RENZI E LA FINE DELL’ERA DEL “SONO STATO FRAINTESOâ€
DA “UNICO PARTITO NON PERSONALE” A “PARTITO PADRONALE”?
Ancora quasi non era scoppiata la bombetta del “Chi?” staffilato da Matteo Renzi al (suo) viceministro dell’Economia Stefano Fassina, e già erano al lavoro molti volenterosi pompieri del capo: chi a dire che quel “Chi?” non era mai stato pronunciato, chi ad accusare i giornalisti di mestare nel torbido.
Un classico degli ultimi vent’anni: il sasso che parte, la mano che si nasconde. Sarebbe bastato un “Sono stato frainteso” per rispettare il copione.
Invece, Renzi ha rivendicato la battutina e gli zelanti pompieri del capo sono rimasti con la pompa in mano, la scala a mezz’asta e la sirena ripiegata.
Non era colpa dei giornalisti, insomma, e nessuno era stato frainteso, e non c’era nessun “gomblotto”.
È un piccolo episodio, per carità , e se lo si ricorda qui, a qualche giorno dai fatti, non è per polemica.
È semmai perchè può servire a un dibattito serio che riguarda la sinistra italiana e non solo lei.
Un dibattito che dovrebbe crescere intorno alla saggia domanda che ha posto Ilvo Diamanti su Repubblica, non un invasato grillino, non un nostalgico ideologico.
La domanda che Diamanti pone sul Pd renziano alla fine della sua analisi è questa: “Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi”. O, almeno, senza assomigliargli almeno un po’, nei modi, nelle dinamiche, nel porsi di fronte agli avversari interni ed esterni.
O ancora, per dirla con Gianni Cuperlo (che del Pd renziano è il presidente), se sia possibile in quella logica fare una distinzione tra il “dirigere” e il “comandare”.
Per ora ci si deve accontentare di piccoli indizi. Il tempo dirà .
Certo, tra gli indizi c’è anche quello degli zelanti pompieri: accusare i giornalisti per una frase effettivamente pronunciata farebbe pensare che sì, che c’è nel renzismo una componente fideistica che ricorda certe uscite dei fedelissimi berlusconiani in relazione alle sparate (quasi sempre infelici) del loro Santo Silvio.
Altri elementi sono un certo decisionismo ostentato (ma per ora un decisionismo senza decisioni), una forte accelerazione sul carattere personalistico del partito, un modellare la principale forza politica della sinistra sulla figura del nuovo capo.
Il “Non sarò mai un grigio burocrate” detto da Renzi somiglia abbastanza da vicino al “Non faccio parte del teatrino della politica” detto da Berlusconi, e ci sarà tempo per verificare se avrà più fortuna.
Ma insomma, alcuni indizi, quelli messi in fila dall’ottimo Diamanti e quelli che ognuno può vedere, ci sono.
La domanda rimane sospesa e forse la risposta vera la può dare solo la base del Pd, cioè quei milioni di italiani che si vantavano (con Bersani) di sostenere l’unico partito non personale e che ora si ritrovano con il dubbio di sostenere un partito “padronale” (e questa è una citazione di Fassina).
Italiani che dicono le cose in italiano e non in inglese, che magari rimangono affezionati a qualcosa che somigli a un’ideologia e che non la considerano una parolaccia, che magari non sono nemmeno tanto affascinati dai panini di Eataly e che potrebbero persino essere un po’ irritati dalle interviste dei loro leader su Chi?, la bibbia del gossip berlusconiano.
Insomma, alla domanda di Ilvo Diamanti risponderanno loro, prima o poi.
A meno che il nuovo Pd post-berlusconiano (ancora parole di Diamanti) non decida che di loro può fare a meno, che quei voti non gli servono, che è davvero diventato un’altra cosa, nel nome e nel culto del capo.
Post-berlusconiano e anche un po’, forse, post-democratico.
Alessandro Robecchi
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