NOVANTA GIORNI ALLA BANCAROTTA, RICERCATORI ED ESPERTI RUSSI FANNO IL COUNTDOWN: IN TRE MESI IL PAESE ANDRÀ IN DEFAULT
NELLE CHAT C’È IL PANICO: “QUA SI TORNA AL BARATTO”… LE PERSONE GIÀ INIZIANO A PERDERE IL LAVORO O NON SANNO PER QUANTO LO CONSERVERANNO… LE GUERRE COSTANO, E PUTIN NON HA LE RISORSE PER UN’OFFENSIVA A TUTTO CAMPO SULL’UCRAINA
“Tre mesi». E’ questo il termine di tempo che rimbalza tra i messaggi, nelle chat, nelle interviste a ricercatori sui siti russi che ancora riescono a trasmettere. Tre mesi perché tutta l’economia crolli, perché il Paese vada in default, perché lo spettro degli anni Novanta torni a sedersi nelle tavole dei russi.
Un po’ è panico, un po’ è vox populi, un po’ no, perché c’è già chi comincia a perdere il lavoro, chi non riesce a trovarlo, chi non sa per quanto riuscirà a conservare il proprio. Le immagini di code ai negozi che chiudono – l’ultimo McDonald, l’ultimo piumino Uniqlo, l’ultimo scaffale Ikea – fanno pensare che sarà il settore del commercio quello a mietere le maggiori vittime: ieri nella chat Telegram «l’amante insanguinata» (il riferimento è all’Ucraina) ci si chiedeva se siano pronti i tempi per tornare al baratto.
«Vestiti e scarpe, metteremo quelli che abbiamo», si sente già dire dai russi più anziani.
Per adesso le riserve nei centri commerciali ancora sono disponibili, anche se è chiaro che le merci si stanno assottigliando, le persone avranno meno soldi da spendere, i prezzi stanno già crescendo e la popolazione si prepara a uno «scenario iraniano» (altra espressione ricorrente).
Ma i settori più a rischio di pesanti ricadute occupazionali sono quelli industriali: quello automobilistico in primo luogo, nel segmento chiave dell’assemblaggio.
I produttori se ne stanno andando, la regione di Kaluga e di Kaliningrad hanno già fatto sapere che cercheranno di assorbire la fuga dei marchi tedeschi senza licenziare ma con un salario minimo: fra breve, hanno lasciato intendere, non ci sarà nulla da assemblare.
Anche Ford ha chiuso lo stabilimento di Vsevolozhsk, regione di Pietroburgo, e se Hyundai e Toyota ancora resistono, il problema sono i componenti, che arrivano da società occidentali che hanno fermato le forniture.
L’altro settore colpito è l’aviazione: gli unici a essere effettuati saranno i voli nazionali perché le compagnie straniere hanno interrotto l’invio di pezzi di ricambio e del necessario per la manutenzione.
«Non soffriranno solo gli equipaggi e i complessi legati ai servizi aeroportuali – spiega la ricercatrice di San Pietroburgo Natalia Zubarevich – ma avremo tutti paura di volare». Stesse difficoltà per il petrolchimico: «Le attrezzature per la modernizzazione delle raffinerie sono in gran parte importate dall’Europa – dice ancora – e al momento non è chiaro come possano funzionare senza».
I giovani economisti moscoviti fanno ipotesi, guardando sempre ai famigerati anni Novanta. Uno di loro, Vladimir Gimpelson, esperto di mercato del lavoro alla Scuola di Studi Economici di Mosca, sostiene che si assisterà a un congelamento della forza lavoro. «Congelare la forza lavoro significa sempre gestire shock temporanei – dice – ma non appena diventa chiaro che lo shock è permanente, i datori di lavoro semplicemente tagliano i costi e tolgono ciò che possono togliere. In un’economia in cui ci sono molti disoccupati, questo è, ovviamente, un disastro».
Insieme a «tre mesi» e «scenario iraniano», l’altra parola che circola come un mantra è «nazionalizzazione». I russi al fondo sperano in una pioggia di rubli che metterà a posto le cose.
Ma non funziona così: «I posti di lavoro sono creati da un’azienda a seconda di quanto e quali prodotti questa azienda produrrà – spiega Gimpelson -. Se un’impresa viene nazionalizzata, la prima domanda è: cosa produrrà? Per chi? E chi la gestirà? Se queste domande non trovano risposta – e in molti casi non ci sarà risposta – allora non capisco davvero cosa porterà la nazionalizzazione».
Alle professioni tradizionali, per cui gli scenari benché disastrosi si prestano a essere analizzati con le lenti del passato, si affiancano oggi quelle per cui gli anni Novanta non rappresentano alcun orizzonte di senso.
Tipo quella di Vladi, tatuatore che vende i suoi lavori su Instagram: «Era la mia principale piattaforma di lavoro, perderò tutti i clienti, che già non riescono più a trovarmi». O quella di Sveta, responsabile in un reparto marketing di un centro estetico a Vladivostock: «Ho 10 persone nel mio team, cinque delle quali sono impegnate nella produzione di contenuti e nelle vendite su Instagram. Da lunedì, tutte perderanno il loro principale strumento di guadagno, e di lavoro».
(da la Stampa)
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