Destra di Popolo.net

MAI SUCCESSO CHE LA LISTA DEI NUOVI AMBASCIATORI, SCODELLATA DA TAJANI, VENISSE SOSPESA PER L’OPPOSIZIONE DI UN MINISTRO (URSO) IRATO PERCHÉ IL SUO CONSIGLIERE DIPLOMATICO È FINITO A NAIROBI ANZICHÉ A BUCAREST

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

DAL CDM SONO USCITI SOLO GLI AMBASCIATORI STRETTAMENTE URGENTI. ALLA NATO SBARCA AZZONI, MENTRE PERONACI VOLA A WASHINGTON… IL MALDESTRO MARIO VATTANI IN GIAPPONE, ANCHE SE ERA WASHINGTON LA SCELTA IDEALE DELLA FIAMMA MAGICA (MATTARELLA AVREBBE SBARRATO IL PASSO)

Mai era successo che la lista dei nuovi ambasciatori, scodellata da ministro degli Esteri, Antonio Tajani, venisse sospesa per l’opposizione di un ministro.
Adolfo Urso, infatti, si è imbufalito perché il suo consigliere diplomatico Vincenzo Del Monaco è finito a Nairobi anziché a Bucarest.
E il premier Meloni ha dato ragione al ministro dello Sviluppo e dal Consigli dei ministri sono usciti solo gli ambasciatori strettamente urgenti.
A partire dalla Nato (il 24 giugno è in agenda il vertice dell’Alleanza atlantica, dove dalla presidenza del Consiglio sbarca Alessandro Azzoni, occupando il posto di Marco Peronaci che vola a Washington.
E’ la prima volta che la poltrona della più importante sede diplomatica viene occupata da un ministro plenipotenziari anziché da un ambasciatore di grado.
Ovviamente non avviene per caso: in barba a Tajani che non lo voleva, Meloni ha apprezzato la svolta a destra di Peronaci; ma soprattutto sa che fra due anni terminerà per ragioni di età il suo mandato ed è già pronto a prendere il suo posto il fido consigliere
diplomatico di Lady Giorgia, Fabrizio Saggio.
È stato indicato anche il post-fascio Mario Vattani, attuale Commissario generale per l’Italia a Expo 2025 Osaka, come ambasciatore italiano in Giappone. Molti, a partire da Sergio Mattarella, avrebbero criticato una sua destinazione a Washington, anche se era la scelta ideale della Fiamma Magica di Palazzo Chigi.
Le altre nomine che doveva uscire dal cilindro del consiglio dei ministri ma l’ira di Urso ha messo in stand-by sono: all’Avana Simona De Martino al posto di Roberto Vellano; a Budapest Giuseppe Scognamiglio al posto di Manuel Jacoangeli; Laura Aghilarre successore di Alfredo Durante Mangoni; all’ONU è stato prorogato Maurizio Massari; a Buenos Aires doveva essere nominato Fabrizio Nicoletti al posto di Fabrizio Lucentini; a Kuala Lumpur sarebbe dovuto arrivare Raffaele Langella (l’attuale ambasciatore è Massimo Rustico).
E poi ancora Santo Domingo (Sergio Maffettone al posto di Stefano Queirolo Palmas), Danimarca (Giuliana Del Papa al posto di Stefania Rosini); Praga (Alesasndro Gaudiano – Mauro Marsili), l’importantissima poltrona del Cairo (Agostino Palese al posto di Michele Quaroni), Addis Abeba (Sem Fabrizi al posto di Agostino Palese), Panama (Giuditta Giorgio – Fabrizio Nicoletti), Cipro (Antonella Cavallari)
(da agenzie)

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LA NOMINA DELL’EX SEGRETARIO DELLA CISL, LUIGI SBARRA, A SOTTOSEGRETARIO DEL GOVERNO MELONI ARRIVA DA LONTANO: IL “FLIRT” TRA LA DUCETTA E IL SINDACATO “BIANCO” ERA IN CORSO DA TEMPO

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA DUCETTA HA “SFRUTTATO” LE LITI TRA I RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI PER ISOLARE LA CGIL

Palazzo Chigi non si trattiene oltre, passano solo due giorni dalla sconfitta dei referendum, e arriva l’annuncio che sa di rivincita: la presidente del Consiglio propone a Sergio Mattarella la nomina di Luigi Sbarra, fresco ex segretario Cisl, a sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Nato in Calabria, classe 1960, avrà la delega al Sud ed «entrerà nella compagine di governo come indipendente», ha spiegato Meloni.
È una mossa a effetto con cui la premier crede di recuperare o, forse
coprire, i clamorosi e ripetuti buchi nell’acqua sul tema del lavoro. Già ieri pomeriggio Sbarra ha giurato a palazzo Chigi. E poco dopo Meloni ha spiegato che «il messaggio che vogliamo dare è continuare a rafforzare l’occupazione nel Mezzogiorno, perché è stata la locomotiva d’Italia».
Di sindacalisti al governo ce ne sono stati altri: Sergio D’Antoni, ex leader Cisl, fu viceministro nel governo Prodi (anni prima era stato fischiato dai cislini per essersi intruppato con l’Udc e con Silvio Berlusconi); Cesare Damiano, ex Cgil, ministro del Lavoro sempre con Prodi; Valeria Fedeli, ex Cgil, ministra dell’Istruzione con il governo Gentiloni; Raffaele Morese, ex Cisl, sottosegretario nel governo D’Alema; e Franco Marini, ex leader Cisl, ministro del Lavoro in un governo Andreotti. Ma nessuno si era “buttato” a destra.
La mossa viene da lontano: Meloni si era tenuta per sé la delega del Sud sin da quando Raffaele Fitto è diventato commissario europeo, nel dicembre 2024.
Che ci fosse un’intesa fra lei e Sbarra si era capito dalle ovazioni alla premier all’ultima assemblea Cisl, l’11 febbraio, un’occasione organizzata per segnare il passaggio di testimone fra l’allora segretario e la nuova leader, Daniela Fumarola.
I due, la presidente e il segretario uscente, si sono trovati in perfetta armonia su un tema soprattutto: lì lei ha accusato Maurizio Landini di praticare «una tossica visione conflittuale», e lui ha stigmatizzato la cultura della «sterile contrapposizione», sottinteso della Cgil. In quei giorni Walter Rizzetto, presidente della commissione Lavoro della Camera in quota FdI, spiegava che «la Cisl è il nostro sindacato»
Con buona pace del sottosegretario leghista Claudio Durigon, ex capo del tradizionale sindacato di destra, l’Ugl, inabile a incarnare l’alternativa culturale alla Cgil.
Sbarra, segretario del sindacato che fu di Pierre Carniti e di Marini ma uomo di centrodestra, per anni ha coltivato il dialogo con Matteo Salvini e Antonio Tajani. Ma il salto di qualità è arrivato con Meloni.
Galeotta, la proposta di legge popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese, in attuazione dell’art. 46 della Carta. Nata dalla raccolta di firme della Cisl (ai cui banchetti hanno partecipato molti dei riformisti del Pd), poi planata in parlamento, svuotata e trasfigurata, e scelta con furbizia da palazzo Chigi per cementare il rapporto con il sindacato “bianco”, e trasformarlo nel sindacato anti Cgil.
Per inciso, il Pd si è dilaniato e alla fine astenuto sulla legge, in segno di rispetto per i cislini democratici. Un capolavoro per il primo governo a guida post-fascista della storia repubblicana.
Il colpaccio di Meloni spiazza solo quelli che a sinistra accusano Landini di essere il colpevole della rottura dell’unità sindacale e di aver proceduto in solitaria – in realtà con la Uil – agli scioperi generali fino ai referendum.
La traiettoria della Cisl o, meglio, della dirigenza Cisl, era da tempo un’altra.
E, nonostante questo, lo scorso febbraio, in un bel seminario all’Istituto Sturzo su Marini, che oltre che segretario Cisl è stato anche fondatore del Pd, era arrivato l’annuncio che la Cisl avrebbe dedicato una fondazione al sindacalista abruzzese, e Sbarra ne sarebbe stato il presidente. «Siamo tutti interessati all’attività della Fondazione», aveva pizzicato Pierluigi Castagnetti, presidente dei Popolari
Ma aveva ricordato la scelta di Marini di non seguire Rocco Buttiglione quando, nel 1995, aveva portato il Ppi fra le braccia di Berlusconi, sentenziando: «Dove ci sono gli eredi del Msi, io non ci sarò».
Sbarra invece entra nel governo degli eredi del Msi. Ora per lui lasciare la guida della Fondazione dovrebbe essere un atto dovuto.
In quei giorni maturava la scelta del Pd di buttarsi a capofitto nella battaglia referendaria della Cgil. Scelta contestata da Anna Maria Furlan, ex leader cislina, eletta con i dem ma che, proprio in quelle ore, è passata a Italia viva.
Ma che non tollerava sentir dire dai suoi compagni di partito che Meloni stava corteggiando il suo ex sindacato: «La destra non conosce la natura della Cisl, un sindacato autonomo che non si fa mettere nessun cappello dalla politica». Certo, non è il sindacato che si è fatto arruolare, solo il suo ultimo leader, quello che, guardacaso, ha menato le mazzate più pesanti all’unità sindacale.
La scelta di Sbarra bagna le polveri a chi, nel Pd, dà battaglia per mantenere il partito «equivicino» ai tre sindacati confederali, come ai tempi di Walter Veltroni. Cioè i riformisti, quelli che accusano Elly Schlein di aver trasformato il Pd in una forza gregaria della Cgil. E che accusano Landini di «fare politica». Su Landini il processo è in pieno svolgimento, tanto più dopo la sconfitta referendaria. Comunque nel frattempo Sbarra la stava facendo, la politica, in questi anni.
(da Domani)

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PERCHE’ L’ATTACCO DI ISRAELE ALL’IRAN RISCHIA DI FAR ESPLODERE TUTTO IL MEDIO ORIENTE

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

INTERVISTA A GIUSEPPE DENTICE: “ORA SI RISCHIA UNA GUERRA PIU’ AMPIA”

Lo spettro di un attacco israeliano all’Iran si è concretizzato la scorsa notte, quando le IDF hanno lanciato una vasta operazione militare contro Teheran colpendo obiettivi nevralgici del programma nucleare della Repubblica islamica e uccidendo tre figure di spicco della sicurezza nazionale iraniana. L’attacco che segna una drammatica escalation nelle tensioni tra i due storici nemici e alimenta il timore concreto di una guerra regionale su larga scala. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito l’operazione “l’ultima risorsa” per impedire che Teheran, ritenuta da Israele una minaccia esistenziale, si doti dell’arma atomica. Le forze israeliane hanno colpito impianti nucleari, basi missilistiche, difese aeree e orchestrato omicidi mirati contro scienziati e ufficiali del programma nucleare, dimostrando una capacità d’infiltrazione allarmante.
“Non è stata un’azione improvvisata”, avverte – interpellato da Fanpage.it – Giuseppe Dentice, analista esperto di Medio Oriente dell’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed). “È una strategia che affonda le radici in almeno vent’anni di politica israeliana. L’operazione di questa notte è il frutto di un lavoro d’intelligence e pianificazione militare lungo oltre un decennio”. Secondo Dentice, la gravità dell’attacco va oltre i raid aerei: “Israele è riuscito a
penetrare nel cuore delle istituzioni iraniane, colpendo i Pasdaran dall’interno”.
La reazione iraniana è già in corso, con lanci di droni e minacce di ritorsione che potrebbero coinvolgere altri attori regionali e arrivare al ricorso al terrorismo contro cittadini israeliani ovunque si trovino, Europa compresa. “Il rischio – spiega Dentice – è che stiamo assistendo all’inizio di una ridefinizione violenta degli equilibri in Medio Oriente”.
Professore, da quanto tempo Israele preparava questo attacco contro l’Iran?
Non è una decisione maturata nelle ultime settimane. Parliamo di una strategia di lungo corso, radicata nella politica estera israeliana da almeno 15-20 anni, in particolare sotto la leadership di Netanyahu. Il contenimento dell’Iran e la sua minaccia nucleare sono stati un mantra costante. L’operazione, nella sua fase militare e di intelligence, si sviluppa invece almeno da un decennio. Non è un’azione improvvisata, non è stata organizzata nelle ultime settimane, non risponde a un'”emergenza”. Se gli attentati con i cercapersone del Libano dello scorso settembre avevano avuto un percorso di costruzione di 5 anni, l’operazione in Iran della scorsa notte ha avuto una genesi ben più lunga, almeno il doppio.
Si tratta dunque di una doppia operazione: militare e di intelligence?
Esattamente. Da un lato abbiamo i raid aerei, come quello su Natanz, e dall’altro un’azione molto più preoccupante: le infiltrazioni nel cuore delle istituzioni iraniane, in particolare nei Pasdaran. Israele è riuscito a colpire comandanti, scienziati e figure chiave del programma nucleare direttamente sul suolo iraniano. Oltre a quelli della scorsa notte, gli omicidi mirati di figure chiave in Iran sono stati condotti anche negli ultimi mesi e anni. Questo dimostra che il sistema di sicurezza iraniano è pesantemente compromesso.
Quali fattori hanno spinto Israele a colpire in questo momento?
Ci sono almeno due motivi. Internamente, Netanyahu era a rischio politico: pochi giorni fa il suo governo ha superato a fatica un voto di fiducia a causa del rischio di uscita dalla maggioranza di due importanti partiti come United Torah Judaism e Shas. Un’escalation bellica può servire a distrarre l’opinione pubblica e consolidare il potere. Esternamente, domenica era previsto un nuovo round di colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti sul nucleare. Israele, colpendo ora, manda un segnale forte, cercando di influenzare quei negoziati o addirittura di bloccarli.
Washington era al corrente dell’attacco?
È molto difficile immaginare un’operazione di questa portata senza un confronto, almeno informale, con gli Stati Uniti. Le recenti comunicazioni tra Netanyahu e figure vicine a Trump sembrano suggerire una sorta di consenso, seppur tacito. Israele sa bene che certe mosse devono essere quanto meno coordinate con Washington, anche per evitare gravi ricadute strategiche.
Non più tardi di ieri l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha denunciato le inadempienze dell’Iran sull’accordo nucleare. È stato un “assist” involontario a Netanyahu?
In parte sì, anche se non sono in grado di dire quanto effettivamente l’Iran fosse vicino al dotarsi di un ordigno nucleare. L’AIEA ha dato fiato alle accuse israeliane e americane. Tuttavia, è curioso che pochi mesi fa lo stesso direttore dell’agenzia, Raphael Grossi, parlasse di un rischio contenuto, mentre oggi il tono è completamente cambiato. O qualcosa è sfuggito prima, o è stato scoperto qualcosa di nuovo. Resta il fatto che, anche se l’Iran fosse vicino all’arma nucleare, la narrazione pubblica dell’AIEE si è rivelata utile a giustificare
l’azione militare di Tel Aviv.
Israele può davvero fermare o ritardare significativamente il programma nucleare iraniano?
È difficile dirlo con certezza, perché non conosciamo la reale entità dei danni inflitti con gli attacchi delle scorse ore. I siti di Natanz e forse Fordow sono stati colpiti, ma quanto a fondo? E cosa è stato davvero danneggiato? Se è vero che l’Iran ha già acquisito le competenze chiave per costruire un ordigno atomico, potrà ricostruire il tutto e sarà solo una questione di tempo. Israele può guadagnare mesi o anni, ma difficilmente riuscirà a fermare un processo in corso da decenni in Iran. A meno che non entri in gioco un’azione continuativa e più radicale, con tutti i rischi del caso.
Che risposta dobbiamo attenderci da Teheran?
L’Iran ha già lanciato centinaia di droni verso Israele e dovrebbero arrivare a destinazione nelle prossime ore. I missili balistici restano però l’arma di maggiore impatto e preoccupazione. C’è il rischio concreto che vengano coinvolti anche altri Paesi: Stati Uniti, Emirati, Arabia Saudita. Non a caso, le ambasciate americane nella regione sono state parzialmente evacuate, e non a caso. L’Iran potrebbe colpire anche con strumenti indiretti: terrorismo (anche in Europa), attacchi cyber, sabotaggi alle infrastrutture energetiche, o perfino la chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transitano il 20-25% del petrolio e gas mondiali. Di certo, il regime di Teheran mediterà attentamente ogni mossa e valuterà ogni possibile ricaduta. In questo quadro occorre prestare molta attenzione allo Yemen: è uno dei teatri più strategici e sottovalutati. I gruppi filo-iraniani nello Yemen, come gli Houthi, sono già attivi contro Israele nel Mar Rosso. Potrebbe diventare un campo di battaglia chiave nei prossimi mesi.
Proviamo a guardare il quadro nel suo complesso. Israele è impegnata a Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Iran e Siria. Qual è, secondo lei, l’obiettivo strategico di lungo periodo per Tel Aviv in Medio Oriente?
Israele sta cercando di ridefinire la mappa del potere mediorientale. Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iran e Yemen sono pezzi dello stesso puzzle. L’obiettivo è un nuovo ordine regionale in cui Israele sia il perno, anche in alleanza con Paesi arabi che condividono l’interesse per la stabilità e la lotta all’Iran. Ma tutto dipende anche da quanto gli Stati Uniti saranno disposti a sostenere questa visione. Il rischio è quello di un Medio Oriente spinto verso una ridefinizione violenta dei propri equilibri.
(da Fanpage)

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CHE FARÀ ORA TRUMP? IL PRESIDENTE AMERICANO AVEVA SCONSIGLIATO A NETANYAHU DI ATTACCARE L’IRAN, MA QUELLO L’HA FATTO COMUNQUE

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

SENZA IL SOSTEGNO AMERICANO, LE DIFESE DI ISRAELE DIFFICILMENTE RIUSCIRANNO A CONTENERE UN GRANDE ATTACCO IRANIANO – L’AMMINISTRAZIONE USA È COSTELLATA DI FUNZIONARI CONTRARI AL COINVOLGIMENTO MILITARE DEGLI STATI UNITI ALL’ESTERO, A PARTIRE DAL VICEPRESIDENTE JD VANCE. UNA LINEA OPPOSTA AI VECCHI FALCHI REPUBBLICANI COME LINDSEY GRAHAM, CHE HA ESULTATO SU “X”: “GAME ON”

Nelle ore precedenti l’attacco israeliano all’Iran, il Presidente Donald Trump ha chiarito che sperava di evitare questo esito.
“Non voglio che attacchino perché, voglio dire, questo farebbe saltare tutto”, ha detto, riferendosi ai suoi sforzi diplomatici per frenare le ambizioni nucleari di Teheran.Il fatto che Israele sia entrato comunque in azione – senza alcun coinvolgimento degli Stati Uniti e contro i desideri dichiarati pubblicamente dal Presidente – spinge ora Trump ad affrontare una delle più grandi prove della sua giovane presidenza.
A suo dire, gli attacchi rischiano di vanificare i suoi tentativi diplomazia con Teheran, anche se il suo inviato di punta si stava preparando a partire per l’Oman per un’altra serie di colloqui questo fine settimana.
Questo getta un’ombra sui suoi rapporti già tesi con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, con il quale è in netto disaccordo da mesi e che ha esortato, proprio questa settimana, a una
tregua a Gaza.
E gli presenta un altro conflitto globale senza una facile soluzione, questo con decine di migliaia di truppe statunitensi potenzialmente coinvolte nel fuoco incrociato regionale.
Trump si troverà ora in mezzo a correnti contrastanti all’interno del suo stesso partito. Giovedì molti repubblicani si sono affrettati a offrire il loro sostegno a Israele, tra cui il senatore Lindsey Graham – da sempre falco dell’Iran – che ha scritto su X: “Game on”.
Tuttavia, Trump non ha mai adottato questa linea di politica estera del suo partito, soprattutto nel suo secondo mandato. La sua amministrazione è costellata di funzionari, a partire dal suo vicepresidente, che hanno una visione profondamente scettica del coinvolgimento militare degli Stati Uniti all’estero senza che siano in gioco espliciti interessi americani.
Trump non ha dato alcun segnale di essere pronto a utilizzare le risorse militari americane per aiutare a difendere Israele da una prevedibile rappresaglia iraniana, come fece il suo predecessore Joe Biden quando Israele e l’Iran si scambiarono il fuoco l’anno scorso.
Senza l’assistenza americana, le difese aeree di Israele potrebbero non essere in grado di resistere a un grande attacco iraniano.
Il messaggio pubblico dell’amministrazione statunitense si è invece concentrato sulla protezione del personale americano in Medio Oriente e sull’avvertimento all’Iran di non trascinare gli Stati Uniti nella mischia.
Tuttavia, per tutte le complicate dinamiche che Trump deve ora risolvere, l’attacco non è stato certo una sorpresa per il presidente e la sua squadra.
Il Segretario di Stato Marco Rubio ha rilasciato una dichiarazione molto concisa, cercando di distanziare gli Stati Uniti da qualsiasi
ruolo nell’attacco.
“Questa notte Israele ha intrapreso un’azione unilaterale contro l’Iran. Non siamo coinvolti in attacchi contro l’Iran e la nostra priorità assoluta è proteggere le forze americane nella regione”, si legge nella dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca.
“Israele ci ha informato di ritenere che questa azione fosse necessaria per la sua autodifesa. Il Presidente Trump e l’Amministrazione hanno preso tutte le misure necessarie per proteggere le nostre forze e rimangono in stretto contatto con i nostri partner regionali”, continua Rubio. “Voglio essere chiaro: l’Iran non deve prendere di mira gli interessi o il personale degli Stati Uniti”.
Priva anche di un linguaggio banale che offrisse sostegno a Israele e alla sua difesa, la dichiarazione ha chiarito che questo sarebbe stato un conflitto di Israele, non di Trump.
(da agenzie)

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PER PORTARE LA SPESA MILITARE DALL’1,5% AL 3,5% NEL 2030 (A CUI SI AGGIUNGE UN 1,5% DI INVESTIMENTI), COME CHIEDE L’ALLEANZA ATLANTICA, SIGNIFICA TROVARE OLTRE 40 MILIARDI DI EURO

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

I GUAI SONO DEL MINISTRO GIORGETTI, CHE SI RITROVA IL SUO PARTITO, LA LEGA, CONTRARIA A OGNI AUMENTO DELLA SPESA PER LA DIFESA …SENZA CONTARE CHE SALVINI PRETENDE LA ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE ESATTORIALI E FORZA ITALIA CHIEDE LA SFORBICIATA DELL’IRPEF AL CETO MEDIO (MISURE CHE RICHIEDONO MILIARDI DI EURO DI COPERTURE)

Non che il mestiere di ministro dell’Economia sia mai stato facile in Italia, ma in questa fase Giancarlo Giorgetti si trova stretto fra pressioni diverse […] Ci sono il peso del Fisco sui consumi delle famiglie, la competizione fra i partiti della maggioranza in vista di
scadenze elettorali e la trasformazione geopolitica dell’Occidente, che impone all’Italia scelte distanti per loro natura dai fattori interni.
Tra undici giorni in Olanda Giorgia Meloni sarà al prossimo vertice della Nato, il primo di tutti i leader dell’Unione europea con Donald Trump. […] è praticamente certo che i governi annunceranno […] che la loro spesa per la Difesa dovrà salire. Il nuovo obiettivo sarà un bilancio di settore pari al 3,5% del prodotto lordo di ciascun Paese, più un altro 1,5% di investimenti. Ogni anno.
Le seconde sarebbero le spese legate alla sicurezza, incluse strade, porti, aeroporti, tunnel, ponti o cyber-security; qui c’è la possibilità di riclassificare parti del bilancio esistente. Ma la prima voce di uscite pari al 3,5% del prodotto lordo prevede per l’Europa milioni di proiettili di artiglieria in più, migliaia di carri armati nuovi, una capacità di difesa antimissile quattro volte più ampia e decine di migliaia di soldati in più.
Per l’Italia significa passare da una spesa annua per la Difesa dell’1,5% del Pil, come oggi, a una spesa più che doppia: uno scarto di oltre 40 miliardi di euro ai valori attuali.
È il prezzo per sperare che Donald Trump non perda la pazienza e non porti l’America fuori dalla Nato, di fatto decretando la fine dell’alleanza che da quasi ottant’anni garantisce la difesa dell’Italia.
Meloni da sola formalmente avrà un diritto di veto, ma sul piano politico sa di non potersi smarcare. […] Paesi più determinati, come la Polonia o i tre baltici, spingono per arrivare al 3,5% di spesa nella Difesa entro il 2030. Governi che si sentono più distanti dalla minaccia russa indicano il 2035 e fra questi, oltre al Canada e alla
Spagna, dovrebbe trovarsi l’Italia. Ma anche in questo caso l’aumento di spesa militare del governo dovrebbe essere dell’equivalente di quattro miliardi di euro correnti all’anno, per le prossime dieci leggi di Bilancio.
Atterrerà dunque presto tutto sulla scrivania di Giancarlo Giorgetti in via XX Settembre. Il ministro sa già che, a partire proprio dalla sua stessa Lega, nei partiti di maggioranza e opposizione la propensione a presentare agli elettori un aumento della spesa militare è ai minimi. Ma Giorgetti conosce anche le richieste che salgono dal mondo della politica […]: tagli alle tasse sul ceto medio e eliminazione a basso costo delle pendenze fiscali.
Il taglio dell’aliquota dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) dal 35% al 33% per i redditi da 28 mila e 50 mila euro e una limatura anche per chi arriva fino a 60 mila euro costerebbe circa cinque miliardi di euro. […] dieci milioni di elettori sarebbero raggiunti, di cui seicentomila fra 50 mila e 55 mila euro di reddito e altri quattrocentomila fra 55 mila e 60 mila euro.
La logica dei numeri che accompagna le riforme fiscali nell’Italia del 2025 è questa. In base ad essa, per esempio, una rottamazione delle pendenze fiscali […] toccherebbe potenzialmente venti milioni di elettori con contestazioni aperte all’Agenzia delle Entrate.
(da agenzie)

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ECCOLA LA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE NELL’AMERICA DI TRUMP: A LOS ANGELES, IL SENATORE DEM ALEX PADILLA È STATO AMMANETTATO E CACCIATO CON LA FORZA DALLA CONFERENZA STAMPA DELLA MINISTRA PER LA SICUREZZA INTERNA KRISTI NOEM

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA SUA “COLPA”? AVER DETTO A NOEM CHE STAVA “ESAGERANDO” NEL DESCRIVERE LE AZIONI DELLE AUTORITÀ FEDERALI A LOS ANGELES CONTRO LE PROTESTE PRO-IMMIGRATI – IL GOVERNATORE DELLA CALIFORNIA, GAVIN NEWSOM, COGLIE LA PALLA AL BALZO: “SE POSSONO AMMANETTARE UN SENATORE, IMMAGINA COSA FARANNO A TE”

Il senatore democratico Alex Padilla è stato allontanato con la forza dalla conferenza stampa della ministra per la sicurezza interna Kristi Noem. Padilla è stato mandato via dopo aver ripetuto in varie occasioni che Noem stava esagerando nel descrivere la necessità delle autorità federali a Los Angeles per le proteste e i raid contro gli immigrati.
Kristi Noem non si scusa per il fermo del senatore californiano Alex Padilla durante una sua conferenza stampa a Los Angeles ma spiega di non averlo riconosciuto. “Avrei preferito che si fosse presentato e che ci avesse detto chi era e che voleva parlare. Il suo atteggiamento non è stato affatto appropriato, ma la conversazione è stata ottima e continueremo a comunicare. Ci siamo anche scambiati il numero di telefono”, ha detto la segretaria. Padilla l’ha interrotto paio di volte prima di essere fermato, buttato a terra, ammanettato e poi allontanato da alcuni agenti federali del Dipartimento per
‘Homeland Security.
“Se possono ammanettare un senatore degli Stati Uniti solo perché fa delle domande, immagina cosa faranno a te”. Lo ha scritto il governatore della California Gavin Newsom su Instagram, accompagnando il post con una foto di Alex Padilla portato via con la fora e ammanettato durante la conferenza stampa della ministra per la sicurezza interna Kristi Noem, a Los Angeles.
Reazione simile e immediata anche da parte della sindaca della città, Karen Bass, che ha scritto su X: “Quello che è appena successo al senatore Padilla è assolutamente orribile e oltraggioso. È un senatore degli Stati Uniti in carica. I violenti attacchi di questa amministrazione nella nostra città devono finire”.
“Mi hanno fatto inginocchiare, sdraiare e mi hanno ammanettato. Ma non sono stato arrestato. Non sono stato detenuto”, il senatore californiano Alex Padilla parla ai giornalisti fuori dall’edificio federale di Los Angeles in cui è stato ammanettato dopo aver interrotto la ministra per la sicurezza interna Kristi Noem.
Padilla ha denunciato l’accaduto: “Dirò questo: se è così che questa amministrazione risponde a un senatore che pone una domanda, se è così che il dipartimento della Sicurezza Nazionale risponde a un senatore che pone una domanda, potete solo immaginare cosa stanno facendo ai lavoratori agricoli, ai cuochi, ai lavoratori a giornata nella comunità di Los Angeles, in tutta la California e in tutto il Paese. Chiederemo conto a questa amministrazione”, ha dichiarato.
Il leader della maggioranza al Senato, il repubblicano John Thune, ha chiesto di fare chiarezza sul fermo e l’ammanettamento del senatore democratico Alex Padilla durante la conferenza stampa della segretaria alla sicurezza interna, Kristi Noem, a Los Angeles. Lo riporta la Cnn.
“Vogliamo avere la piena consapevolezza di quanto accaduto e fare ciò che faremmo in caso di qualsiasi incidente del genere che coinvolga un senatore, ovvero cercare di raccogliere tutte le informazioni rilevanti”, ha dichiarato il leader repubblicano che ha anche riferito di aver cercato di parlare con Noem ma di non esserci riuscito.
(da agenzie)

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IL MEDIORIENTE È IN FIAMME, IN UCRAINA LA GUERRA CONTINUA, TRA CINA E TAIWAN LA SITUAZIONE È BOLLENTE: CI MANCA SOLO L’INVASIONE DI GROENLANDIA E PANAMA DA PARTE DEGLI USA

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

LA RIVELAZIONE DEL SEGRETARIO DELLA DIFESA PETE HEGSETH IN COMMISSIONE FORZE ARMATE DELLA CAMERA: “ABBIAMO DEI PIANI PRONTI PER INVADERE LA GROENLANDIA E PANAMA” -… LO SCAZZO DURANTE L’AUDIZIONE DI QUELLO SVALVOLATO DI HEGSETH, CHE
VIENE ACCUSATO DI “ESSERE UNA VERGOGNA PER L’AMERICA” VISTO IL DISPIEGAMENTO DI MARINES A LOS ANGELES

È finita tra le urla l’audizione della Commissione Forze Armate della Camera, protagonista il segretario della difesa Pete Hegseth. «Se ne vada al diavolo» ha gridato a un certo punto il deputato della California, Salud Carbajal, dichiarando di nutrire «seria preoccupazione» per il dispiegamento dei Marines a Los Angeles, una mossa definita come un «teatrino politico».
A un certo punto Carbajal ha anche chiesto se ritenesse che la fedeltà politica a Trump fosse un requisito per il servizio militare. «Onorevole, sa che questa è una domanda sciocca» , ha risposto Hegseth.
«Lei è una vergogna per questo Paese», ha replicato l’altro. «Ci sono stati membri bipartisan del Congresso che hanno chiesto le sue dimissioni. Dovrebbe andarsene e lasciare che qualcuno con competenza guidi questo dipartimento».
Benvenuti nell’America di Trump, dove i conflitti non solo nelle strade, ma anche nelle aule istituzionali. Non è stato l’unico scambio acceso, al contrario, con alcune delle domande più dure provenienti da veterani militari che chiedevano risposte secche, mentre il segretario cercava di evitare risposte.
È stato in uno di quei momenti che è arrivata una delle risposte più sconcertanti, quando il deputato democratico Adam Smith ha chiesto se il Pentagono avesse sviluppato piani per occupare la Groenlandia o Panama con la forza, se necessario.
«Il nostro compito è avere piani per qualsiasi evenienza», ha ripetuto Hegseth più e più volte. Non è insolito che il Pentagono elabori piani di emergenza per conflitti che non si sono mai verificati, ma è stato il modo in cui Hegseth ha gestito le domande e il suo rifiuto di negare un intervento militare che ha lasciato basiti i membri della commissione.
Make Greenland Great Again è d’altronde il sogno di Trump. «Dobbiamo averla», ha più volte ripetuto, con i primi ammiccamenti che risalgono al maggio del 2019 quando aveva paventato operazioni immobiliari sull’isola.
In questo secondo mandato, le mire sono diventate di ben altra natura, tanto da spedire il figlio Don Jr. nell’isola ancora prima del suo insediamento, mentre il vice JD Vance vi ha fatto visita con la moglie lo scorso marzo. L’interesse di Trump per la Groenlandia – tre volte più grande del Texas, con una popolazione di soli 57 mila abitanti – è duplice. Da una parte è considerata strategica per la ricchezza del sottosuolo, generoso anche di terre rare, e la posizione privilegiata sulle rotte polari
Dall’altra annetterla rappresenterebbe una mossa d’anticipo in vista della competizione sempre più serrata con Russia e Cina nella corsa all’Artico in prospettiva dello scioglimento di parte dei ghiacciai. A guardare con rinnovato interesse alla Terra dei ghiacci è anche una parte della Silicon Valley: alcuni investitori del comparto hi-tech vorrebbero farne una sorta di “città della libertà”, una zona franca con deregolamentazione spinta e regimi fiscali molto agevolati. […]
Anche l’interesse per Panama è diventato un argomento consistente nelle dichiarazioni del Presidente, con le prime affermazioni che risalgono allo scorso dicembre, quando Trump ha iniziato a sostenere che gli Usa, il maggiore utilizzatore della rotta di navigazione, stavano «subendo pesanti sovrapprezzi e non venivano trattati equamente» e ha minacciato di riprendersi il canale «o
sarebbe successo qualcosa di molto grave».
Ad aprile Hegseth ha annunciato un’espansione della partnership tra Usa e Panama per proteggere il canale e contrastare l’influenza della Cina nella regione. «Il Canale di Panama è un territorio chiave che deve essere messo in sicurezza da Panama con l’America, e non dalla Cina» , ha affermato annunciando la firma di un memorandum d’intesa che consentirà alle navi da guerra e ausiliarie statunitensi di attraversare il canale per prime e gratuitamente.
(da agenzie)

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L’UE: “L’EUROPA SI DEVE PREPARARE ALLA GUERRA PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI”

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

“MOSCA SI FERMERA’ SOLO QUANDO NON AVRA’ ALTERNATIVE”

«Mosca deve volere la pace, e non è quel che vediamo. Dicono di avere le risorse necessarie per andare avanti, ma non è così. Solo a maggio il patrimonio del fondo sovrano russo è sceso di sei miliardi di dollari, e potrebbe esaurire le risorse entro il prossimo anno. Per questo abbiamo deciso un 18° pacchetto di sanzioni nella speranza di costringere Putin al tavolo». Lo dice alla Stampa la rappresentante Ue per la Politica estera Kaja Kallas. «Temo che per Mosca la guerra finirà solo quando avrà chiaro di non avere alternative su un piano economico – aggiunge – Mosca reagisce solo alla forza, non agli slogan vuoti».
Trump e Putin
Kallas dice che «quando Trump ha iniziato il suo mandato ci è stato detto che non si sarebbe mostrato troppo paziente con le astuzie di
Putin. Spero accada, perché è evidente che sta cercando di prendersi gioco dell’Occidente». Sulle sanzioni «stiamo lavorando per avere il consenso di tutti. Procedere a maggioranza? In teoria non possiamo, ma se necessario saremo creativi, abbiamo gli strumenti per farlo. Ma siamo convinti di poter ottenere 27 sì». Rispetto all’aumento delle spese militari fino al 5% del Pil «non mi focalizzerei troppo sui numeri, bensì su ciò che può rendere l’aumento di spesa efficace: cosa fare con questi soldi. La spesa va aumentata in tempi di pace, diversamente sarà sempre troppo tardi. L’Europa corre un grande rischio, non lo dico io, ma svariate intelligence occidentali. Nel 1933 l’Estonia era neutrale, non sentiva il bisogno di spendere nulla o quasi in difesa. Cinque anni dopo, quando si capì che il mondo sarebbe entrato in guerra, la spesa aumentò del 100% ma era troppo tardi. Non era più possibile acquistare nulla, e perdemmo la nostra indipendenza».
(da agenzie)

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LO STORICO FRANCO CARDINI: SI CHIAMA “TERRORISMO” MA LA STORIA DIMOSTRA CHE SPESSO E’ L’UNICO MODO, SEPPUR CRUDELE, DI CHI SI TROVA INERME DI FRONTE A VIOLENZA E ARROGANZA DI POTERI CINICI

Giugno 13th, 2025 Riccardo Fucile

DAGLI ZELOTI A GAZA

“C’avete fatto caso…”, amava ripetere l’indimenticabile Aldo Fabrizi inaugurando uno dei suoi soliti esilaranti tormentoni.
Ch’erano fondati sul fatto obiettivo che spesso ci càpita di usare parole e/o cose che paiono semplici e comprensibili a tutti quando poi, se ci fermiamo ad analizzarle, ci accorgiamo subito di quanto sono ardue a essere usate e difficili a venir comprese.
Prendete il terrorismo. Tutti sono convinti di sapere che cos’è e si servono di quel concetto, anzi di quella parola, con disarmante disinvoltura: salvo poi incartarsi nelle sue numerose accezioni e perdersi nei meandri generati dal suo abuso.
È evidente che “terrorismo” deriva da “terrore”: e il suffisso “-ismo” indica, come si sa, un concetto politico-ideologico. Dalla libertà, dalla socialità, dal clero e così via derivano come noto i termini “liberismo” (o “liberalismo”), “socialismo”, “clericalismo” e così via, che indicano una sclerosi e un abuso: e chi è adepto di certi princìpi si definisce con il suffisso “-ista”. Poiché le ideologie nascono tutte attorno al XVIII-XIX secolo, c’è da ritenere (e difatti è così) che in quel periodo si svilupparono correnti di pensiero che ponevano l’incutere il terrore e lo sfruttarne gli effetti al centro della loro riflessione concettuale e della loro prassi nell’intento di ricavarne vantaggi sul piano della politica e dell’organizzazione del consenso.
A livello propriamente storico, la cosa è chiara e il termine rigorosamente codificato. Passarono sotto il nome di “Terrore” sia il periodo della Rivoluzione francese, sia la forma di governo che durante esso prese forma, compresi fra il 31 maggio 1793 (espulsione violenta dei membri del partito girondino dall’organo legislativo della Convenzione), al 9 termidoro, cioè al 27 luglio del 1794 (caduta della dittatura di Robespierre): e “terroristi” vennero definiti tutti gli uomini politici che condivisero in quei 14 mesi il potere nella Repubblica, in un tempo nel quale gli arresti e le condanne alla ghigliottina erano quotidiana arma di governo. Vi furono poi altri periodi caratterizzati da analogo, allucinante clima, di segno politico magari differente: si disse così “Terrore bianco” il regime imposto per breve tempo dai monarchici nel 1815, dopo i “Cento Giorni” di Napoleone. Da allora s’impose l’uso di definire “Terrore”, e più propriamente “Terrore di Stato”, qualunque tipo di governo caratterizzato da metodi arbitrari e tirannici e teso a ottenere con la forza e l’intimidazione l’obbedienza dei cittadini.
Questa casistica politica non esaurisce però il ventaglio concettuale dei casi e dei momenti nei quali uno stato generalizzato di ansia e di timore diffuso caratterizza una fase storica. In realtà, fin dai tempi più antichi sono stati registrati periodi nei quali una o più fazioni politiche si sono servite in modo estremo e sistematico di forme di violenza sistematicamente tese a mettere a tacere gli avversari e a dissuadere con la minaccia o con l’azione esplicita chi in qualche modo intenda intralciarle oppure opporre loro resistenza. I centri dai quali prendono avvio queste prassi terroristiche possono addirittura restare nascosti e venire alimentati da vere e proprie forme di “ideologia della segretezza”, sostenute magari da una sacralità artificiosa che in qualche modo si rifà a tradizioni liturgiche e consuetudini cultuali. I metodi di questi gruppi possono giungere al sistematico cinismo consistente nel colpire soggetti deboli e innocenti allo scopo di seminare il panico nelle società civile. In questi casi la prassi terroristica dell’intimidazione e del crimine selettivo compiuto a scopo dimostrativo s’incontra e s’intreccia con la segretezza nell’intento di creare un clima di continuo pericolo e d’incertezza diffusa a proposito delle sue intenzioni. Nell’antica Roma era comune il timore causato dai sicarii, vale a dire dai criminali armati di sica (un pugnale ricurvo d’origine trace) che uccidevano su commissione e i cui mandanti restavano anonimi. Nella Giudea occupata a partire dal I secolo a. C. divennero tristemente famosi gli “zeloti” (dal termine greco zélos, “impegno”, “emulazione”), adepti rigorosi di un’associazione politica e religiosa tesa a tutelare con estrema attenzione i minimi particolari del culto.
Quelli che oggi chiamiamo terroristi – parola ormai purtroppo familiare – erano nei tempi andati dei delinquenti, dei criminali a pagamento, dei sicari, quelli che la patristica cristiana definiva destructores oppure effractores, dei “masnadieri” secondo il lessico feudale, “teppa” da un termine milanese del primo Ottocento; così i “bravi” d’origine spagnola e di manzoniana memoria. Ma almeno dal XII secolo ricevettero in Europa il nome di “assassini” derivato da quello di una setta musulmano-sciita della quale parla anche Marco Polo: erano i seguaci di un misterioso signore persiano, Hasan ibn as-Sabbah detto “il Vecchio della Montagna”, che usava far uccidere a tradimento i nemici suoi o dei suoi alleati e/o clienti inviando contro di loro i suoi adepti precedentemente drogati col fumo dello hashish, la cannabis indica. E dallo hashish, appunto, questi fanatici pugnalatori assunsero il nome di “assassini”. Nel nostro linguaggio ordinario, il terrorista è, appunto, un assassino
politicamente motivato e di solito militarmente se non “religiosamente” inquadrato.
Di “terrorismo” nazionale o internazionale si parlò molto tra XIX e XX secolo, generalmente associandolo ai gruppi anarchici che compivano attentati di solito contro capi di governo o membri di dinastie regali. Al terrorismo si dettero con frequenza, nella Russia zarista, cellule nate soprattutto all’ombra del movimento bolscevico: che una volta al potere utilizzò tale prassi per consolidarlo Si usò collegare quindi l’azione terroristica alle formazioni estremistiche “di destra” e/o “di sinistra”: e la condanna come terroristici s’indirizzò specialmente contro gruppi politico-religiosi e perfino contro governi musulmani con crescente frequenza a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, mentre nell’Italia degli “Anni di Piombo” si elaborò specie nel periodo 1977-1984 un insieme di norme repressive vòlte a combattere la crescita dilagante (vera o supposta) di organizzazioni politiche clandestine. In tale contesto si parlò molto, a livello politico-diplomatico internazionale, del “terrorismo di Stato” dei cosiddetti “Stati-canaglia”: ma non mancarono repliche destinate a ritorcere tali accuse respingendole ai mittenti.
In effetti, di fronte all’arroganza di certi poteri e alla prassi terroristica “di Stato” formalmente legale ancorché segreta dedita alla repressione politica, abbiamo veduto svilupparsi in tutto il mondo, specie negli ultimi decenni, un “terrorismo politico” ch’era e in alcuni casi resta ancora l’unica arma difensiva a disposizione di ambienti sistematicamente perseguitati e demonizzati. La Resistenza nel biennio 1943-45 ha costituito un modello di uso “terroristico” dell’unica arma e dell’unico metodo, senza dubbio spesso spietato e crudele, a disposizione di chi si trova altrimenti inerme di fronte alla
violenza e all’arroganza di poteri costituiti che esercitano con cinica sistematicità la loro forza imponendo a loro volta, appunto, il terrore e pretendendo di agire nel nome della legalità o quanto meno della legittimità. Il ventre che ha partorito questo mostro è ancora fecondo e sempre gravido: lo dimostra il macello di Gaza.
Franco Cardini
ilfattoquotidiano.it

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