L’ASSIST DI NAPOLITANO AI PM: IL RICATTO MAFIOSO, LO STATO SAPEVA
TRE ORE E MEZZA DI TESTIMONIANZA SU TUTTE E 40 LE DOMANDE DEI MAGISTRATI, PIÙ QUELLE DEI LEGALI. E LA CONFERMA DELL’IPOTESI ACCUSATORIA SULLO STATO RICATTATO DAI CORLEONESI
Lo Stato sapeva di essere sottoposto a un ricatto da parte di Totò Riina nel 1993.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha raccontato ieri ai magistrati di Palermo saliti a Roma tra mille polemiche appositamente per sentirlo al Quirinale.
Erano due i principali filoni sui quali i pm si attendevano risposte dalla testimonianza del Capo dello Stato: la lettera di dimissioni del 18 giugno 2012 di Loris D’Ambrosio, nella quale il consigliere giuridico del Colle scriveva a Napolitano “Lei sa che di ciò ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone (nella prefazione di un libro, Ndr). E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989- 1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi — solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Il secondo tema all’ordine del giorno era la consapevolezza da parte di Napolitano nel 1992-1993 della strategia di Cosa Nostra: fare la guerra per poi fare la pace grazie a una trattativa intavolata al fine di ottenere benefici per i mafiosi.
Sul primo punto sostanzialmente l’accusa ieri ha fatto un buco nell’acqua dando ragione allo stesso Napolitano che aveva scritto una lettera nel novembre del 2013 al Presidente della Corte di Assise di Palermo Salvatore Montalto per evitare la convocazione perchè il presidente non aveva mai ricevuto nessun ‘ragguaglio o specificazione da Loris D’ambrosio’ dopo la lettera del 18 giugno 2012 e prima della sua morte il 26 luglio dello stesso anno.
Ben diverso invece l’apporto dato ieri, almeno secondo il giudizio dato dai magistrati palermitani, sul secondo versante: Napolitano ha offerto una descrizione inedita di come ha vissuto, nella sua veste di presidente della Camera, il periodo in cui — secondo l’accusa — si sarebbe svolta la trattativa a suon di bombe tra i corleonesi e le istituzioni.
Le auto blindate dei magistrati di Palermo varcano l’ingresso laterale del palazzo del Quirinale su via XX settembre alle 9 e 40 del mattino. Il Procuratore aggiunto Vittorio Teresi, i pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno preparato un elenco di una quarantina di domande da porre al Presidente della Repubblica.
Tutte saranno ammesse dalla Corte tranne una, quella più delicata sulle ragioni della cancellazione del regime di isolamento del 41 bis a favore di 330 mafiosi nel novembre 1993, dopo le bombe di Cosa Nostra.
L’opposizione della Corte alla domanda dei pm è stata motivata con l’estraneità al tema probatorio.
Anche se altre domande sarebbero potute cadere sotto la stessa mannaia e invece sono state ammesse.
Nella sala del Bronzino ci sono una quarantina di persone, i giudici, due togati e i popolari, la cancelliera, cinque pm — presente anche il Procuratore capo di Palermo Leonardo Agueci. Alle dieci e 5 minuti si inizia.
Giorgio Napolitano si siede a sinistra dietro lo studiolo, davanti alla Corte ci sono gli avvocati. Il procuratore Agueci fa un breve discorso introduttivo per ricordare il rispetto per l’istituzione che ha di fronte ma anche per la verità che i magistrati stanno cercando. Il vero e proprio esame ha inizio con il procuratore aggiunto Teresi che chiede al testimone di precisare i suoi incarichi istituzionali. “Presidente della Repubblica”.
Si inizia a parlare di Loris D’Ambrosio. Non esiste ancora un verbale ma è possibile ricostruire il senso delle risposte grazie al resoconto orale degli avvocati.
Il Capo dello Stato è prodigo di ricordi e di attestati di stima verso D’Ambrosio: “Me lo presentò il professor Giovanni Maria Flick ed era una persona libera da schemi e di grande cultura. Con lui — dice Napolitano — c’era un rapporto di stima ma non di natura personale. Parlavamo solo di lavoro”.
Il procuratore Teresi legge alcuni passi della lettera di D’Ambrosio e della sua prefazione al libro di Maria Falcone ma Napolitano spiega che: “D’Ambrosio era sconvolto per la campagna mediatica nei suoi confronti. Ma mai mi parlò del suo timore di essere considerato scriba di indicibili accordi”.
Napolitano ribadisce quanto anticipato nella lettera alla Corte un anno fa: “Nessuna discussione sul passato con D’Ambrosio. Era una regola non scritta. Dovevamo lavorare giorno per giorno e guardare al futuro e non al passato. Gli indicibili accordi pertanto rimangono tre righe alle quali è difficile o impossibile dare un’interpretazione. Aggiungo che alcune espressioni di quella lettera — prosegue Napolitano — sono frutto di uno stato di tensione prodotto dal suo tormento e dal suo travaglio nel momento in cui escono le telefonate con Mancino che lo pongono in una luce di ambiguità ”.
Napolitano risponde di buon grado a tutte le domande anche se spesso ricorda che il contrasto alla criminalità non rientrava nella sua competenza diretta.
Poi prende la parola il pm Antonino Di Matteo e chiede a Napolitano se fosse a conoscenza della proposta di audizione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in Commissione Antimafia esaminata dal presidente di allora della commissione, Luciano Violante, su sollecitazione del generale Mario Mori.
Napolitano racconta una circostanza inedita: Violante allora gli disse che Vito Ciancimino aveva chiesto di essere sentito dalla Commissione Antimafia anche se gli espresse un giudizio sfavorevole e poi la cosa non si fece.
Violante non disse a Napolitano però che la sollecitazione era giunta dall’allora colonnello del Ros dei Carabinieri Mario Mori, ora imputato per il reato di minaccia o violenza a corpo dello Stato.
A sorpresa il punto più importante per l’accusa arriva quando si arriva a parlare della valutazione delle stragi del 1993.
All’indomani degli attentati del 27 luglio del 1993 a Roma e a Milano “fu subito chiaro — dice il presidente Giorgio Napolitano — che erano sussulti dell’ala stragista della mafia dei corleonesi”. Per Napolitano quella strategia era chiaro che fosse “finalizzata a dare un aut aut ai pubblici poteri o a fare pressioni di tipo destabilizzante”.
Secondo l’allora presidente della Camera “l’allarme non venne sottovalutato anche perchè oltre agli attentati ci fu il black out a Palazzo Chigi e ricordo che il presidente Ciampi disse di avere temuto un colpo di Stato”.
Il pm Antonino Di Matteo è soddisfatto della risposta di Napolitano anche perchè la Procura ha da poco scovato alcuni documenti dell’epoca che sembrano disegnare uno scenario diverso.
Il 6 agosto il Cesis, il Comitato esecutivo per i Servizi di Sicurezza che coordina i servizi segreti e che ora è stato sostituito dal Dis, redige una nota al termine di una riunione alla quale partecipano le massime autorità , compreso il capo della DIA Gianni De Gennaro, nella quale si avanzano altre piste oltre a quella mafiosa.
Dai narcotrafficanti ai terroristi separatisti. Solo quattro giorni dopo, il 10 agosto 1993, Gianni De Gennaro sente l’esigenza di stilare una nota che indica il movente e gli autori giusti delle stragi.
Quando il pm Di Matteo chiede a Giorgio Napolitano cosa sapesse di quel documento della Dia, il Capo dello Stato replica: “Ci stiamo allontanando di molti chilometri dall’alveo originario della mia testimonianza e si presume che io abbia una memoria da fare invidia a Pico della Mirandola. Non ricordo la nota DIA a firma del dottore De Gennaro”.
Poi si passa all’allarme del SISMI su un attentato in preparazione ai danni di Napolitano stesso e del presidente del Senato Spadolini.
“Si ne fui informato dal capo della Polizia Parisi ”, spiega Napolitano prima di svalutare un po’ l’allarme: “quell’anno partiiper andare in vacanza a Stromboli e il 23 agosto 1993 Parisi mi riferì di questi allarmi ma mi disse: ‘i servizi consigliano cautela’ ma l’attendibilità della fonte era tale che non chiese di annullare il viaggio. L’allarme si tradusse solo nella precauzione di inviare qualche agente dei NOCS in più. Quando tornai da Parigi non ebbi ulteriori misure di sicurezza”.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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