LA «SINDROME SCHETTINO» CHE PESA SU EUROLANDIA
L’EUROPA IN ATTESA DI QUALCUNO CHE RAPPRESENTI UNA VOCE DECISA E DIA UNA INDICAZIONE SICURA
La leadership si manifesta con la capacità di prendere decisioni nei momenti di crisi. Quando vi è un diffuso stato di incertezza e di ansia cresce l’aspettativa di una voce decisa e di una indicazione sicura.
L’Europa vive frastornata dalla cacofonia assordante sui rimedi da adottare di fronte alla crisi, ed è alla ricerca di “qualcuno” che indichi una via d’uscita e se ne faccia pienamente carico.
Laddove “nessuno è in comando”, come amano dire gli americani, o, come diremmo noi mediterranei, “nessuno è al timone”, si rischia il panico.
È questa la sensazione prodotta dal balletto delle dichiarazioni di chi detiene funzioni direttive nei governi e nelle istituzioni europee e internazionali.
È come fossimo preda di una sorta di “sindrome Schettino”: la barca di Eurolandia va alla deriva e rischia di affondare perchè manca un comandante all’altezza della situazione.
All’inizio della crisi, nell’autunno del 2008, ci fu un momento in cui Gordon Brown, il Cancelliere dello Scacchiere britannico, forte della sua esperienza e dei suoi successi nella gestione dell’economia, sembrò in grado di indirizzare le scelte della comunità politica ed economica internazionale.
Fu una illusione di breve periodo e quel momento di gloria servì più che altro a scopi interni, a rintuzzare l’offensiva di un “novizio” come David Cameron: “it is no time for a novice” sentenziò in quei giorni Gordon Brown. Da allora nessuno, nemmeno Barack Obama, è riuscito a indicare una strada.
Di meeting in meeting la politica ha mostrato la propria impotenza di fronte all’economia.
O, in termini più maliziosi, alcuni politici hanno lastricato la strada al dominio degli attori economici.
La destra americana si è schierata in prima fila a difesa della sacralità del mercato utilizzando tutto il suo armamentario retorico pur di impedire che l’Eurozona si risollevi e riaffermi il suo modello socio-economico, intimamente “socialista” agli occhi dei neocons.
La ragione di tanto furore conduce, anche qui, al fronte interno: il vero obiettivo da colpire è il presidente Obama che, con le sue riforme, si ispira all’Europa welfarista e spendacciona. Per questo le teste d’uovo d’oltre Atlantico vanno all’attacco.
Con pessime figure, peraltro. In una recentissima intervista Arthur Brooks, direttore del think tank conservatore American Enterprise Institute e influente intellettuale del partito repubblicano, arriva a raccontare che i paesi con il welfare più sviluppato sono “i più insoddisfatti e i meno prolifici”; peccato che i Paesi scandinavi, culla della socialdemocrazia, siano in vetta al tasso di natalità e di soddisfazione per il funzionamento del loro sistema. (Dati Eurostat ed Eurobarometro)
Ora, allo stato attuale, nè Franà§ois Hollande, per formazione e personalità , nè Angela Merkel, condizionata dal fronte interno, malgrado tutti i passi e gli sforzi compiuti, sembrano in grado di mettersi sulle spalle il continente e guidarlo fuori dalla crisi grazie al loro carisma. (Altra storia se fosse arrivato all’Eliseo l’ex presidente dell’Fmi Dominique Strauss—Kahn, l’unico capace di dettare una linea dall’alto delle sue virtù politiche ed intellettuali: ma i vizi privati, altrove, si pagano… ).
In questa situazione di paralisi e di veti incrociati si è finalmente distinta una voce chiara e netta, quella del presidente della Bce, Mario Draghi.
In poche, tacitiane, parole egli ha espresso il suo fermo convincimento a salvare l’Eurozona.
Quando, alla fine di un discorso imperniato sulla volontà di mettere in campo tutti gli strumenti e tutte le risorse necessari per contrastare la recessione ha aggiunto “e, credetemi, sarà sufficiente”, ha segnato un punto di non ritorno.
Con quelle parole, offrendosi come il prestatore di fiducia di ultima istanza degli europei, Draghi si è caricato sulle proprie spalle una responsabilità enorme.
Mentre i politici nazionali latitavano, il presidente della Bce ha raccolto la domanda di governo che veniva dalle opinioni pubbliche.
Ha sopperito alla carenza di “decisione politica” degli attori politici nazionali, di coloro che sarebbero maggiormente intitolati ad intervenire.
Ed ha obbligato tutti gli altri a misurarsi con le sue intenzioni. In una parola, ha esercitato una funzione di leadership.
Ora il gioco tornerà nelle mani dei governi ma “il movimento” è stato creato. L’impasse in cui l’Europa si era impantanata per anni sembra aver trovato un filo, e un tessitore, a cui affidarsi.
Ancora una volta, sono i tecnici ad essere, e a fare, i politici.
Del resto, la leadership non si misura con i voti.
Piero Ignazi
(da “La Repubblica”)
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