano chi vive al confine tra due regioni oppure chi ha un’urgenza quando si trova lontano da casa. Poi ci sono le scelte di chi cerca altrove l’assistenza.
I viaggi costano 4,6 miliardi
Da pochi giorni la Conferenza delle Regioni ha calcolato il valore della mobilità sanitaria nel 2023. Ebbene, il dato totale è di 4,6 miliardi di euro, contro i 4,3 del 2022. Negli anni del Covid, 2020 e 2021, i numeri erano scesi perché le persone si sono spostate meno. Ma nel 2019 si era arrivati a 4,5 miliardi, quindi la corsa è ripresa.
I dati delle Regioni
Analizzando i risultati delle singole Regioni, si osserva come chi era già attrattivo, lo è diventato ancora di più. È il caso principalmente di tre realtà. La prima, come da tradizione, è la Lombardia. Ha incassato un miliardo di euro (dato record) e ha speso 421 milioni per i suoi abitanti che si sono curati fuori. Il saldo è quindi positivo per ben 579 milioni. Come detto c’è stata una crescita, visto che nel 2022 era a 550 milioni. La seconda realtà più attrattiva è l’Emilia-Romagna, che ha registrato una crescita ancora più importante. Il saldo tra denaro entrato per curare cittadini di altre Regioni (723 milioni) e di quello uscito è di 465 milioni, contro i 407 dell’anno precedente (+14%). Poi c’è il Veneto, con il saldo che passa da 176 a 189 milioni. La quarta Regione è la Toscana, che però è l’unica a scendere (da 63 a 58 milioni). Sono queste le realtà sanitarie più forti del Paese, le altre vanno tutte in negativo, a parte Trentino, Alto Adige e Molise (+22 milioni) che è in piano di rientro.
E tra chi finisce in rosso chi va peggio? Manco a dirlo, le altre Regioni in piano di rientro. Tra l’altro, quasi tutte peggiorano. Il saldo più pesante lo ha la Calabria (—295 milioni), che tra il 2022 e il 2023 ha superato la Campania (che è a —285) in fatto di passivo più alto. La Sicilia è a —221, la Puglia a —198, il Lazio a — 71 e l’Abruzzo a —90 (dato però migliore dell’anno precedente). La Liguria, che non ha mai sfondato il bilancio, non sta comunque bene: è a —99 milioni.
(da agenzie)

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SONDAGGIO DEMOS: IL CAMPO LARGO DA SOLO NON BASTA

Settembre 23rd, 2024 Riccardo Fucile

APPREZZATO DALLA BASE DEL PD MA MANCA ANCORA UN CONSENSO TRASVERSALE TRA GLI ELETTORI CHE NOTORIAMENTE NON CAPISCONO UNA MAZZA

È sempre più evidente: le profonde divisioni all’interno dell’opposizione, in particolare nel campo del centrosinistra, sono uno dei punti di forza dell’attuale governo di Giorgia Meloni. E lo conferma ancora una volta il sondaggio condotto da Demos nelle scorse settimane e su cui il sociologo e politologo Ilvio Diamanti ha costruito un’analisi su la Repubblica. La frammentazione, spiega il sociologo, impedisce alla sinistra di costituire un’alternativa credibile, un tema che torna con costanza, come già emerso anche durante le elezioni europee dello scorso giugno. E la situazione politica attuale non fa che riproporre la questione. La coalizione di centrosinistra appare divisa e incapace di unire le sue anime diverse.
Elettorato e tensioni interne
Le tensioni interne non risparmiano nessuno: il Movimento 5 Stelle è scosso dal conflitto fra il leader Giuseppe Conte e il fondatore Beppe Grillo, mentre nel cosiddetto Terzo Polo le frizioni tra Carlo Calenda, Matteo Renzi e altri protagonisti non accennano a diminuire. Al contempo, la leader del Pd, Elly Schlein, sembra in difficoltà non solo all’interno del suo partito, ma soprattutto nel ruolo di riferimento comune in grado di aggregare le forze politiche del centrosinistra e costruire quel campo largo tanto auspicato. Il sondaggio Demos, evidenzia Diamanti, conferma questa difficoltà.
Se gli elettori del Pd sembrano aperti a ogni possibile alleanza, raccogliendo quasi il 60% di consenso verso un’ampia coalizione con il Movimento 5 Stelle e le forze centriste come Azione, Italia Viva e +Europa, la situazione cambia drasticamente quando si osservano gli altri elettorati. Gli elettori del Movimento 5 Stelle, per esempio, sono poco inclini a sostenere un’alleanza tra Pd e Terzo Polo, con il favore che scende al di sotto del 20%. Tra i sostenitori di Italia Viva, +Europa e Azione, il sostegno a un’alleanza con il Movimento 5 Stelle non supera il 27%.
Una via obbligata, ma stretta
Questi numeri evidenziano una realtà frammentata: il campo largo è apprezzato soprattutto dalla base del Pd, ma manca un consenso trasversale tra gli elettori delle altre forze politiche, che si percepiscono più come concorrenti che come potenziali alleati. Nonostante il “campo largo” rappresenti «una via obbligata (seppur stretta)» per il centrosinistra, secondo Diamanti il sondaggio Demos mostra come questo da solo non possa bastare.
(da La Repubblica)

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