Maggio 15th, 2021 Riccardo Fucile
IN POLE POSITION MICHELE BRAMBILLA, ATTUALE DIRETTORE DEL QUOTIDIANO NAZIONALE… ALTERNATIVE: PORRO, MINZOLINI E LIGUORI
Da ieri è ufficiale: Alessandro Sallusti ha lasciato la direzione de Il Giornale. La conferma è arrivata dalla Società Europea di Edizioni, editrice del quotidiano della famiglia Berlusconi. “Risolto dopo dodici anni di proficua collaborazione il rapporto di lavoro. L’editore Paolo Berlusconi e il presidente Alessia Berlusconi ringraziano il direttore Sallusti per l’impegno profuso in tutti questi anni”.
Sallusti ha quindi detto si al corteggiamento della famiglia Angelucci: sarà il nuovo direttore di Libero. A dargli una mano ci sarà, come condirettore Pietro Senaldi
Ora – per chiudere il cerchio – resta da capire chi sarà il nuovo direttore de Il Giornale.
In pole position al momento c’è un nome a sorpresa, Michele Brambilla attualmente alla direzione del Quotidiano Nazionale.
Nei giorni scorsi si era parlato anche di Nicola Porro e Augusto Minzolini. Qualche possibilità ce l’ha anche Paolo Liguori.
Un altro profilo che rispondeva a tutti i requisiti era quello di Andrea Pucci, della vecchia guardia del Giornale e autore della grandi inchieste del quotidiano di via Negri, che resta però ben saldo a news Mediaset. Valutati anche altri nomi “interni” ed “esterni” ma senza alcuna chances.
(da TPI)
argomento: Stampa | Commenta »
Maggio 13th, 2021 Riccardo Fucile
ASSUMEREBBE LA DIREZIONE DI TUTTE LE TESTATE DEL GRUPPO
Alessandro Sallusti ha rimesso il mandato da direttore de “Il Giornale”, di cui era alla guida dal 2010, dove aveva cominciato insieme a Indro Montanelli nel 1987.
Il giornalista avrebbe rassegnato già le dimissioni.
La famiglia Angelucci ha proposto ad Alessandro Sallusti la direzione di tutte testate del Gruppo, tra cui i quotidiani ‘Libero’ e ‘Tempo’, secondo quanto apprende l’AGI da fonti qualificate.
Si tratta di un episodio di stampamercato in campo sovranista: evidentemente l’offerta è stata giudicata adeguata per cambiare quotidiano, in fondo è gratificante scrivere sempre le stesse cose a fronte di un compenso maggiorato.
Non è che ha cambiato direzione un Montanelli…
(da agenzie)
argomento: Stampa | Commenta »
Maggio 13th, 2021 Riccardo Fucile
POTREBBE ANDARE A DIRIGERE UN ALTRO GIORNALE DI CENTRO-DESTRA… PER LA SUCCESSIONE SI PARLA DI PORRO, GIORDANO O SENALDI
Il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, lascia il quotidiano di proprietà di Silvio Berlusconi dopo 12 anni. La notizia è stata riportata da Dagospia, che riporta anche di un “caos” in casa Berlusconi per la successione alla direzione editoriale del giornale.
Sallusti era direttore dal settembre 2010, quando era subentrato a Vittorio Feltri. Dal 2017 è anche direttore del sito di informazione on line InsideOver, affiliato con il quotidiano.
Per la sua successione si pensa a una soluzione interna come Nicola Porro, vicedirettore del quotidiano e conduttore di Quarta Repubblica su Rete 4, oppure l’inviato Stefano Zurlo e l’editorialista Augusto Minzolini.
Tra gli esterni i più accreditati sono Mario Giordano e Pietro Senaldi.
Sallusti dovrebbe lasciare per “un altro incarico” non ancora noto, non è escluso che vada a dirigere un altro giornale di centrodestra.
(da agenzie)
argomento: Stampa | Commenta »
Marzo 13th, 2021 Riccardo Fucile
C’E’ PURE CHI UNISCE L’INUTILE AL VOMITEVOLE
Sono combattuto. Leggo il tweet di Selvaggia Lucarelli: “Non chiedo il vaccino, però questa cosa che i giornalisti siano nella lista delle categorie non utili a detta degli stessi giornalisti mi dispiace. In questo anno di paura, siamo stati noi a raccontare alla gente cosa succedeva, a denunciare, siamo stati non utili. Necessari”. E mi sembra di essere d’accordo.
Poi arrivano vari “colleghi” a insultarla e, visti i nomi (c’è persino il mèchato), do ragione a loro: a esser generosi, sono inutili.
Compulso con la consueta avidità i miei svaghi preferiti, Libero e il Foglio, e scopro che: secondo Brunella Bolloli, Selvaggia “vuole farsi inoculare” (battutona); secondo Salvatore Merlo, “richiede per sè il vaccino” e, in quanto giurata di Ballando con le stelle, è una “paragiornalista” (come dimostra la sua fotografia in dècolletè sul sito del Foglio) e, con simpatico giro di parole, pure una “cretina”. Ricontrollo il suo tweet, ma niente, ha scritto proprio così: “Non chiedo il vaccino”.
Quindi mi spiace, ma Selvaggia ha torto: i giornalisti, almeno quei due, non sono inutili, ma dannosi perchè non solo non sanno scrivere, ma neppure leggere.
Poi però ci ripenso: della Bolloli non so, ma del Merlo minor (il maior è lo zio Francesco, che lecca abitualmente su Rep) non posso proprio fare a meno. Nelle giornate uggiose, essendo meteopatico, vado a rileggermi le sue interviste bocca-a-bocca con Montezemolo e Malagò. Del primo esaltò rapito il “largo sorriso malizioso”, “l’occhio liquido”, “la capigliatura da insidiatore di femmine”, il “leggero profumo maschio al limone” (l’aveva pure annusato, in ossequio al giornalismo watchdog all’anglosassone), “le dita delle mani sottili, delicate e nervose” (nessuna notizia di quelle dei piedi) che “fanno pensare al poker, alla roulette, a sapienti contatti con porcellane, pergamene, morbide automobili” (la Ferrari Peluche, cose così). Di Malagò lo arraparono “la struttura atletica di 55enne ben conservato” (tipo il latte pastorizzato) e “l’intelaiatura dei tendini e dei muscoli” (lì, oltre all’olfatto, aveva attivato anche il tatto).
Solo una volta s’imbattè in una notizia: “L’email che dimostra il controllo di Casaleggio sulle vite dei grillini”, il “Watergate grillino”, “Casaleggio spione”. Ma niente paura: era falsa (Casaleggio non era mai entrato in una casella postale che non fosse la sua).
Infatti il Merlo minor non ci riprovò mai più e tornò alla postura precedente. L’altro giorno ha gettato la lingua oltre l’ostacolo per inumidire l’incolpevole SuperMario: “La parola è d’argento, il silenzio è Draghi”. Ma la faccia resta di bronzo.
Quindi no, cara Selvaggia, hai torto marcio. I giornalisti non si dividono soltanto fra necessari e superflui. C’è pure chi unisce l’inutile al vomitevole.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Stampa | Commenta »
Marzo 8th, 2021 Riccardo Fucile
RAPPORTO RSF: ITALIA AL 41° POSTO DEL MONDO, DIETRO AL BURKINA FASO
C’è libertà di stampa in Italia? Sì, c’è. E sarebbe sciocco affermare il contrario. Questo però non basta a sostenere anche che la libertà di stampa in Italia sia totale e totalmente esercitabile.
L’articolo 21 della Costituzione stabilisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Anche grazie a questa tutela costituzionale in Italia ogni giorno vengono pubblicate inchieste giornalistiche che svelano abusi di potere, reti di corruzione e ruberie varie. E possiamo formarci una opinione sui fatti di interesse pubblico leggendo o ascoltando commenti di qualsiasi orientamento o colore politico.
Tuttavia, il pieno esercizio della libertà di stampa è talvolta ostacolato o limitato da una serie di fattori. Si va da intimidazioni subdole a minacce vere e proprie, fino alle aggressioni fisiche.
Ma sono un problema serio anche le storture di un mercato editoriale nel quale gli editori puri sono un rarità e i finanziamenti pubblici ai giornali vengono elargiti poco e male (e c’è chi addirittura vorrebbe abolirli).
La libertà di stampa in Italia: il rapporto Rsf
Nel suo ultimo rapporto sulla libertà di stampa (datato aprile 2020), la ong Reporters Sans Frontières (Rsf) ci piazza al 41esimo posto nel mondo, dietro fra gli altri a Burkina Faso e Botswana. Secondo Rsf, in Italia ci sono oltre 20 giornalisti costretti a vivere sotto la protezione delle forze dell’ordine a causa delle minacce ricevute.
“Il livello di violenza contro i giornalisti continua a crescere, soprattutto a Roma e nella regione circostante e nel sud del Paese”, si legge nel rapporto. E ancora: “In generale i politici italiani sono meno virulenti del passato verso i giornalisti”, ma “il giornalismo rischia di essere minato” da “una possibile riduzione dei sussidi statali per i media”.
Giornalisti aggrediti e minacciati
Capitolo aggressioni e minacce. Per avere un’idea di cosa si parli, provate a digitare su un motore di ricerca online “aggressioni giornalisti”: troverete una sterminata sequenza di episodi. Tra i più noti ricordiamo l’inseguimento a Paolo Fratter di Sky durante le proteste anti-chiusure lo scorso autunno a Napoli oppure la famosa testata con cui Roberto Spada spaccò il naso del cronista Daniele Piervincenzi, che si trovava a Ostia per un servizio di Nemo sulla malavita locale. Paolo Berizzi, firma di Repubblica, da due anni vive sotto scorta dopo essere stato intimidito e minacciato di morte da gruppi neofascisti. L’elenco sarebbe lunghissimo.
Le querele temerarie
A volte le intimidazioni non sono esplicite, ma nascoste sotto altra forma. È il caso delle cosiddette querele temerarie: azioni legali (civili o penali) che vengono mosse contro i giornalisti senza alcuna chance di successo ma con l’unico scopo di incutere timore e mettere in difficoltà . Perchè, almeno fino alla sentenza, i giornalisti querelati — o la testata per cui essi lavorano — sono costretti a sostenere spese processuali che non sono alla portata di tutti.
E qui si capisce anche perchè a ricorrere alla querela temeraria non è mai il ladro di mele ma sempre una persona che gode di notevoli disponibilità economiche. È questa, insomma, la via legale attraverso cui i potenti minacciano i giornalisti senza sporcarsi le mani. Una pratica purtroppo molto diffusa in Italia.
Nel 2014 l’allora Relatore speciale dell’Onu sulla promozione della libertà di espressione, Frank La Rue, denunciò in un rapporto sull’Italia le “molestie giudiziarie” nei confronti dei media, bersaglio di azioni legali avviate senza alcun reale fondamento con il solo scopo di intimidire i cronisti.
Il mercato dei media in Italia: una giungla
Poi c’è il tema del mercato editoriale. Un mercato inquinato e in cui sopravvivere è impresa complicata. La crisi economica del settore è sotto gli occhi di tutti. Per questo sarebbe ancor più importante poter contare su un sistema equo e moderno di finanziamento alle testate giornalistiche, nell’ottica di assicurare quel pluralismo dell’informazione che è essenziale per qualsiasi democrazia. E invece no.
Il finanziamento ai giornali in Italia oggi è organizzato in modo antiquato e concede ingiusti privilegi ai pochissimi che hanno la fortuna di potervi accedere. Non solo, ma ci sono addirittura forze politiche che vorrebbero abolirlo, lasciando così i media allo sbaraglio nella giungla del mercato libero. O vendi o sei morto.
Questo contesto di crisi produce alcuni effetti: i compensi per i giornalisti si abbassano, le inserzioni pubblicitarie assumono sempre più un’importanza vitale nei bilanci dei giornali e alla lunga riescono a sopravvivere solo quei gruppi editoriali che hanno le spalle abbastanza larghe.
Cosa c’entra questo con la libertà di stampa? C’entra, eccome. Perchè, se il giornalismo viene pagato meno, la qualità dell’informazione tende ad abbassarsi. Perchè, se un inserzionista si arrabbia per un articolo e chiude i rubinetti, quel giornale rischia di chiudere. Perchè, se restano solo i giornali dei ricchi, dei poveri non importerà più a nessuno.
Nel panorama dell’informazione italiano, fra l’altro, gli editori puri — ossia quelli che di lavoro fanno proprio gli editori, e non anche i produttori di automobili o gli immobiliaristi — sono una rarità .
Persino la Rai, i cui proprietari saremmo noi cittadini, non può dirsi pienamente libera, soggiogata com’è dalla lottizzazione dei partiti. Per non dire, infine, degli enormi problemi legati al monopolio dei giganti del web, su tutti Google e Facebook, che hanno ormai potere di vita o di morte sui giornali online.
Insomma, la libertà di stampa in Italia c’è. E sarebbe sciocco affermare il contrario. Diciamo però che non se la passa benissimo.
(da TPI)
argomento: Stampa | Commenta »
Marzo 3rd, 2021 Riccardo Fucile
75 ANNI E OLTRE 500.000 COPIE PER IL RAFFINATO SETTIMANALE CHE RIESCE A RAGGIUNGERE UNA PLATEA INASPETTATA
Ghiotti di celebrazioni di compleanni, i tedeschi non si sono lasciati sfuggire un piatto gustoso come il settantacinquesimo anniversario della nascita della Zeit.
Alla fine di febbraio del 1946, nella Germania in ginocchio, su licenza delle truppe di occupazione britanniche a Amburgo vide la luce il primo numero del settimanale di politica, economia e cultura, destinato a scandire con successo e autorevolezza la vita del Paese dal dopoguerra ai giorni nostri.
Lunghi anni, tante trasformazioni, eppure oggi il giornale, che si muove con la sicurezza della maturità , assomiglia ancora al neonato di allora. Non solo nella grafica, oltralpe sostanzialmente immutabile per interi decenni, ma nel taglio aperto e tollerante, loro dicono “liberale” e poi spiegano che cosa intendono.
Non stiamo parlando di un semplice settimanale, come altri.
La Zeit è un distintivo da portare con discrezione, una bandiera da sventolare senza eccitazione, un segno di riconoscimento tra quanti hanno il gusto del confronto delle idee e preferiscono domande e ragionamenti alle certezze ideologiche. Il postulato a cui è rimasta fedele è di non diffamare le idee divergenti, non condannare le critiche come eresie, tutelare le istanze minoritarie, lasciare aperta la porta a opinioni contrarie.
Può sembrare un catalogo sdolcinato di buoni propositi, invece è l’architrave della costruzione del giornale ogni settimana. E sulla linea, non ci sono strizzatine d’occhio interessate a questo o quel partito, piuttosto un sano distacco pur se rispettoso, nel segno di “un centro stabile, ragionevole e illuminato”.
Regna l’accuratezza. La scrittura è colta, ricca ma precisa, limata con la dedizione degli artigiani di un tempo. Il controllo dei contenuti è capillare, le verifiche documentate, l’impegno nella ricerca evidente. È d’obbligo la chiarezza del posizionamento della testata, specie quando naviga fuori dalla corrente principale di pensiero. O quando abborda temi sui quali riconosce onestamente che il dibattito non si risolve in un derby tra bianco e nero, ma è necessario scandagliare con pazienza le diverse sfumature di grigio.
Vale la forza degli argomenti e non è un vezzo se da ultimo il giornale ha voluto arricchirsi di un nuovo spazio intitolato Streit, disputa, che pubblica confronti intensi tra chi la pensa in maniera opposta.
Già , e chi mai sarà attratto da un prodotto così impegnativo, anzi apparentemente indigesto, in epoca di comunicazione sincopata e affermazioni stentoree? Forse solo un ristretto gruppo di intellettuali? La risposta viene dai numeri.
Con 547.390 copie (di cui circa 186.000 in edizione digitale) vendute settimanalmente al prezzo non trascurabile di 5.70 euro, alla fine dell’anno scorso la Zeit ha stabilito il record assoluto di maggiore diffusione della sua storia. Rispetto a otto anni fa, l’aumento è di oltre il 6%. I lettori sono fortemente fidelizzati, il 75,4% di loro è abbonato. Tutti accademici elitari? Evidentemente no, la platea è ben più ampia.
Certo, merito della brillante direzione dell’italo-tedesco Giovanni di Lorenzo, da diciassette anni al timone del giornale, e di personalità di primo piano che lo hanno preceduto, come Gerd Bucerius o Marion Dà¶nhoff, impegnate a mantenere il giornale sul binario di un solido riformismo democratico, tedesco e europeo. E anche del co-editore Helmut Schmidt, l’ex Cancelliere, molto legato alla redazione, dove nella sua stanzetta in fondo al corridoio riceveva gli ospiti, avvolgendoli nel fumo infinito delle sigarette al mentolo e ancor più nei suoi ricordi lucidissimi e giudizi taglienti.
Ma l’unicità e il successo della Zeit non si afferrano del tutto se non li si colloca in un orizzonte di crescita e di vivacità culturale, valori condivisi e celebrati, e anche difesi.
Nel brindisi per il compleanno, il giornale ha tenuto a ricordare gli attacchi alla libertà di stampa e le minacce che anche in Germania, da destra e da sinistra, può essere necessario fronteggiare per svolgere il proprio lavoro. Ragione di più per continuare a battersi almeno con la penna per pluralismo e tolleranza.
In ogni caso, come per Mark Twain, al momento anche la notizia della morte dei giornali è fortemente esagerata.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Stampa | Commenta »
Febbraio 2nd, 2021 Riccardo Fucile
LA NOTIZIA FA IL GIRO DEL MONDO
‘Super Mario’ per un governo di unità nazionale in Italia. Dopo il fallimento delle trattative per il Conte ter, la stampa straniera dà conto della convocazione “shock” di Mario Draghi al Quirinale da parte di Sergio Mattarella, che gli chiederà di “avviare colloqui per formare un governo di unità nazionale, mentre il Paese combatte contro la pandemia di Covis19”, scrive il Financial Times.
Che definisce l’ex presidente della Bce “una delle personalità italiane più rispettate” e ricorda “la sua decisione azione durante la crisi del debito dell’eurozona”.
Mattarella, scrive la Reuters, “ha convocato l’ex presidente della Bce” domani mattina al Quirinale e “quasi certamente gli chiederà di guidare un governo di unità nazionale per aiutare l’Italia ad affrontare l’emergenza coronavirus e a gestire la crisi economica”.
“L’attesa nomina di Draghi sarà accolta con favore dai mercati – fa eco Bloomberg – e mettere fine agli intrighi politici che hanno lasciato il Paese senza un governo e ostacolato il processo decisionale”.
A ‘Super Mario’, ricorda l’agenzia americana, sottolineando che l’euro è immediatamente salito sul dollaro subito dopo l’annuncio, “è attribuito il merito di aver sostenuto l’euro al culmine della crisi del debito sovrano nel 2012 con le parole ‘Whatever it takes’.
Con “un tono estremamente drammatico, Mattarella ha annunciato che ci sono solo due strade: elezioni immediate o un esecutivo istituzionale appoggiato da tutte le forze politiche”, scrive “El Pais”, secondo cui il capo dello Stato ha scelto la seconda opzione, affidandola “alla figura che gode di più sostegno e prestigio in Italia, l’ex presidente della Bce Mario Draghi, una delle poche figure che riscuote un consenso unanime tra i partiti politici, anche a destra, dove in altre occasioni hanno detto di essere disposti ad appoggiare un governo guidato dall’ex banchiere”.
“L’ex capo della Bce Draghi incaricato di formare il governo”, titola il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemaine Zeitung, mentre l’agenzia Dpa scrive che Mattarella “vuole parlare con Draghi per la formazione di un nuovo governo”, dopo il fallimento delle trattative per “rilanciare la coalizione che sosteneva Giuseppe Conte”.
(da agenzie)
argomento: Stampa | Commenta »
Ottobre 9th, 2020 Riccardo Fucile
ORA NEL MIRINO C’E’ IL SOLE 24 ORE… ERA NECESSARIO SCENDERE SOTTO IL LIMITE DI LEGGE DEL 20% PER PROCEDERE A NUOVE ACQUISIZIONI
Gedi, gruppo editoriale che fa capo alla famiglia Agnelli e che controlla tra gli altri i quotidiani La Stampa, Repubblica e Secolo XIX, comunica che “è stato raggiunto un accordo per la cessione del ramo d’azienda delle testate Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, La Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara alla società Sae Srl, rappresentata da Alberto Leonardis”.
L’imminente cessione non era ormai più un segreto, sebbene Gedi abbia tentato sino all’ultimo di tenere nell’ombra la trattativa. Nei giorni scorsi i dipendenti dei quotidiani locali del gruppo erano scesi in sciopero. La nuova società , di cui i giornalisti denunciano la totale inesperienza in campo editoriale, ha già messo nero su bianco tagli al costo del personale per 1,7 milioni di euro.
I dipendenti delle testate coinvolte nella vendita sono 162, 120 giornalisti e una quarantina di poligrafici. ”Gedi — continua una nota — ha individuato in Sae Srl la società che per affidabilità , progetti e intenzioni potrà offrire la miglior garanzia di continuità , rafforzamento e prestigio a testate che per storia e tradizione rappresentano una parte importante dell’editoria quotidiana, grazie al contributo di valore assicurato negli anni dai colleghi giornalisti e poligrafici”.
Molte le speculazioni sulle ragioni della vendita. Inizialmente si era ipotizzato che Gedi volesse ridurre la sua quota di mercato, in ossequio alla legge che prevede un massimo del 20% in capo ad un unico soggetto, per acquisire i giornali locali del gruppo Athesis vale a dire L’Arena, Brescia Oggi e il Giornale di Vicenza.
Negli ultimi giorni ha però preso consistenza l’ipotesi che il vero obiettivo sia il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore.
L’associazione degli imprenditori controlla oggi il 61% del gruppo, il resto è in borsa. Gli Agnelli potrebbero anche entrare con una quota. Qualche voce trapelata dal palazzo di via Monte Rosa a Milano rafforza questa ipotesi. Negli ultimi anni i bilanci del quotidiano economico finanziario sono stati rimessi in carreggiata, sebbene questo sia avvenuto tagliando i costi senza mai invertire il calo dei ricavi. La Exor, finanziaria della famiglia Agnelli, possiede anche il celebre settimanale economico britannico “The Economist”
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: Stampa | Commenta »
Maggio 24th, 2020 Riccardo Fucile
“IL SEGRETO E’ PUNTARE PIU’ SUI LETTORI CHE SULLA PUBBLICITA'”… “L’ACQUISIZIONE DI REPUBBLICA DA PARTE DI ELKANN? AVRA’ CONSEGUENZE POLITICHE MA LE RAGIONI SONO INDUSTRIALI”
A guardare oggi i risultati del New York Times — 6 milioni di abbonamenti e 800 milioni di dollari di ricavi digitali nel 2019 — si fa fatica a credergli.
Eppure — giura Mark Thompson, amministratore delegato e presidente del gruppo che edita il quotidiano americano — quando da Londra è arrivato a New York con il suo accento da èlite british e un’esperienza esclusivamente televisiva, tutti scommettevano che da lì a poco la “Gray Lady” sarebbe andata in bancarotta.
Era il 2012, Thompson lasciava una Bbc in grande forma e uno stipendio non legato ai ricavi aziendali, per trasferirsi in giornale poco incline a prendere in considerazione dirigenti cresciuti oltre i ponti e i tunnel di Manhattan, e che perdeva milioni di dollari — trimestre dopo trimestre — a causa di una strategia esangue che puntava tutto sui giornali locali e un digitale zoppicante.
Otto anni dopo, il New York Times è esattamente quello che l’amministratore delegato outsider aveva sognato: un brand globale, che macina profitti su diverse piattaforme e riesce — proprio per questo — a farsi amare dai millennial.
Certo, poi è arrivata la pandemia. Thompson, 63 anni, un libro tradotto in italiano La fine del dibattito pubblico, la affronta muovendosi solo in bicicletta e lavorando prevalentemente da casa. Da lì risponde via Zoom alle domande di Open.
Le aziende giornalistiche in tutto l’Occidente sembrano vittime di un crudele paradosso legato al Coronavirus: a una crescita esponenziale di lettori corrisponde un calo drastico degli investimenti pubblicitari che porta a licenziamenti, chiusure, tagli. Voi come state reagendo?
«Ci aspettiamo un dimezzamento degli investimenti pubblicitari ma i nostri abbonamenti digitali continuano a crescere: non dipendendo dalla pubblicità , soffriamo molto meno di altri. Faremo anche noi dei tagli ma non riguarderanno giornalisti, nè il comparto digitale. Mai come in questo periodo abbiamo bisogno di giornalismo di qualità e quindi continueremo ad assumere e investire: fortunatamente siamo abbastanza forti per potercelo permettere»
Cosa vuol dire essere un leader in questo momento?
«È strano fare il leader da casa. Non hai la percezione reale di quello che succede nella tua azienda: gli umori, i pensieri, le preoccupazioni per una fase durissima della vita pubblica e privata. Ma è anche un momento di grande energia in cui la missione del giornalismo si sente ancora di più. Stiamo ragionando anche su cosa prendere e lasciare dell’esperienza dello smart working, che di sicuro ci costringe a non dare più per scontata la presenza fisica negli uffici: ci interroghiamo su quale sia il beneficio reale dello stare insieme. Lo smart working non è una rivoluzione, ma permette di vedere chiaramente il suo opposto: il mondo statico e regimentato dell’ufficio, che però qui appartiene al passato: i nostri giornalisti sono già redazioni di corrispondenza individuali. Con il Coronavirus cambieranno solo le proporzioni»
Lavorare chiusi in casa davanti al pc non è in contraddizione con il mestiere di giornalista?
«Siamo dentro alla più grande storia giornalistica degli ultimi decenni, che è fatta anche di migliaia di rumors, false informazioni, cospirazioni che dobbiamo debunkare. Credo che il direttore del Times (Dean Baquet ndr) sia piuttosto contento del fatto che è possibile svolgere la maggior parte di questo lavoro con un cellulare. Certo, mandiamo ancora le persone fuori a raccontare quello che vedono, ma la maggior parte del giornalismo sta funzionando da remoto e va bene così. Tutti preferirebbero fare un’intervista di persona piuttosto che al telefono ma non dobbiamo essere sentimentali: il giornalismo moderno viene già fatto prevalentemente via Skype e al telefono. In particolare quello che coinvolge esperti, epidemiologi e scienziati»
Nonostante i giornali avessero iniziato a scrivere del pericolo del Coronavirus ben prima dell’inizio dell’emergenza, la maggior parte dei cittadini ha impiegato molte settimane preziose prima di crederci. Le persone non si fidano più dei giornali?
«Viviamo in un mondo dove molte persone leggono solo quello in cui credono. E, spesso, quando incontrano fatti che possono contraddirlo, continuano a preferire la loro visione del mondo. Eppure, anche se crediamo in qualche strana teoria sulla nutrizione o seguiamo una stramba dieta (e questo capita anche ai migliori), non vuol dire che smettiamo di andare dal dentista. Le persone rivendicano il diritto di essere scettiche e, allo stesso tempo, continuano ad andare dallo specialista se hanno problemi ai denti. Anche Trump non credo sia così azzardato con i denti come lo è quando deve scegliere il farmaco da assumere per proteggersi dal Coronavirus. In alcune zone d’America l’epidemia è vissuta come il cambiamento climatico: un piccolo problema che è stato montato dalle èlite contro i lavoratori. Le proteste contro il lockdown dipendono più dalla politica che dalla consapevolezza o dalla sfiducia nel giornalismo. Non è un caso che interessano principalmente gli Stati che hanno votato per Trump. Oggi è più facile farsi guidare dall’ideologia che dai fatti»
Alcuni ritengono che il New York Times contribuisca a polarizzare il dibattito politico: siete diventati il quotidiano globale del pensiero liberal?
«Non c’è dubbio che siamo diventati un giornale “globale” — per copertura e organizzazione — ma nel mercato globale del giornalismo in termini numerici valiamo molto poco. E non credo che fuori dagli Usa veniamo percepiti come una forza liberal o di “sinistra”. È vero però che i regimi non ci apprezzano, che a Bolsonaro e Orban non piace il New York Times»
Anche il fondatore del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo non vi ama.
«I politici tendenzialmente non amano il buon giornalismo. Ma cosa diversa è dire che siamo una forza polarizzante globale: la sinistra in Europa non c’entra nulla con noi. Le persone all’estero quando pagano per le news non scelgono noi. So bene che in molti mercati siamo il terzo, quarto, quinto giornale e va bene così. Se un lettore deve pagare per le notizie in Italia preferirà sempre comprare il Corriere, la Stampa o la Repubblica»
A proposito di editoria italiana, osservatori sostengono che l’acquisto da parte del gruppo Exor — di proprietà degli Agnelli — del gruppo Gedi, proprietario di Repubblica, provocherà uno spostamento del giornale verso il centro, cambiando così il dna del quotidiano. Cosa ne pensa?
«In moltissimi Paesi, inclusi gli Stati Uniti, stiamo assistendo a operazioni di consolidamento editoriale: giornali e gruppi che si fondono spinti da esigenze più economiche che politiche. È inevitabile: quando un’industria matura non riesce a crescere ha bisogno di fare un’operazione scalabile, è una tattica di difesa. Ora, il modello italiano è da sempre regionale e molto politico: per consolidarsi ha bisogno anche di passare a posizioni più centriste. Ma non è una questione ideologica: è industriale»
Un ragionamento che potrebbe sembrare controintuitivo: in un mondo polarizzato dovrebbe funzionare di più una testata con una forte connotazione politica. O no?
«Qui parliamo di principi economici di base. Una pubblicazione cartacea o digitale ha dei costi fissi molto alti: redazione, carta, sede, marketing, tecnologia. In passato, grazie a una pubblicità altamente profittevole potevi sostenere un giornale che vendeva solo in una regione o in un paio di regioni. Se hai meno margini di profitto, devi avere molti più lettori e allo stesso tempo tenere i tuoi costi bassi. È qui che parte il consolidamento: metti più giornali insieme per condividere i costi ed espandere il tuo lettorato. Per riuscirci devi passare da una prospettiva regionale a una nazionale, da una linea partigiana a una linea moderata: è sopravvivenza. È vero che Internet richiede opinioni molto forti, ma puoi avere un giornale “moderato” e aperto a diverse voci con una pagina delle opinioni molto forte. Comunque, siamo onesti, la carta collasserà in ogni caso. Le persone smetteranno definitivamente di comprare i quotidiani di carta»
Quando?
«Immagino un decennio di vita ancora per il New York Times cartaceo, che sono sicuro sarà uno degli ultimi giornali — Germania a parte — a sospendere le pubblicazioni in edicola. In un paio di decenni saremo un mondo post cartaceo, quindi la nostra sopravvivenza dipende solo dal digitale e dalle scelte che faremo in quell’ambito. La pubblicità online non è affidabile: bisogna puntare sugli abbonamenti, su un giornalismo per cui le persone scelgono di pagare»
Anche gli under 40?
«La mia azienda è composta al 50% dai millennial. Oggi in molti dipartimenti del giornale abbiamo leader ventenni che prendono decisioni. C’è stata una rivoluzione all’interno dell’organizzazione: i millennial si occupano di tutto — politica, esteri, cultura — e questo ci ha permesso di arrivare a loro. Il podcast The Daily ha 3 milioni di ascoltatori al giorno. Questo vuol dire che ogni giorno 3 milioni di persone dedicano 20, 30 minuti all’ascolto, che è molto di più del tempo che ormai si dedica alla lettura di un giornale. Sono tutti millennial. Se realizzi prodotti di qualità pensando a loro verrai premiato»
Nate Silver, il guru dei dati che ha lavorato con voi dal 2010 al 2013 , mi ha raccontato che, arrivato al giornale, un caporedattore gli disse: “Quando lavori al New York Times il tuo cognome è Times”. È curioso che in meno di un decennio il giornale sia cambiato così tanto.
«La guerra culturale con Nate è coincisa con il mio arrivo. Da allora abbiamo cambiato moltissimi capi di settore. Questo è cruciale: non puoi avere gli stessi capi per sempre. Sono davvero pochissime le persone del “vecchio mondo” che possono reggere la trasformazione di cui ha bisogno oggi un’azienda giornalistica. Persone che hanno fatto carriera in un modo pre-digitale come possono guidare la transizione verso il nuovo? Il carico professionale, tecnologico, ma anche personale ed emotivo che comporta questo lavoro è impressionante. Io riesco a sostenerlo ma siamo pochissimi. Una volta quelli che si occupavano di dati nei giornali erano gli uomini grigi in fondo al corridoio, oggi sono al centro del giornale.
Però, in qualche modo, è ancora vero che il cognome di chi lavora qui è Times. Quando Nate Silver è andato via non abbiamo finito di fare infografiche e data journalism, anzi siamo diventati bravissimi. E forse la forza del Times è proprio questa: essere la casa di individui che sono diventati brand a loro volta — penso a Thomas Friedman, Paul Krugman, Maureen Dowm, Michael Barbaro — ma che continuano a trovare un valore immenso nell’essere associati al Times. Noi vogliamo essere una fabbrica di star, un magnete creativo che attiri giovani di talento per dare loro una chance. I valori e le pratiche del giornalismo restano le stesse: fact checking, oggettività , fonti multiple, attenzione alla scrittura. Ma oggi sappiamo che tocca essere flessibili se vuoi avere a che fare con i talenti»
Parlando di talenti, il vostro ultimo acquisto Ben Smith — ex direttore di Buzzfeed — nella sua prima rubrica da media columnist ha sostenuto che siete diventati un monopolio dell’informazione: avete cannibalizzato tutte le nicchie digitali che vi sfidavano assumendo i giornalisti migliori.
«Quando dicono che siamo come Google o Amazon, io dico di guardare ai numeri. La ricerca su Google è redditizia in tutti Paesi occidentali, come l’e-commerce di Amazon. Io bramerei per raggiungere anche solo il 5% dei lettori di un Paese fuori dagli Stati Uniti»
Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore un altro articolo di Smith che smonta la tecnica giornalistica di Ronan Farrow, autore delle inchieste che hanno dato via al MeeToo. Con un solo articolo vi siete fatti nemici sia i paladini del movimento che i colleghi del New Yorker.
«Non sono responsabile per la parte editoriale e posso solo dire che è stato un ottimo articolo. A proposito del #MeeToo voglio invece dire che l’impegno del Times verso il movimento è davvero difficile da mettere in discussione. Abbiamo seguito la vicenda ben prima che lo facesse Farrow, documentando da sempre le violenze subite da giovani donne e uomini sul posto di lavoro. Porre dubbi e domande sulla pratica investigativa non vuole dire mettere in discussione un movimento o un’istituzione come il New Yorker. Peraltro noi veniamo continuamente criticati da giornali autorevoli, ogni mattina trovo un plico di articoli che fanno le pulci al Times a firma del Washington Post o Vanity Fair. Sa che le dico? Questa è la vita».
(da Open)
argomento: Stampa | Commenta »