MAI PIU’ NESSUNO COME DELON, UNICO E IMMORTALE
MALINCONICO E STRAFOTTENTE, SFRONTATO E INDEFINIBILE
«Io ho sempre vissuto i miei ruoli, non li ho mai interpretati». Alla fine di una carriera fatta di più di cento film, visti secondo alcuni calcoli da almeno 130 milioni di spettatori, Alain Delon ha voluto ribadire, durante un incontro con dei futuri attori, la sua specificità, il suo non essere assimilabile a nessuna scuola o movimento (a differenza per esempio di Belmondo). Il suo essere unico.
E in effetti è impossibile immaginare che qualcuno ne possa raccogliere l’eredità, e non solo per la bellezza sfacciata e sfuggente, da cui non sai mai cosa davvero aspettarti.
Forse non lo immaginava neanche lui quando, a quattro anni, la sua famiglia piccolo borghese si dissolve e lui si trova a passare attraverso una serie di esperienze (famiglia adottiva, collegio autoritario, servizio militare, sempre vissuti come costrizione e obbligo) che hanno finito per segnare quella malinconica strafottenza, quell’indefinibile sfrontatezza, capaci di illuminare i suoi ruoli più celebri.
In tre anni, e curiosamente sempre in Italia, passa dall’immigrato schiacciato dall’onore familiare di Rocco al cinico agente di borsa che «guarda alla vita attraverso i biglietti di banca» (L’eclisse) fino al garibaldino trasformista e reazionario del Gattopardo, restando però sempre se stesso, l’uomo che prova a restare a galla, con un sorriso magari solo accennato sulle labbra, capace di uscire vittorioso dai nodi in cui si trova.
Ha mai pianto al cinema Alain Delon? Forse sì, ma non sono quelle le scene che restano in mente, quelle in cui l’attore sa dare il meglio di sé: nella mente (e nel cuore) si stampano i ritratti freddi e solitari dei suoi vilain (Frank Costello Faccia d’angelo), dei suoi arrampicatori apatici e avidi (Delitto in pieno sole), dei suoi cinici e inquieti borghesi (Mr. Klein), degli sviliti campioni di una vita provinciale (La prima notte di quiete).
Tutti ruoli dove Delon finisce per dirigere se stesso, per far emergere quella voglia di vivere che lo ha reso immortale.
La riprova, se mai ne servisse una, è arrivata quando aveva settantacinque anni e Dior lo scelse nel 2010 per la pubblicità di un profumo, riproponendo alcune immagini del suo film più popolare, La piscina, dove si intrecciavano storie personali (fu lui a imporre Romy Schneider come partner, che era stata la fidanzata ufficiale agli inizi della sua carriera) e profumi di scandalo (durante le riprese dovette testimoniare a Parigi nel processo per l’assassinio del suo ex factotum, Stefan Marković) e dove la sua immagine e la sua bellezza eclissavano il suo ruolo d’attore e di uomo.
Ancora una volta la sua immagine veniva prima dell’artista, il volto prima della persona. E viene da pensare che quella bellezza che all’inizio della sua carriera era stato il grimaldello verso il successo, poi abbia iniziato a pesare su un uomo che aveva fatto fatica a invecchiare e ad accettare che il pubblico si stesse stancando di lui (quante volte ha dichiarato di volersi ritirare dopo un flop al botteghino e quante volte si è rimangiato la parola). Come una maledizione da cui non riusciva a liberarsi e che l’ha accompagnato fino a ieri.
(da Il Corriere della Sera)
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