ILVA TARANTO, L’AVVOCATO MI DISSE: “IL TUO COLLEGA MORTO? DI’ CHE FUMAVA MOLTOâ€
UN OPERAIO DI UNA DITTA APPALTATRICE: “IL LEGALE CHE ASSISTEVA ANCHE L’ILVA MI CONSEGNO’ UN PROMEMORIA PER TESTIMONIARE IL FALSO, MA MI RIFIUTAI”… UN LAVORATORE: “ERAVAMO 60, SONO L’UNICO RIMASTO VIVO DELLA MIA SQUADRA”
“Quando ho sentito dire da Bondi che qui si muore di fumo di sigarette, come un lampo mi è tornato davanti agli occhi il momento in cui l’avvocato mi chiese di testimoniare che il mio compagno, morto di tumore, fumava due pacchetti di sigarette al giorno”.
Franco Caramia, oggi in pensione, una vita passata come capocantiere in una ditta appaltatrice dell’Ilva. Di compagni ne ha persi tanti senza poter fare nulla, ma a uno ha reso giustizia con il suo coraggio.
“I familiari del mio amico fecero causa e l’avvocato, che difendeva la ditta e anche l’Ilva, mi consegnò un promemoria chiedendomi di leggerlo. Avrei dovuto dire al giudice che il mio amico era un accanito fumatore, mentre ne fumava al massimo 5 di sigarette. Lo guardai in faccia e gli risposi: io sono un uomo e su quella pedana dirò la verità come da giuramento. Restò di sasso. Il Tribunale sentenziò che la causa della morte era stata l’inquinamento”.
Ha lo sguardo fiero Franco, aver reso pubblico un fatto rimasto per tanto tempo segreto è come aver riscattato la memoria di quell’operaio con cui ha condiviso pane e fatica.
“Era un pezzo d’uomo, aveva fatto il paracadutista, lavorava per tre e il cancro lo ha divorato. Bondi ripete quello che gli dicono di dire, ma così fanno i pappagalli non gli uomini”.
Ricordi pesanti che come fili legano le vite di chi è rimasto.
“Sono un superstite. I miei colleghi sono morti tutti”.
Parla come fosse un reduce di guerra Giuseppe Di Bello, 65 anni.
La sua battaglia è durata 30 anni. Impiegato capoturno, 12 anni in acciaieria e 18 al porto. “Ogni mattina ringrazio il Signore per essere ancora vivo”.
Giuseppe, tre figli e tre nipoti, abita a Mottola sulla collina a 30 km dall’Ilva. “Questo mi ha aiutato, io finito il turno tornavo qui mentre gli altri rientravano nelle loro case vicino alla fabbrica continuando a respirare veleni”.
Assunto nel ’72 all’Italsider, “quando nel’95 è arrivato Riva la situazione è peggiorata. Prima nell’azienda di Stato, nei reparti, c’era polvere di amianto, ma anche umanità . Poi è rimasto solo l’amianto e noi siamo diventati vuoti a perdere. Riva ha soppresso i reparti recupero dei convertitori, che servivano a eliminare le polveri perchè non erano produttivi. Ai sindacati ha detto: voi fate i sindacalisti, io faccio il padrone. Ha costruito la famigerata Palazzina Laf (laminatoio a freddo) dove spediva chi non si adeguava, operai, funzionari, sindacalisti. Questi sono fatti — prosegue — a raccontarli tutti altro che i neri del 1700! Andavano avanti solo quelli che erano funzionali con il sistema Riva, chi si ostinava a conservare dignità diventava carne da macello”.
Sospira, riprende fiato spezzato dalla commozione e aggiunge altri ricordi: “Quando si colava l’acciaio liquido si spruzzava il Nalco, simile a una calce bianca di cui nessuno conosceva il contenuto. Chiedevamo spiegazioni, ci rispondevano che era una formula segreta. Il Nalco conteneva amianto al 40% e siccome le placche erano bollenti sprigionavano vapore che respiravamo . In quel reparto lavoravano in 60, sono morti tutti, come quelli che lavoravano alle siviere, i mattoni refrattari erano pieni di amianto”.
Accanto a Giuseppe, un altro amico caro, Piero Barulli, medico di famiglia a Mottola da più di 30 anni: “Il nesso di connessione diretto tra esposizione e insorgenza delle malattie è un dato certo. Quando vengono da me la prima cosa che chiedo è: in che reparto hai lavorato o lavori, per quanto tempo? E in base alla risposta decido a quali accertamenti sottoporli. I tempi di incubazione sono lunghi, nessuno può dirsi salvo, è una bomba a orologeria che non sappiamo quando scoppierà . Nulla è cambiato se non la consapevolezza: prima gli operai non sapevano con quali sostanze venivano a contatto, ora lo sanno”.
Le parole del medico trovano riscontro in quelle di un altro operaio in pensione, Salvatore Perrone 64 anni, 30 all’Ilva, all’acciaieria: “Io mi controllo ma serve a poco, due miei colleghi lavoravano alla manutenzione, tutti due di 62 anni sono morti di leucemia fulminante quando i medici dicono che colpisce in età giovanile. Il solo fine di Riva è il profitto. Con lui in poche settimane ci siamo trovati a eseguire gli ordini senza poter discutere mentre prima in ogni reparto i delegati, e io lo sono stato, concordavano con i responsabili dell’azienda come ridurre i rischi delle attività più pericolose”.
Poi racconta come si lavorava all’epoca: “ Io ho avuto la sfortuna di lavorare anche nel reparto preparazione lingottiere quando l’acciaio si colava in lingotti, eliminato con l’ingresso delle colate continue. C’erano sostanze chimiche che quando venivano spruzzate era come fare l’aerosol con il veleno. Molti miei amici sono morti a 40 anni. Non fumavano e non bevevano ma facevano i saldatori e respiravano i fumi. Ditelo al professore Bondi. E ditegli pure che io dopo 30 anni all’Ilva non arrivo a 2 mila euro di pensione, ma capisco quello che lui non capisce per 300 mila euro all’anno”.
Sandra Amurri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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