Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
“USATO UN MODO SBRIGATIVO E OFFENSIVO PER LA DIGNITA’ DELL’EX SEGRETARIO DELLA CGIL”
Il caso Cofferati e la norma salva-Berlusconi saranno due macigni sull’elezione del successore di
Giorgio Napolitano.
E’ il messaggio che Stefano Fassina ha inviato a Matteo Renzi.
In un’intervista a RaiNews24 l’esponente della minoranza dem ha spiegato come la vicenda dell’ex segretario della Cgil e quella del decreto fiscale “certamente non aiutano a costruire un clima positivo” per il voto sul Colle.
Tutt’altro: “Il modo sbrigativo, offensivo per la dignità di Cofferati con cui la sua scelta è stata trattata, pesa notevolmente sul Quirinale“, sottolinea il deputato dem.
“Pesa notevolmente sul Quirinale — aggiunge l’ex responsabile economico del Partito Democratico — anche la vicenda del decreto fiscale che potrebbe premiare Silvio Berlusconi, capo dell’opposizione. Siamo di fronte a un conflitto di interessi enorme, l’unico caso al mondo nel quale il capo dell’opposizione è potenzialmente oggetto di un intervento del governo”.
Per il Quirinale, continua Fassina, con “l’aiuto attivo della direzione e dei gruppi parlamentari Pd, bisogna individuare innanzitutto i criteri della scelta, prima del nome. Noi abbiamo indicato tre criteri: autorevolezza, autonomia dall’esecutivo e capacità di unire”.
“Fino alla fine dobbiamo cercare di far convergere tutte le forze politiche — aggiunge — Dobbiamo costruire le condizioni per andare oltre” il patto del Nazareno “per il massimo coinvolgimento possibile delle forze di opposizione”.
(da agenzie)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
IN DUE ANNI PROVVEDIMENTI PER REATI PENALI ANCHE PER 800 DIPENDENTI DELLA GUARDIA DI FINANZA…ECCO LA RADIOGRAFIA DEGLI ILLECITI NELLE ISTITUZIONI
Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri.
Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti.
Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili.
Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco.
A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio.
Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
Anche le guardie fanno i ladri
Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato.
La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA.
Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che — visti i numeri — sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali.
Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità , enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università .
Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi.
Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno.
Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo.
Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora.
Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento.
E che cosa succede, allora, a casa delle guardie?
La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti.
La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo.
Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado.
Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”.
La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita.
La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac.
I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi.
Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270.
“Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”.
E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti
Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione.
Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno.
L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi.
Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”.
Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara.
L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”.
Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”.
A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono.
Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato.
Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica
Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica.
Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica — si legge — la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”.
La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti.
Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività , segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma.
Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno.
Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione.
Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui — a fronte del quadro sopra descritto — “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza
Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”.
Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino.
E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno.
Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni.
Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori.
Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante.
Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail.
Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno.
Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
OTTO IMPRESE SU DIECI HANNO PROBLEMI DI CASSA… 1,7 MILIONI DI LORO DICE DI NON POTER ASSUMERE, 900.000 RISCHIANO DI DOVER LICENZIARE… FALLIMENTO VICINO PER 700.000 AZIENDE A CORTO DI CONTANTI
In Italia ben 3.400.000 imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di
liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti.
A seguito dei mancati incassi, le perdite hanno toccato i 35 miliardi di euro: 1.700.000 imprese (il 39 per cento del totale) hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900.000 aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti.
Infine, 700.000 imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.
Questi risultati si riferiscono al sentiment degli imprenditori rilevato nel 2014 e sono il frutto di un’elaborazione realizzata dall’Ufficio studi della Cgia sulla periodica indagine conoscitiva condotta a livello europeo da Intrum Justitia.
“Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione (Pa), sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni. In entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue”.
Sebbene il decreto legislativo n° 192/2012, che recepisce la Direttiva europea contro i ritardi nei pagamenti, sia entrato in vigore da due anni, la situazione non è cambiata molto.
Per legge il committente deve pagare il fornitore entro 30 giorni dal ricevimento della merce o dall’emissione della fattura.
Salvo accordi tra le parti, il pagamento può slittare sino a 60 giorni e, in casi eccezionali, superare anche quest’ultima soglia.
“Si auspicava che, finalmente, si fosse stabilito un principio fondamentale: chi lavora deve essere pagato in tempi certi e ragionevoli. Purtroppo, nonostante una leggera riduzione dei tempi medi, rimaniamo i peggiori pagatori d’Europa sia nel pubblico sia nel privato”.
Tenendo conto della contrazione nell’erogazione del credito avvenuta in questi ultimi anni, del livello di tassazione che rimane ancora elevato e della dilatazione dei tempi con i quali le imprese (soprattutto quelle di piccola dimensione) vengono pagate dai propri committenti, non sorprende il fatto che molte attività si trovino in seria difficoltà . “Settecento mila imprese hanno denunciato che, a seguito dei mancati pagamenti, sono a rischio chiusura: pertanto – prosegue Bortolussi – è necessario rivedere la legge attualmente in vigore, rendendo più stringenti le sanzioni contro coloro che deliberatamente non rispettano i tempi di pagamento”.
“Fortunatamente – conclude Bortolussi – grazie all’introduzione dell’Iva per cassa, che dal mese di dicembre del 2012 consente alle aziende con un fatturato annuo inferiore ai 2 milioni di euro di versare l’Iva allo Stato solo dopo il pagamento avvenuto, le piccole imprese hanno uno strumento in più per difendersi in questa fase economica così difficile. Ovviamente, tutto ciò non basta”.
Infine, la Cgia ritorna sullo stato di attuazione del pagamento dei debiti della nostra Pa. Gli ultimi dati disponibili sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono riferiti al 30 ottobre 2014 e ci segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro.
Se consideriamo che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro, l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale delle risorse stanziate è pari al 57,7 per cento.
Peccato che lo stato di aggiornamento del sito sia però in forte ritardo: era prevista una nuova diffusione di dati per lo scorso 30 novembre, ma a distanza di un mese e mezzo non è stata ancora effettuata.
Alla Cgia chiedono: “Per quale ragione?”.
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
NEL 2014 HANNO CHIUSO 15.605 IMPRESE (+ 9%)
Due fallimenti all’ora, 62 al giorno.
Piccole e grandi aziende che si arrendono alla crisi e portano i libri in tribunale: in testa i settori dell’edilizia e del commercio all’ingrosso, ma gettano la spugna anche macchinari industriali e computer.
E’ la mappa dell’Italia che chiude, una mappa che negli ultimi sei anni è andata espandendosi e non dà segni di ridimensionamento.
Secondo i dati di Cribis D&B (società del gruppo Crif specializzata in business information), nel 2014 ci sono stati 15.605 fallimenti, in aumento del 9% rispetto all’anno precedente e del 66% rispetto al 2009, il periodo a partire dal quale la crisi economica ha prodotto i suoi effetti sul territorio.
Ma il picco estremo è stato toccato nell’ultimo quadrimestre dello scorso anno, che ha visto fallire 4.502 imprese: è il dato più alto dal 2009
Non si vede dunque un’inversione di tendenza: negli ultimi sei anni, sottolinea lo studio, oltre 75 mila imprese hanno portato i libri in tribunale, nella maggior parte dei casi società di capitali, quindi di dimensione non necessariamente ridotta.
Le aziende piccole infatti, quando sono in difficoltà chiudono in tempi brevi, direttamente, senza avviare il giudiziario.
I fallimenti sono il risultato finale di una crisi che si manifesta in aziende più grandi e che vede i primi segnali nella difficoltà di far fronte ai pagamenti.
Cribis D&B fa notare che fallimenti, difficoltà di far onore ai debiti o di riscuotere i crediti vanno di pari passo.
Dal 2010 ad oggi c’è stato un aumente to del 252,7% dei ritardi gravi (dai trenta giorni in su).
In realtà solo il 37,5% delle imprese italiane è puntuale nei versamenti. E la difficile liquidità di cassa è spesso il campanello d’allarme di un futuro fallimento.
«La situazione è critica nel commercio e nell’edilizia, settori dove nell’ultimo anno sono fallipercorso 4 mila imprese», commenta Marco Preti, amministratore delegato di Cribis. L’unica nota positiva, puntualizza, «è che negli ultimi anni le aziende italiane hanno investito molto in strumenti che consentono di intercettare tempestivamente i segnali di deterioramento. Sono quindi riuscite a prevenire e limitare meglio i rischi e a fare previsioni sui flussi di cassa». Nella lunga lista delle aziende fallite, accanto a quelle che costruiscono nuovi edifici (1.899 solo nel 2014) o installazioni (1.309) o commerciano all’ingrosso beni durevoli (1.197), ci sono anche bar e ristoranti (720), trasporti, abbigliamento, alimentari, produzioni di macchine industriali e computer.
La crisi non risparmia le aree ad alta densità industriale.
In testa alla classifica c’è quindi la Lombardia che assorbe da sola oltre il 22% dei fallimenti nazionali e che dal 2009 ad oggi ha visto portare i libri in tribunale 16.578 aziende.
La seguono il Lazio (10,5), la Campania (8,7) e il Veneto (con l’8,4%).
Luisa Grion
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
E’ L’ISPIRATORE DELLA RIFORMA DEL LAVORO…ENTRERA’ IN VIGORE IN ESTATE E SUL TAGLIO DEI CONTRATTI PRECARI TUTTO TACE
Mat teo Renzi lo cita con ti nua mente come «riforma già fatta». Ma il Jobs act è tutt’altro che in
vigore. E non lo sarà ancora per mesi.
Tra sci nan dosi die tro tutta una serie di misteri, intrigi, inter ro ga tivi che lasciano in bilico milioni di per sone, primo fra i quali sicu ra mente quello su quando e come verranno ridotti i 46 con tratti pre cari ora esi stenti, domanda alla quale Renzi non ha mai rispo sto, pro met tendo solo «l’abolizione dei cococo (che nel set tore pri vato non esi stono più da anni, ndr) e dei cocopro».
Vero invece che alcuni suoi effetti – i più dele teri per i lavo ra tori – siano già realtà . Come dimo strano le sper ti cate lodi che Mar chionne e tanti altri grandi e pic coli impren di tori riser vano alla «rivo lu zione» renziana.
Muta zione a inden nizzo cre scente
Per capire lo stato dell’arte la cosa migliore è seguire il men tore della riforma.
Senza mai essere smen tito, Pie tro Ichino si è preso il merito di tutte le deci sioni chiave prese dalla idea zione della riforma fino alla ste sura dei testi dei primi due decreti legi sla tivi.
Diven tando quindi una sorta di mini stro del Lavoro ombra.
La più impor tante delle quali è cer ta mente quella riguar dante la tra sfor ma zione del «con tratto a tutele cre scenti».
Lo stru mento che nei piani ini ziali di Renzi doveva «supe rare l’apartheid nel mondo del lavoro tra garan titi e gio vani pre cari» – e che doveva essere inse rita per molti già nel decreto Poletti dello scorso mag gio – e che invece la per pe tua ulte rior mente togliendo l’articolo 18 solo per i neo assunti, e che dun que di «tutele cre scenti» non nè ha alcuna, facendo solo aumen tare di due mesi l’anno l’indennità che l’imprenditore dovrà pagare in caso di licen zia mento ille git timo.
Il sena tore di Scelta Civica infatti motiva la scelta – e dun que se ne prende il merito – di appli carlo solo ai neo assunti spie gando come se il nuovo con tratto fosse stato esteso a tutti ci sarebbe stato il «rischio di una pic cola esplo sione di licen zia menti nella fascia dei lavo ra tori meno pro dut tivi».
Una moti va zione che quindi sbu giarda il governo che con tutti i suoi rap pre sen tanti a qual siasi livello con ti nua a soste nere come «i licen zia menti non saranno più facili».
Imprese per il con tratto «unico»
Ma la con se guenza di que sta scelta è pre sto detta: pro prio per chè con il nuovo contratto i licen zia menti sono più sem plici, qual siasi impresa sarà ten tata di cam biare con tratto ai pro pri dipen denti, appli cando loro quello a tutele cre scenti – che
sosti tuisce il con tratto a tempo inde ter mi nato – poten doli dun que licen ziare quando più aggrada.
La dimo stra zione viene pro prio da Feder mec ca nica: giu sto venerdì il suo pre si dente – il mode rato Fabio Stor chi – ha pro po sto di «eli mi nare il dop pio regime tra i nuovi e i vec chi assunti» chie dendo «coe renza per chè tutti que sti prov ve di menti siano estesi a tutta la pla tea degli occu pati».
In una parola: libertà di licen zia mento. Cosa che subi ranno già tutti i lavo ra tori degli appalti: la prima volta che pas se ranno di “padrone” per de ranno per sem pre l’articolo 18, come denun ciato dalla Fil cams Cgil.
In più lo stesso Ichino sostiene che in caso di licen zia mento «il costo per l’impresa sarà la metà o poco più» di quello pre vi sto con due mesi di inden nità l’anno: que sto per chè ogni lavo ra tore licen ziato «opterà per la con ci lia zione stan dard, pari a una men si lità per anno di ser vi zio, con un mas simo di 18» in quanto «l’esito del giu di zio» a cui si dovrà sot to porre per otte nere l’indennizzo «non è scon tato» e per chè in caso di con ci lia zione il governo ha pre vi sto che que sta sia «esente da impo si zione fiscale». Un enne simo favore alle imprese.
Due decreti su cin que (o più)
Il con tratto a tutele cre scenti è solo il primo dei decreti pre vi sti.
Il 24 dicem bre il governo lo ha appro vato insieme al secondo sugli ammor tiz za tori, uscito da palazzo Chigi con la dizione «salvo intese».
In que sto però – a parte le coper ture per la scia rada di nuovi ammor tiz za tori a par tire dal Naspi e al netto della balla sui 24 mesi di coper tura: par tirà da mag gio, sarà di due anni solo se un pre ca rio ha lavo rato con se cu ti va mente negli ultimi quat tro anni e dal 2017 il mas simo di coper tura calerà a 18 mesi – manca tutta la parte sulla riforma delle varie forme di cassa inte gra zione, che neces si te ranno di un nuovo decreto, e che comun que ridur ranno ulte rior mente – la cig in deroga è già stata dimez zata, i contratti di soli da rietà non sono stati rifi nan ziati e l’indennità è stata ridotta del 10 per cento – la durata degli ammor tiz za tori sociali per i milioni che il lavoro lo hanno già perso.
Man cano dun que la mag gior parte dei decreti – tre o quat tro almeno – come da delega: riforma dei ser vizi per il lavoro con la crea zione dell’«Agenzia nazio nale per l’occupazione», «dispo si zioni di sem pli fi ca zioni e razio na liz za zioni delle pro ce dure a carico di cit ta dini e imprese», «un testo orga nico sem pli fi cato delle tipo lo gie con trat tuali e dei rap porti di lavoro», «soste gno alla mater nità e pater nità ».
Per tutti que sti decreti i tempi pre vi sti sono di mesi – il mini stro Poletti parla di quat tro – men tre il limite della delega è di «sei». E cioè di giu gno.
Con almeno un altro mese in più da con teg giare per la pub bli ca zione in Gaz zetta ufficiale. Insomma, la riforma non sarà in vigore prima dell’estate.
Cer tezza ricorsi, rischio Corte
Il grande punto inter ro ga tivo futuro sul Jobs act riquarda poi il rischio di
inco sti tu ziona lità del con tratto a tutele cre scenti.
Per molti giu ri sti vio le rebbe l’articolo 3 delle costi tu zione – il prin ci pio di uguaglianza per l’apartheid pro dotta – e l’articolo 2106 del Codice civile che prescrive come le san zioni in fatto di lavoro deb bano essere pro por zio nate «all’infrazione».
La Cgil poi è pronta – come già fatto per il decreto Poletti sul tempo deter mi nato – a ricorre alla Corte di giu sti zia Euro pea in nome della «Tutela in caso di
licen ziamento ingiu sti fi cato» – l’articolo 30 della Carta dei diritti fon da men tali dell’Unione europea.
La «fretta» e il Par la mento
La bat ta glia riprende mar tedì. E Pie tro Ichino è già lan cia in resta.
Un altro dei suoi cavalli di bat ta glia – il con tratto di ricol lo ca zione che con sente alle agen zie inte ri nali di incas sare i vou cher se rie scono a tro vare un lavoro a chi è stato licen ziato – nel testo con se gnato al par la mento mer co ledì ha subito due modi fi che.
È stato spo stato dal primo al secondo decreto per chè «neces sita di un parere della
con fe renza Stato-Regioni» ed è stato «mani po lato» da «qual che diri gente mini ste riale» che ne vuole limi tare l’uso solo a chi «abbia subito un licen zia mento per motivo ogget tivo cer ti fi cato da un giu dice»: una «pla tea ristret tis sima» rispetto alla miriade di licen ziati che ci sarà .
Oltre a que sto ripri stino del testo ori gi nale, la parola d’ordine di Ichino –
spal leg giato da Mau ri zio Sac coni che pre siede la com mis sione lavoro al Senato – è una sola: fretta.
Per loro le com mis sioni devono espri mere il parere «con sul tivo» – non vin co lante – entro «la set ti mana».
La fretta è dovuta alla richie sta di Con fin du stria: le imprese atten dono l’entrata in vigore del con tratto a tutele cre scenti per poter assu mere sfrut tando gli sgravi fiscali – 100% di decon tri bu zione Inps per 3 anni, esclu sione dalla base impo ni bile Irap rife rita al costo del lavoro.
Dopo un anno – e fino a tre – se licen zie ranno le stesse per sone assunte, ci avranno comun que guadagnato.
Media zione in per dita
Di parere oppo sto è Cesare Damiano, che guida la com mis sione della Camera.
Come pre si dente ha accet tato subito di fare audi zioni delle parti sociali – allun gando i tempi— e chiede modi fi che su almeno tre punti – «eli mi na zione dell’estensione delle norme ai con tratti col let tivi (vero colpo di mano nei decreti, ndr), ripri stino del rife ri mento alle tipiz za zioni dei con tratti col let tivi per le san zioni con ser va tive in caso di licen zia mento disci pli nare e innal za mento da 4 a 6 mesi dell’indennità minima in sosti tu zione della rein te gra».
Tutti punti che avvi ci ne reb bero il testo alla media zione uscita dalla dire zione Pd del 29 set tem bre scorso.
Pec cato che da quel giorno le cose sono peg gio rate – per i lavo ra tori.
Ed è quasi certo che Renzi e il con si glio dei mini stri a metà feb braio igno re ranno bel la mente qual siasi parere par la men tare.
Come ormai da con so li data prassi governativa.
Massimo Franchi
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
E’ ORA CHE QUALCUNO FINISCA IN GALERA QUANDO DIFFONDE ARTATAMENTE NOTIZIE FALSE E COMMENTI RAZZISTI SUL WEB
“Greta e Vanessa ai pm di Roma: sesso con i guerriglieri ma non siamo state violentate”.
E’ questo il titolo ad effetto scelto da “Catenaumana.it” – apparentemente un sito di informazione online come ce ne sono tanti — per un articolo di ieri, nel quale scopiazzando ed interpolando, a proprio uso e consumo, un pezzo apparso su Il Giornale, il giorno prima, si mettono in bocca a Greta — una delle due cooperanti italiane appena rilasciate dai guerriglieri — parole che quest’ultima non ha mai pronunciato: “non nascondo, che con alcuni guerriglieri ci sono stati rapporti sessuali, ma assolutamente consenzienti, con noi erano gentili.”.
Dopo la notizia circolata nei giorni scorsi secondo la quale il governo avrebbe pagato un riscatto da 12 milioni di euro per ottenere il rilascio delle due ragazze italiane, le parole falsamente attribuite a Greta sono, letteralmente, benzina sul fuoco ed infiammano un dibattito straordinariamente greve e violento su tutti i principali social network.
L’articolo viene, infatti, condiviso, in una manciata di ore, oltre 24 mila volte su Facebook e fa rapidamente il giro di tutti i principali social network dove, a centinaia di migliaia lo leggono senza capire che si tratta di una bufala messa in giro, ad arte, per scatenare un putiferio mediatico.
E a scambiare per vera la notizia — o, almeno, a non bollarla come una bufala — c’è anche Maurizio Gasparri, Presidente del Gruppo del PdL al Senato ed ex Ministro, che ieri sera, dal suo account su Twitter cinguetta: “#vanessagreta sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo!”.
Nessun link all’articolo in questione, ma solo una domanda, seguita da una sua personalissima considerazione.
Apriti cielo. Il tweet del Senatore pdellino infiamma ancora di più la polemica perchè, ovviamente, la circostanza che la notizia sia presa, almeno come verosimile, addirittura da un Senatore della Repubblica che è stato anche Ministro delle Comunicazioni, le attribuisce un’aurea di maggior affidabilità .
Solo più tardi, in un’intervista a La Repubblica, Gasparri racconterà di aver letto la notizia su un sito “piovegovernoladro.info” che, a sua volta, l’aveva ripresa da “catenaumana.it” e che con il suo tweet voleva semplicemente verificarne l’attendibilità .
I commenti su Facebook, nella pagina sulla quale l’autore della bufala in questione ha condiviso l’articolo fanno rabbrividire.
“Quindi vi siete divertite?”, chiede qualcuno alle due ragazze appena rientrate in Italia dopo sei mesi di prigionia.
“Non avevo dubbi, dalle vostre facce [ndr quelle delle due ragazze] si capisce tutto”, chiosa un altro utente che sceglie come immagine del suo profilo il faccione rosa di Peppa Pig.
“Fate SCHIFO. Avevano il viso coperto ma a quanto pare di guardarli negli occhi non ve ne fregava. Era altro quello che volevate. Spero abbiate la punizione che meritate. Mai sentito parlare di Ebola, di AIDS e altro?”, aggiunge una donna evidentemente non animata da grande solidarietà femminile.
Ed è ancora una donna a scrivere: “speriamo in qualche malattia mortale almeno!”.
E non mancano, naturalmente, i soliti complottisti: “Ragazzi x la cronaca e tutta una messa inscena…..anno diviso i soldi….adesso ritornano li e sn belle sistemate…cn i nostri soldi …..chi va e chi rimane e consapevole dei rischi…ricordatevelo…..”.
E’ questo — e purtroppo molto di più — l’effetto dell’inaccettabile sciacallaggio mediatico messo in scena — conta davvero poco se per idiozia o malafede — dai titolari delle pagine di “catenaumana.it”.
Ci vorranno mesi se non anni — e, forse, non basteranno — perchè le due ragazze possano smettere di sentirsi additare da tanti, in Rete e fuori dalla Rete, anzichè come due cooperanti italiane — forse tradite da un pizzico di incoscienza giovanile — sequestrate in Siria, come due incoscienti turiste a caccia di piacere dall’altra parte del mondo.
Ed ora, naturalmente, i supporter del nuovo disegno di legge in materia di diffamazione, avranno facile gioco a sostenere che hanno ragione loro e che c’è davvero bisogno di usare il pugno di ferro contro chi utilizza la Rete per diffamare qualcuno perchè episodi come quello andato in scena in queste ore non sono sostenibili oltre.
Tutto per colpa di una manipolo di idioti ed imbecilli — perchè è difficile trovare parole diverse per definire i gestori delle pagine di catenaumana.it — che ha scambiato la libertà di informazione con il diritto di raccontare storie false come se fossero vere e fare carne da macello della dignità di due ragazze che hanno appena riabbracciato i loro genitori dopo sei mesi di prigionia.
Occorre tracciare una linea di confine netta, priva di ogni incertezza ed ambiguità , tra chi scientemente usa il web per offendere e scatenare putiferi mediatici diffamatori e chi — talvolta magari anche sbagliando — racconta la verità o quella che tale appare, anche se scomoda e difficile da accettare per taluno.
I primi devono essere privati della possibilità di tornare ad offendere mentre ai secondi va garantita la possibilità di continuare ad informare e diffondere il proprio pensiero, magari, con maggiore prudenza e, ovviamente, dopo averli chiamati a rispondere dei danni che abbiano, eventualmente, provocato.
Guido Scorza
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALLA GIORNALISTA DEL NEW YORK TIMES: “NEGLI ULTIMI SEI ANNI I GOVERNI EUROPEI HANNO PAGATO 125 MILIONI DI DOLLARI PER I RISCATTI, SPESSO IN FORMA MASCHERATA, GERMANIA COMPRESA”
“Non conosco le modalità , ma so per certo che il governo italiano ha pagato un riscatto per Greta e
Vanessa”.
Rukmini Maria Callimachi, giornalista del New York Times e finalista al Premio Pulitzer 2009, è tra le massime esperte internazionali di rapimenti compiuti da gruppi jihadisti.
È attraverso il suo lavoro che sappiamo che i governi europei hanno pagato 125 milioni di dollari in riscatti ai rapitori negli ultimi sei anni.
E tra i casi che ha analizzato più a fondo ci sono diversi italiani.
Riscatti ai jihadisti per risolvere i sequestri, è una prassi consolidata?
Cominciamo col dire che il governo italiano ha sempre pagato per i riscatti. Conosco da vicino i casi di Sandra Mariani, e Rossella Urru, entrambe rapita da al Qaeda in Algeria. Nel caso di Mariani gli appoggi locali erano in Burkina Faso, il denaro è stato stanziato dal governo italiano e pagato attraverso mediatori locali. Spesso però questo riscatto è mascherato da aiuto umanitario. Il Paese europeo paga una governo locale o una ong, che poi gira il dovuto ai sequestratori. L’ha fatto anche la Germania nel 2003 in Mali. Si scrive aiuto umanitario, si legge riscatto.
Nel caso di Greta e Vanessa si ipotizzato un riscatto milionario , qualcuno ha scritto 12 milioni di euro, altri sei. Le sembra credibile?
Non so dire come l’Italia abbia “finanziato” la liberazione, ma so per certo che ha pagato. I mediatori dei due casi citati in precedenza me l’hanno confermato.
C’è una divergenza molto forte di strategia tra i Paesi europei da un lato, e Stati Uniti e Regno Unito dall’altro.
Il governo americano è uno dei pochi che ha un atteggiamento “nero o bianco”: in passato non ha dato nulla ai gruppi terroristici. Il prezzo da pagare è che molti ostaggi americani sono stati uccisi. Ma per gli Usa l’unica opzione per risolvere un sequestro è il raid militare.
Questo comportamento diverso può creare problemi ai rapporti bilaterali?
Credo che gli Usa abbiano provato attraverso i canali diplomatici a far capire che non sono felici di questa strategia. D’altro canto, i governi continentali ufficialmente negano sempre i pagamenti perchè in qualche modo si vergognano. Peraltro al summit del G8 a Londra nel 2013 tutti i governi si sono impegnati a non pagare i riscatti. Parlando con i rappresentati Usa ho però capito che per loro quella dei riscatti non è una priorità : ci sono talmente tanti tavoli aperti nei rapporti bilaterali, che non è un tema in cima alle priorità .
Nella sua inchiesta scrive che gli affiliati di al Qaeda nel Maghreb hanno modificato le consuetudini per i sequestri anche nel Medio Oriente. In che modo?
Nel Maghreb i sequestrati sono considerati risorse, per questo vengono trattati bene. In passato per gli ostaggi sia dell’Isis che di al Qaeda questo non avveniva. Prendiamo il caso dell’americano Theo Padnos, per due anni prigioniero di al Nusra: che veniva torturato tutti i giorni. Questo con Greta e Vanessa non è avvenuto, un po’ perchè è cambiato l’approccio, e forse anche perchè si tratta di due ragazze.
Alessio Schiesari
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
VIAGGIO NEI QUARTIERI “ROSSI” DI SAVONA DOVE È STATO ANNULLATO IL VOTO: “BASTA CON I MANEGGI, CI HANNO RUBATO LE PRIMARIE”
L’atmosfera è rimasta quella di un tempo: i gotti di vino sui tavoli, il mazzo di carte, il cappello appoggiato sulla tovaglia quadrettata.
«A cambiare è il colore dei nostri capelli. E anche il Pd».
Ridono amaro gli anziani delle Società di mutuo soccorso nei quartieri “rossi” della città Medaglia d’oro per la Resistenza, Savona .
Proprio i due seggi, quelli di Villapiana e Lavagnola, dove il Collegio dei Garanti ha annullato il voto delle primarie di domenica scorsa.
Una ferita dove batte ancora il cuore del vecchio Pci. Non importa se il Partito ha cambiato nome: nelle Sms sono rimasti tutti“compagni”e le feste sono quelle dell’Unità .
Ma ieri la rabbia è esplosa alla notizia del colpo di spugna sugli oltre 500 voti, raccolti nei seggi dei due quartieri popolari, dove, fra l’altro, lo scarto di Cofferati sulla Paita era notevole.
«Ci hanno preso in giro — borbotta qualcuno. — Ma a me, alle Primarie, non mi ci vedono più».
E, tra chi non riesce a chiudere con determinazione, torna in auge la proposta: «Primarie solo tra chi è iscritto al Partito da almeno un anno. Erano uno strumento democratico, ce l’hanno rovinato».
Rabbia, amarezza e persino mortificazione fra chi era nei seggi.
«Abbiamo lavorato tanto— dice Carina Savio, vicepresidente della Sms“ Mille Papaveri Rossi” — e visto che fine abbiamo fatto! Hanno annullato il voto mio, quello dei compagni di Lavagnola, quello di chi lavora da anni perchè ci crede. Io ho sempre votato alle primarie con entusiasmo, ma non so se mi fiderò ancora. Ci dovrò pensare per bene e non è detto che mi rivedano».
Sono due quartieri feriti quelli di Villapiana e Lavagnola il giorno dopo la comunicazione dei Garanti: quartieri dove, negli anni Sessanta, sono andati a vivere prima gli emigrati meridionali e poi quelli piemontesi, bene accolti dai Savonesi che lavoravano nelle allora ferventi fabbriche cittadine.
Zone operaie che mantengono intatta l’ideale del Partito con la “p”maiuscola, l’unico a cui si possa pensare, il Pci.
E digerire quelli che sono più che semplici sospetti, oggi, è dura.
«Sa perchè non sono andato alle primarie?— dice Claudio Tagliavini, al tavolo della Sms Generale di Villapiana. — Perchè me l’aspettavo che finisse così. Sapevo che, con un certo candidato, il Partito avrebbe spostato il proprio asse verso destra. Qui abbiamo visto gruppi interi di ecuadoriani, di indiani: ma cosa gli importa a una badante straniera di dire la sua su uno o sull’altro? ».
Mario Laveri si inalbera. «Io sono sempre stato di sinistra, ma questa volta taglio con tutto. Non ne voglio più sapere, una vergogna troppo grande”.
L’onta del voto annullato ha ferito anche i soci di una Sms emblematica, la XXIV Aprile. «Quando si vota per il direttivo della nostra Società — dice Giancarlo Arena — sono interpellati solo i soci: è giusto, mica posso dire la mia su una realtà che non mi riguarda. Allora perchè alle Primarie facciamo votare tutti? Se avessimo scelto così, il problema l’avremmo stroncato dal nascere».
Le parole chiave che risuonano sono le stesse: amarezza, sconforto. Tra i tanti seduti ai tavoli, anche una “testa” ancora castana: un giovane, Fabrizio Ferro, con la figlia in braccio.
«Non discuto le scelte dei Garanti — dice.— Chiedo, però, chiarezza al Partito, ai dirigenti. Siamo stati messi tutti alla berlina: chi ha votato credendoci, chi lavora da anni, da giorni, chi distribuisce i manifesti e prepara i seggi. Auspico una cosa su tutte: chi ha delle responsabilità nella dirigenza regionale se le assuma e agisca come tutti si aspettano, con le dimissioni».
Difficile per Fabrizio mantenere la calma. «Il Partito — dice — è più mio, che lavoro da anni, che della Paita. È più di quei compagni che attaccano i volantini nei portoni che della candidata vincitrice. Per questo vorremmo che il Pd andasse nella direzione che rivendichiamo noi, non quella di chi porta avanti maneggi che hanno rovinato un sistema da tutti invidiato».
«Ho 83 anni—dice Maria Mignone— e sono comunista da 70. Voglio sapere dov’è andata a finire la mia preferenza di domenica scorsa. Ho sempre votato alle primarie, quando era vivo veniva anche mio marito, sempre. Ma la prossima volta ci penserò due volte. Anzi, tre».
Alessandro di Matteo
(da “il Secolo XIX“)
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Gennaio 18th, 2015 Riccardo Fucile
MA NEL PARTITO E’ TUTTI CONTRO TUTTI
«Io dimettermi? Ah ah ah…» Riattacca il telefono ridendo, il capogruppo forzista Renato Brunetta
quando gli viene chiesto se dopo il siluramento di Berlusconi, mai così plateale, così brutale, avesse intenzione di farsi da parte, accontentando così i suoi tanti detrattori nel partito.
«Ne riparliamo mercoledì in assemblea, con tutti, alla presenza del presidente», avverte lui col tono per nulla contrito
Raccontano che il leader, ad Arcore, sia fuori dalla grazia di Dio. «Proprio ora mi fa saltare tutto per aria? Non basta Fitto? »
Un avvicendamento alla guida del gruppo ormai lo ha messo nel conto. Ma la pratica è rimandata all’indomani dell’elezione del presidente della Repubblica.
Solo allora i sostenitori di Mariastella Gelmini usciranno allo scoperto, prima avrebbe l’effetto del detonatore. Berlusconi ha meditato ore prima di fustigare con quella nota il pur fedelissimo Renato. Che già era stato richiamato all’ordine tre giorni fa, quando il capogruppo si era scatenato in una guerriglia parlamentare contro la riforma del bicameralismo. «Così non va», lo aveva avvertito Berlusconi al telefono.
Poi è seguito lo scontro quasi fisico tra lo stesso capogruppo e Verdini a Palazzo Grazioli. Ieri il big bang.
La goccia che fa traboccare il vaso, solo l’ultima, l’intervista di ieri al Corriere e le dichiarazioni al Gr1.
Indomito, Brunetta minaccia il premier Renzi: «Sarà guerra, prima del Quirinale si andrà ai materassi », e ancora, «Renzi fannullone, perchè aspetta il 20 febbraio per fare i decreti fiscali che gli italiani aspettano e blocca il Parlamento per due riforme del tutto inutili?» Gli chiedono: «Berlusconi d’accordo con lei?» E lui: «Assolutamente sì».
Insomma, mentre Verdini e Romani tessono la trama degli accordi con Palazzo Chigi per conto del capo, il capogruppo taglia e trancia.
«Adesso basta» è sbottato ieri Berlusconi, che a differenza delle altre volte non ha nemmeno chiamato Brunetta, mentre Verdini e altri si sfogavano con lui al telefono («Non possiamo avere due linee, così siamo finiti »).
La dichiarazione del leader è di fuoco. «Leggo un’ultima agenzia con dichiarazioni dell’on. Brunetta che, a suo dire, io condividerei. È esattamente il contrario. Non sono d’accordo sui giudizi espressi da Brunetta e neppure sulla sua abitudine di attaccare personalmente gli avversari politici. Chiedo a Brunetta di cambiare atteggiamento ».
Se non è un «dimissionamento » del capogruppo, poco ci manca.
Anche perchè Berlusconi era già intervenuto un paio d’ore prima per rassicurare Renzi: «Abbiamo preso degli impegni che intendiamo rispettare. E questo vale anche per i tempi e le procedure. Stia tranquillo perciò Renzi, nessuna guerra sulle riforme. Nel partito tutti rispettino le decisioni prese».
Un uno-due in grado di affondare chiunque, ma non Brunetta, a quanto pare.
Lui replica per iscritto e tiene il punto, provocatorio: «Per antica consuetudine, tutte le mie analisi e tutte le mie dichiarazioni sono sempre state concordate con Berlusconi, anche quando lui cambiava parere».
E poi: «Per quanto riguarda gli attacchi personali, è mio dovere rispondere a quelli altrui, cosa che continuo a fare con pieno plauso del presidente ».
L’affondo del capo non era stato l’unico della giornata, per altro.
Nelle stesse ore un documento di fuoco viene preparato dall’altro capogruppo (al Senato) Romani e – raccontano – dall’altro sponsor del Nazareno, Denis Verdini.
Inviato per la sottoscrizione e a tutti i parlamentari: «La differenza di opinioni non può spingersi a danneggiare il nostro movimento ed il presidente Berlusconi avvalorando un presunto sostegno di Fi o l’esistenza di fantomatici e oscuri interessi» si legge tra l’altro.
I quaranta fittiani si rifiutano di sottoscriverlo.
Scatta l’ora della resa dei conti, dentro quel frullatore impazzito che è ormai Forza Italia, nel momento peggiore.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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