Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
SALTA LA NOMINA DELLA CAPA DEL DIS PER LA POLTRONA LASCIATA LIBERA DA RAFFAELE FITTO: COLPA DELLA FREDDEZZA DEL COLLE E LA CONTRARIETÀ DEL MINISTRO DEGLI ESTERI, CHE TEMEVA DI FINIRE COMMISSARIATO…LE DELEGHE SUL PNRR RESTERANNO A PALAZZO CHIGI, FORSE A MANTOVANO
L’ultimo atto di Raffaele Fitto da ministro è la cabina di regina del Pnrr. La buona notizia di ieri è che la spesa effettivamente effettuata e rendicontata del Piano ha raggiunto i 59 miliardi di euro.
La cattiva è che resta da spendere più del doppio entro giugno 2026. A Palazzo Chigi sono ottimisti: il bilancio del 2024 si dovrebbe chiudere con 22 miliardi di opere e obiettivi rendicontati. Un livello che sarebbe anche più alta se non ci fossero molti Comuni in ritardo sulla rendicontazione delle spese sulla piattaforma dedicata.
In sintesi: con il sì all’ultima rata il governo ha incassato fin qui 122 dei 194 miliardi a disposizione e ne ha spesi circa la metà. Per ottenere il sì alla settima rata – altri 18 miliardi – entro fine anno l’Italia dovrà dimostrare alla Commissione europea di aver raggiunto altri sessantasette obiettivi fra «milestone» e «target».
Fra i tanti: dovrà dimostrare di aver rafforzato la flotta di autobus e treni a emissione zero, riqualificato le stazioni ferroviarie, aver aumentato gli investimenti per le gestioni idriche, aver distribuito cinquantacinquemila borse di studio ad altrettanti studenti e settemilacinquecento di dottorato.
Come sempre il sì della Commissione passa da una serrata trattativa in cui da una parte si prendono impegni in extremis, dall’altra si chiude un occhio su alcuni dettagli di quegli stessi impegni.
Ora che Fitto passa dall’altra parte della barricata, sarà tutto più semplice. «Per fare un Fitto ce ne vogliono tre» dice Meloni. In realtà la premier al momento non ha con chi sostituirlo. Le deleghe del ministro della Coesione, il Sud, il Pnrr e gli Affari europei resteranno a Palazzo Chigi, come del resto è stato fin qui: Fitto è un ministro “senza portafoglio” perché sottoposto alla giurisdizione del presidente del Consiglio.
Fitto ha comunque proposto e ottenuto che le sue deleghe non vengano spacchettate. La sua struttura resterà intatta sotto la guida del capo di gabinetto Ermenegilda Siniscalchi. A sovrintendere politicamente sul suo lavoro dovrebbe essere uno dei due sottosegretari di Meloni, Alfredo Mantovano, quello che (a differenza di Giovanbattista Fazzolari) coltiva ottime relazioni con il Quirinale.
Il problema da risolvere è la poltrona degli Affari europei, per la quale si rende necessaria la nomina almeno di un sottosegretario. Secondo le voci che circolavano ieri a Palazzo Chigi, l’ipotesi di nominare ministro Elisabetta Belloni sarebbe tramontata. Per i dubbi del Quirinale e del vicepremier Antonio Tajani sulla nomina di un tecnico in una casella molto politica, e per le perplessità della stessa candidata.
Nelle ultime ore è circolata l’ipotesi di Giulio Terzi di Sant’Agata, ma anche nel suo caso Sergio Mattarella avrebbe espresso perplessità. La soluzione sarà quasi certamente la nomina di un sottosegretario gradito a Meloni: uno dei candidati è l’attuale presidente della Commissione Finanze di Montecitorio Marco Osnato.
(da La Stampa)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
IN UN MESE L’APPREZZAMENTO PER IL GOVERNO E’ CALATO DI TRE PUNTI… FDI 27,7%. PD 22,6%
I sondaggi di Ipsos illustrati oggi da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera dicono che il consenso del governo è in calo. Rispetto a un mese fa l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni perde tre punti nell’indice di apprezzamento e arriva a 42, il punto più basso dal giorno dell’insediamento.
La premier arriva a 43, il più basso dal 2022.
In compenso le intenzioni di voti dicono che il partito della premier cresce di un punto e arriva al 27,7%. Al contrario di Forza Italia che è all’8% e alla Lega che si trova all’8,7%. Il Partito Democratico sale di 1,5 punti e arriva al 22,6%, mentre il Movimento 5 Stelle è stimato al 13%.
Stabili tutte le altre forze, con variazioni poco rilevanti. Nella classifica del gradimento dei leader Giuseppe Conte perde ben quattro punti rispetto a ottobre e si colloca a 24,5 punti sotto Elly Schlein, stabile al 29.
(da agenzie)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
È STATO TAGLIATO IL 90% DEI FONDI RISPETTO ALLA VECCHIA PROGRAMMAZIONE… IL MINISTRO BASETTONI È ANDATO SU TUTTE LE FURIE, E SI È LAGNATO CON GIORGIA MELONI, MINACCIANDO VELATAMENTE (DI NUOVO) LE DIMISSIONI. MA I SOLDI SONO RIMASTI QUELLI
«Ma come pensano che si possa mandare avanti un ministero così?». Alessandro Giuli ieri pomeriggio era inviperito. L’umore del ministro della Cultura, in carica da meno di tre mesi, cambia d’un tratto intorno all’ora di pranzo. Quando nel suo ufficio entra la nuova capo di gabinetto, Valentina Gemignani, dirigente in prestito dal Tesoro, dunque pratica di conti: «Ministro, è allarme rosso», esordisce.
In mano, Gemignani ha le tabelle spedite poco prima dal dipartimento per le politiche di coesione e del Sud, il ministero che stasera lascerà Raffaele Fitto per insediarsi come commissario Ue. Quest’ultimo atto serve a ripartire il fondo sviluppo e coesione (Fsc) 2021-2027. E il Mic, dal prospetto, si ritrova con appena 171,8 milioni. In sostanza, sintetizza Gemignani all’ex direttore di Tempi , «ci hanno tagliato il 90% dei fondi» rispetto alla vecchia programmazione.
È qui che il ministro comincia a sbattere i pugni sulla scrivania. «Ma come pensano che si possa andare avanti col 10% delle risorse?». E ancora: «Il ministero con queste cifre non regge».
Di tempo per correggere le tabelle, però, ce n’è pochissimo. Il Cipess, il comitato interministeriale per la programmazione economica, si riunisce da lì a poche ore, alle quattro di pomeriggio, presieduto da Giorgia Meloni.
Giuli sa che non ha altre opportunità per farsi sentire, dunque decide di riportare ai colleghi di governo tutto il suo disappunto (e qualcuno condivide, perché toccato dalla stessa scure).
Già a margine del cdm, il ministro comincia a sfogarsi: quel taglio «non è accettabile». Ripete che sarebbe difficile per lui continuare a governare il dicastero. A qualcuno, questi ragionamenti sembrano addirittura una minaccia di dimissioni (sarebbe la seconda volta, dopo la querelle per il suo precedente capo di gabinetto, che ha spaccato FdI).
Ma fonti vicine al ministro smentiscono totalmente: Giuli non ha mai, nemmeno accennato, alla possibilità di un passo indietro. Il titolare della Cultura chiede conto del taglio direttamente a Fitto. Il ministro uscente replica così: non c’è. Semplicemente, spiega, l’ammontare totale delle risorse è nettamente inferiore rispetto a quello della precedente programmazione: 5,7 miliardi invece di 31,3. E poi, aggiunge Fitto, questa volta c’è il Pnrr a compensare: «Hai anche 4,2 miliardi del piano e altre risorse europee».
Giuli non è convinto. Oltre al cattivo umore, resta un problema politico gestionale serio, per un dicastero che ha già dovuto smaltire le scorie del post-Sangiuliano. A sera il ministro, che come si è visto in altre occasioni è poco incline a recitare la parte del signor-sì, decide di porre la questione direttamente alla presidente del Consiglio. Sfrutta un incontro «già fissato», trapela, per parlare del decreto Cultura alle viste. Lo scambio è cordiale. Ma i soldi in cassa, alla fine, restano quelli.
(da Repubblica)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
“ENTRA IN LISTA MATTEO ZUPPI, TROPPO ‘BERGOGLIANO’ PER GLI STESSI TIFOSI DI PAPA FRANCESCO”… “DOTATO DI ASPIRAZIONI PROPRIE SAREBBE PIERBATTISTA PIZZABALLA, PATRIARCA DI GERUSALEMME”
Il totopapa ha avuto inizio a metà del 2021, quando il 4 luglio il Pontefice venne ricoverato al Gemelli per un’operazione all’addome. È stato lui stesso a raccontarlo più volte. La prima, il 12 settembre di quell’anno, a Bratislava, durante la visita in Slovacchia, rispondendo a una domanda sulla sua salute, disse di essere «ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza!».
Le stelle che in quel momento brillavano nel conclave virtuale erano quelle del cardinale ungherese Péter Erdo, canonista molto apprezzato dai ratzingeriani, Pietro Parolin, diplomatico lucido con un animo sereno e molto pastorale, stimatissimo dagli episcopati strapazzati da Bergoglio, Luis Antonio Tagle, un filippino che in Italia piace alla gente che piace e altrove no, nemmeno nel suo continente, infine il maltese Mario Grech, curiale di pregio, ma segnato dai flop dei sinodi che ha organizzato.
Secondo la migliore tradizione curiale, le frecce hanno cominciato a volare e gli strali più aguzzi sono stati lanciati sul cardinale Erdo, ingenuo per gli uni, passatista per gli altri e per formazione ed esperienza alieno all’infornata di nuovi cardinali destinati ad entrare in conclave con l’unico accredito accettato dal Papa: pastori di Chiese marginali e piccole.
Forse, conscio dell’eredità che lascia, a più riprese il Papa ha elogiato la prudenza e la saggezza di Parolin, quasi a dire che se prevarrà un uomo capace di ricostruire le strutture sarà meglio privilegiare la moderazione dell’attuale segretario di stato piuttosto che le probabili asprezze dell’arcivescovo di Budapest.
E così la lista dei papabili si aggiorna, con l’uscita del porporato ungherese e l’entrata in lista di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e ottimo esempio di una Chiesa italiana incarnata nel Concilio. Troppo “bergogliano” per gli stessi tifosi di Papa Francesco.
Come suo sostituto nel cuore del Pontefice potrebbe esserci Juan José Omella, arcivescovo di Barcellona. Altre voci sostengono che il cardinale di Rabat Cristóbal López Romero potrebbe essere scelto per la sua storia e l’esperienza missionaria in Paraguay e Marocco o un altro candidato gradito a Papa Francesco, perché in piena pace con la modernità, il cardinale José Tolentino de Mendonça.
Ultimo sussurro dalle mura: dotato di aspirazioni proprie sarebbe Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme. Se si accenna a questo suo desiderio, pare si adiri molto. Chissà perché?
(da Repubblica)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
LO SCAZZO CON IL MINISTRO DELL’ECONOMIA RISALE AL 200, QUANDO UNICREDIT SI ERA PROPOSTA PER MPS, MA AL MEF HANNO RIFIUTATO L’OFFERTA DI ORCEL… IL POSSIBILE RIALZO DI UNCIREDIT, GLI INTERESSI DEI FRANCESI DI CREDIT AGRICOLE E IL GIOIELLINO DELLA CORONA DI CASTAGNA: LA SOCIETÀ DI GESTIONE DEI RISPARMI “ANIMA”
È almeno da un paio di mesi, da quando è partita l’operazione che porta Unicredit potenzialmente vicino al 20% di Commerzbank, che dal governo si guarda alla seconda banca nel Paese con sentimenti contrastanti.
È probabile che a Roma a qualcuno piaccia l’idea che un istituto di Milano, con un management in stragrande maggioranza italiano, possa controllare un sesto del credito al tessuto delle medie imprese tedesche: il peso dell’Italia in Europa ne sarebbe oggettivamente consolidato.
E’ certo però che nel ministero dell’Economia si siano condensate altre preoccupazioni, poco importa se fondate o no: qualcuno teme che Unicredit, con la sua struttura di capitale aperta e imperniata sui grandi investitori internazionali, assuma con il tempo un’identità più tedesca che italiana.
Che magari sposti la sua sede principale a Monaco di Baviera per intercettare il rating più alto della Germania e abbattere i suoi costi di finanziamento. Che diventi, in sostanza, una banca globale.
L’offerta pubblica di scambio annunciata lunedì su Banco Bpm è un segnale in senso opposto. Unicredit non rinuncia al suo profilo italiano e vuole allargare la sua impronta sul mercato nazionale: dal credito, alla gestione del risparmio, fino ai servizi per un tessuto industriale nel pieno di un ricambio generazionale.
Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia, ha evocato i poteri speciali del «golden power» e, secondo il «Ft», studierebbe persino di sospendere la «passivity rule» (ipotesi però smentita). Non è la prima incomprensione fra lui e la banca guidata da Andrea Orcel: già nelle ultime settimane del 2022 Unicredit avrebbe manifestato interesse per partecipare a una sistemazione di Mps – si osserva sia da Milano che da Roma – ma il governo avrebbe lasciato cadere.
Ora però la questione diventa concreta. Andasse avanti l’operazione su Banco Bpm, Unicredit sarebbe disponibile a cooperare per garantire una sistemazione del gruppo toscano in cui la banca di Piazza Meda a Milano ha il 10%. Ma perché quell’offerta vada avanti, restano alcuni aspetti da verificare.
Quando Unicredit ha presentato la sua offerta non vincolante di scambio lunedì, valutava il titolo Banco Bpm 6,65 euro: il 14,8% sopra la sua quotazione del primo ottobre. La corsa del titolo si deve, oltre che all’ottima gestione dell’amministratore delegato Giuseppe Castagna, a una serie di fattori: le aspettative per l’offerta pubblica di acquisto su Anima, quelle per una progressione della redditività, oltre che all’operazione su Mps.
Per capire se Orcel deciderà di rafforzare la sua offerta bisogna dunque arrivare a marzo quando sarà chiaro se la redditività di Banco Bpm continuerà a crescere malgrado i tassi e la qualità del credito in calo in Italia; e se l’Opa su Anima sarà andata a segno
Certo con il controllo di Anima, Unicredit avrebbe una leva per rinegoziare con Crédit Agricole, quando nel 2027 scadrà l’accordo di distribuzione con Amundi per la gestione del risparmio. Crédit Agricole del resto potrebbe interessarsi a una parte degli sportelli che Unicredit dovesse cedere aggregando Banco Bpm.
(da Corriere della Sera)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
NEL DISTRETTO COMMERCIALE CI SONO 75.000 NEGOZI E 2 MILIONI DI PRODOTTI DIVERSI IN VENDITA
A Yiwu, in Cina, viene prodotto l’80% degli addobbi natalizi di tutto il mondo. Ma a meno di un mese dal Natale, i commercianti pensano già al prossimo anno. La preoccupazione più grande viene dagli Stati Uniti e risponde al nome di Donald Trump. «Durante il suo primo mandato siamo riusciti a contenere gli effetti dei dazi, ma ora?», dice un commerciante del posto a Gianluca Modolo, inviato di Repubblica, che ha visitato il distretto commerciale Yiwu.
75mila negozi, 2 milioni di prodotti
Yiwu è una città con poco meno di due milioni di abitanti e si trova a circa 350 chilometri da Shanghai. È lì che viene prodotta la stragrande maggioranza degli addobbi di Natale low cost che finiscono nelle case di europei e americani: ghirlande, gestoni, babbi natale, renne pupazzo, alberi finti e non solo. A Yiwu esiste un vero e proprio «Centro internazionale del commercio», che non produce solo articoli per il Natale ma qualsiasi tipo di oggetto: pentole, tappetini, posate, pentole, lampade, calzini. Settantacinque mila negozi, che vendono oltre due milioni di prodotti
Lo spettro dei dazi di Trump
A preoccupare i commercianti cinesi è lo spettro di nuovi dazi evocato da Donald Trump, che il 20 gennaio si insedierà come nuovo presidente degli Stati Uniti. «È ovvio che sono preoccupato, gli Usa sono uno dei miei principali mercati», dice il signor Fu a Repubblica. «Vediamo come va. Se ci saranno meno ordini – aggiunge – potremo gestire quelli che arrivano da altri Paesi. Ora dobbiamo dire di no perché non abbiamo tempo». Il presidente-eletto americano ha promesso dazi al 60% sulle importazioni dalla Cina. Una misura che finirebbe per gravare soprattutto su quei distretti commerciali che, come succede a Yiwu, vivono di esportazioni.
I mercati alternativi
A guardare bene, però, gli Stati Uniti non rappresentano il primo Paese di destinazione dei milioni di prodotti venduti a Yiwu. Nei primi nove mesi del 2024, il commercio con gli Usa si è attestato a 76 miliardi di yuan, poco meno di 10 miliardi di euro. Ma quello verso l’Africa e l’America Latina è stato ancora più alto: rispettivamente, 101 e 95 miliardi di yuan. «Sui dazi alla fine saranno gli americani a pagare il prezzo. Noi continueremo a vendere nel resto del mondo», spiegano ancora i commercianti di Yiwu a Repubblica.
(da Open)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
LA LEGA DI BOSSI ERA ALTRA COSA
Si fa un gran parlare di “Autonomia differenziata” e dei Lep (ormai parliamo solo per sigle), che sono i livelli essenziali di prestazione da garantire alle singole Regioni. Questa legge approvata dal centrodestra in Parlamento è stata di fatto già dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Ma i leghisti, sotto la regia di Matteo Salvini, non desistono, perché il progetto di legge è stato presentato dal ministro Roberto Calderoli e soprattutto perché vogliono avere il potere assoluto in alcune Regioni chiave, Veneto e Lombardia.
Non è nemmeno necessario dire che questo tipo di autonomia aumenterà il divario, economico e sociale, fra le varie Regioni. Molto meglio sarebbe stato se fosse andato in porto il progetto di Bossi-Miglio cioè il progetto delle cosiddette “Macroregioni” che prevedeva che venissero unite Regioni coese per “economia, socialità, storia e anche clima”.
Nel piano di Bossi, in un’Europa unita politicamente, i punti di riferimento periferici non sarebbero stati più gli Stati nazionali ma appunto le “Macroregioni”.
Nella mente di Bossi c’era anche il tentativo, in un’epoca di globalizzazione galoppante che tutto omogeneizzava, di restituire un’identità agli individui che hanno bisogno di riconoscersi in un ambiente e nelle persone che lo abitano. Poi l’Europa politicamente unita non si è fatta e lo si può anche vedere pure tutt’oggi perché su questioni anche importanti ogni Stato va per conto suo. E così tutto il progetto è saltato.
Immagino la frustrazione dell’Umberto di fronte alla trasformazione della sua Lega in quella razzista di Salvini. Secondo lui la mitica Padania, da cui doveva prendere avvio tutto il processo, era di chi “ci vive e ci lavora” senza andare a fare l’esame del sangue sulle sue origini. Non è certamente un caso che Bossi abbia sposato una donna siciliana. Bossi aveva creato poi dei miti, “il Dio Po”, “l’ampolla del Po”, poveri miti certo ma non spesi a caso perché nei miti ci sono i valori. Bossi era contro “Roma Capitale” vista come il centro di tutti i notori vizi italici, a cominciare dalla corruzione.
Quando sentiva l’Inno di Mameli sveniva (“stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte”, ma va là). Va bene che l’Inno di Mameli è stato concepito durante il Risorgimento, in un contesto molto diverso dall’attuale, e un inno nazionale, come il tifo per una squadra di calcio, non si cambia mai, ma mi piacerebbe vedere chi oggi darebbe per l’Italia non dico la vita, ma il dito mignolo.
Bossi fu un antesignano di Mani Pulite (la Lega nacque nel 1989) e uno dei protagonisti della stagione di Mani Pulite insieme ad Antonio Di Pietro e a quel formidabile pool di magistrati, all’Indipendente di un Feltri non ancora convertito al berlusconismo, e al Gianfranco Funari di Aboccaperta su Rai2 che poi dovette lasciare per “incompatibilità”, chiamiamola così, con Silvio Berlusconi, come poi dovette lasciare i programmi che aveva in Fininvest. Mi manca molto Gianfranco, che tra l’altro è stato uno dei primi firmatari del mio “Manifesto dell’Antimodernità”: era un uomo molto generoso e anche un narciso impenitente, ma di un narcisismo così sfacciato da risultare innocente.
Bossi ha avuto due ictus, è ciò che tocca agli uomini di passione (Scalfari ha vissuto 97 anni). Dal primo si risollevò abbastanza bene. Mi ricordo che quando venne a trovarmi a casa poco dopo era perfettamente lucido e compos sui. Ai funerali di Dario Fo non riconobbe nemmeno la mia bella segretaria, lui a cui le donne sono sempre piaciute e che mi guardava con simpatico sospetto come possibile concorrente (“ah questi intellettuali…” come a dire che poi, sotto sotto ne fanno di tutti i colori).
Eh già, Dario Fo. Fu uno dei protagonisti dei “girotondi”, poi aderì ai 5 Stelle e scrisse anche un libro Il Grillo canta sempre al tramonto insieme a Beppe e a Gianroberto Casaleggio. E qui il cerchio si chiude.
Massimo Fini
(da ilfattoquotidiano.it)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
L’IDEA DEL GOVERNO AUSTRALIANO DI VIETARE I SOCIAL AI MINORI DI 16 ANNI
L’idea del governo australiano di vietare i social ai minori di 16 anni ha una sua logica, ma è platealmente inapplicabile: come quasi tutte le leggi proibizioniste, che alla prova dei fatti hanno la tenuta di un colabrodo.
Per altro, se nei social circola liberamente ogni forma di menzogna e ogni genere di porcheria, se il furto di identità è prassi comune, se l’impunità di chi insulta, mente e corrompe il linguaggio pubblico è quasi garantita, perché dovrebbero andarci di mezzo gli utenti nel loro complesso, compresi quelli armati delle migliori intenzioni?
Il vero problema, anzi il vero scandalo, è che della montagna di miliardi che i gestori dei social (pochi oligopolisti) mettono in tasca, solo una parte irrisoria è destinata al vaglio di contenuti che sarebbero impubblicabili anche sui peggiori giornali del mondo.
Si affida all’algoritmo (che non percepisce stipendio) un compito che solamente un piccolo esercito di controllori sensibili, acculturati e ben pagati potrebbe svolgere con metodo.
I social sono come una immensa megalopoli che i gestori hanno deciso di non dotare di leggi, di forze dell’ordine, di educatori e insegnanti, perché nell’anarchia guadagnano cifre inverosimili, nella democrazia bene ordinata guadagnerebbero meno. Ma per gli oligarchi del web, il costo del lavoro è oggetto di disprezzo (vedi Musk).
Se nuove leggi necessitano, dovrebbero servire a costringere chi si arricchisce anche con l’odio e l’ignoranza a mondare la rete almeno delle manifestazioni più evidenti di odio e ignoranza. Ciò che è reato nel mondo normale, dovrebbe esserlo anche in rete.
È l’unica riforma possibile, e non prevede alcun divieto di accesso sulla base dell’età: solo sulla base di come ci si comporta, persona per persona, una volta entrati in quel mondo.
(da repubblica.it)
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Novembre 30th, 2024 Riccardo Fucile
A UN ANNO E MEZZO DALLA SCOMPARSA, BERLUSCONI CONTINUA A ESSERE TIRATO IN BALLO COME FOSSE VIVO
Sul taglio o meno del canone televisivo è suonato più inutile che sconveniente consultare l’oracolo di Arcore. Salvini dice che in extremis Berlusconi era favorevole, Tajani dice che no, c’era pure Letta. Aleatoria resta dunque la testimonianza dall’oltretomba, controverso il verdetto medianico invocato dai vicepremier a sostegno delle reciproche convinzioni e convenienze.
Ora, cosa pensasse davvero Berlusconi del canone è perfino trascurabile. Forse ne avrà pensato tutto e forse niente, alla fine della sua incommensurabile vita, immerso nel doloroso andirivieni con l’ospedale San Raffaele, era stanco, magari disilluso, provato dallo sforzo di doversi dimostrare attivo e vivace nonostante il torpore discontinuo dei farmaci e il pensiero della malattia e del suo destino.
Non di rado, oltretutto, ai tempi antichi il responso degli oracoli giungeva oscuro, ambiguo, contraddittorio. E più spesso di quanto oggi si tenda a ricordare il Cavaliere diceva una cosa e poi il suo esatto contrario. Si converrà quest’ultima sia una costante della politica, abbastanza intensificatasi nella post-politica; essendone lui il fondatore e il più attivo protagonista, Berlusconi era incredibilmente bravo e svelto e persuasivo a praticarla con il massimo profitto, per cui nulla vieta di pensare che a Salvini abbia detto sì, ad altri ni e ad altri ancora no: eloquente, semmai, risulta a riguardo il silenzio di Fedele Confalonieri e dei berlusconidi che su questo genere di faccende non da ieri hanno qualche vocina in capitolo.
Ma di nuovo poco: importa l’emendamento sul canone tv. Significativa è piuttosto la pretesa che a un anno e mezzo dalla sua scomparsa Silvione seguiti a essere tirato in ballo come se fosse vivo e al tempo stesso come una sorta di divinità onnisciente, infallibile e ultimativa: l’ha detto lui, quindi è la verità, Ipse dixit, zitti e mosca, eccetera.
Vero che stavolta l’invocazione ha fatto cilecca, ma il fatto stesso che i vicepremier ci abbiano inopinatamente provato dà la misura del potere che da sempre i morti esercitano sui vivi. E un po’ anche della fifa e/o della coda di paglia che per forza di cosa questa seconda generazione di seguaci e alleati si porta appresso nei confronti di Berlusconi, la cui irata invidia, secondo schemi dell’antropologia culturale, cercano di placare con offerte votive in forma di turbamenti da comizio e mani sul cuore, precipitose intitolazioni (Malpensa), francobolli buttati lì e citazioni alla cieca, se non a vanvera.
Ritornando con i piedi per terra: al di là dell’inevitabile retorica, l’esperienza storica berlusconiana appare lunga e problematica, fulgida ma anche catastrofica, in ogni caso controversa, caotica e contraddittoria. Tajani sa benissimo, per dire, quale triste sorte toccava ai tanti pretesi eredi ed effimeri “coordinatori” di cui il Cavaliere regolarmente si stancava; così come Salvini e l’attuale premier, ospiti estivi a villa Certosa (lui venne con Francesca, lei con La Russa e visitarono pure la serra delle farfalle), ricorderanno quanto gli stava a cuore diventare, sia pure per poco, presidente della Repubblica. Promisero, ma al dunque non si diedero granché da fare – poi con la “signora Meloni” fu anche peggio. Così è la vita e anche, se consentito, la storia. Da domani si ricomincia con l’emendamento sul tetto pubblicitario.
(da repubblica.it)
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