NELLE CASE DEI “SENZA CASAâ€: TANTE LINGUE AL PORTO FLIUVIALE DI ROMA
NEL MAGAZZINO MILITARE OCCUPATO DAL GIUGNO DEL 2003: GLI APPARTAMENTI RICAVATI DIVIDENDO I VOLUMI CON IL CARTONGESSO… STORIE DI ORDINARIA POVERTA’ ED EMARGINAZIONE NEL SILENZIO DELLE ISTITUZIONI
Altro che Porto Fluviale. Questo ex magazzino militare all’inizio di via Ostiense, appena dopo il cavalcavia ferroviario, è un porto oceanico.
Sono approdati marocchini, peruviani, moldavi, tunisini, rumeni, equadoregni, senegalesi, gente da mezzo mondo.
Anche italiani come Manuela, 32 anni, due figli meticci (Kine e Leo, 4 e 2 anni) che si è fatta casa dai tempi dell’occupazione nove anni fa.
Un centinaio di famiglie, decine di bambini che vanno a scuola.
La più piccola è Manel, una ricciolina romano-marocchina di un anno, esibita con orgoglio da zia Zora.
Le occupazioni saranno una sessantina, in tutta la città . Oltre duemila famiglie.
Questa dell’Ostiense, 46 mila metri cubi su mezzo ettaro, fu attuata nel giugno 2003 quando il Coordinamento di lotta per la casa decise un’azione sullo stabile abbandonato da anni.
Erano duecento nuclei famigliari, poi ridotti col tempo.
Tra un anno il ministero della Difesa metterà l’immobile all’asta per fare quattrini.
L’acquirente potrà aumentare i metri cubi di un terzo trasformando tutto in appartamenti, negozi, uffici.
«Non vogliamo andarcene – dice Sara, 22 anni – resisteremo con tutte le nostre forze».
Forse è bene ricordarsi di queste migliaia e migliaia di persone in gran parte pienamente integrate nella società romana (operai, badanti, artigiani) ma costrette a vivere nell’edilizia perduta, talora importanti insediamenti che hanno perso una funzione.
Le case popolari non si costruiscono più, sul social housing si parla molto ma si fa ben poco. Le pubbliche amministrazioni fanno finta di subire un torto, ma tollerano perchè così si tampona un problema.
E che problema: la casa.
Qui se la sono arrangiata col cartongesso, ricavandola dagli spazi interni del magazzino, percorso al secondo e terzo piano perfino da una rotaia.
Hanno fatto un bagno con doccia per ciascuna, le tubature a regola d’arte, la corrente elettrica distribuita secondo le necessità .
La comunità si autoregola: nessuna violenza verbale o fisica, niente droghe.
Una volta la settimana, assemblea guidata da un «direttivo» nominato a rotazione per mandare avanti l’«unitè d’abitation» senza intoppi.
C’è una coloratissima sala da the aperta al pubblico («per scambiare conoscenze e mettere in movimento idee») che si affaccia sulla strada, un grande ambiente per le riunioni dove c’è anche una piccola area per pregare Allah, i lunghi e oscuri corridoi dove si affacciano le «case» e il Cortile, lo spazio esterno al centro della «ville radieuse», tanto per andare sul contrappasso.
Lo scenario è povero, sgarrupato.
Ma quando si entra a casa di Manuela o di Buochra, una quarantenne di Marrakesh, c’è un ambiente dignitoso, pulito e a cui non manca l’essenziale.
Spesso non chiudono la porta.
Roberto Suarez, 43, peruviano, studia sociologia e fa il facchino d’albergo: «Stando insieme siamo molto cresciuti: ora abbiamo un forte spirito sociale e pensiamo che questo ex magazzino debba subire una trasformazione esemplare per tutto il quartiere».
Abdul, marocchino sui 40, da tempo covava certe idee su questo casermaccio in cui tanti sorridono: ed ha appena scritto un libretto col computer dal titolo «Mi piace questo posto» che regala «solo a chi lo merita».
I «fluviali» organizzano spesso presentazioni di libri, dibattiti, fanno skill share (condivisione di abilità , un progetto social che viene da Boston), aperitivi, party: e così mettono insieme qualche soldo per la manutenzione. Il pomeriggio mentre i ragazzi giocano a pallavolo, si chiacchiera bevendo the e assaggiando dolci di ogni Paese.
«Qui abbiamo imparato a socializzare la sofferenza individuale» dice qualcuno che esalta l’atmosfera di buona convivenza costruita nel grande fabbricato. Non sarà proprio radiosa, ma questa mini-borgata in piena città , sovrastata dalla ferrovia, pare alludere ad una serena alternativa al modo di vivere stressante ed infelice al quale sembriamo tutti tendere”.
Margherita, ingegnere sarda trentenne, sta facendo in questa comunità il suo dottorato di urbanistica.
Con Gaetano ha realizzato un mediometraggio (50′), «Good buy Roma», che parla della valorizzazione dell’ex magazzino e del diverso modo di vivere che si è venuto a creare in via del Porto fluviale.
Il film è stato premiato in tanti festival di settore e sta girando per il mondo nel circuito underground.
È un cinema di denuncia e di speranza, che piace perfino in Nuova Caledonia.
Giuseppe Pullara
(da “Il Corriere della Sera”)
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