Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
NELLA STORICA SEZIONE SI E’ FORMATA LA CLASSE DIRIGENTE CHE GUIDA L’ITALIA, IL CASO GIULI E’ IL DETONATORE DI UNA RESA DEI CONTI INTERNA
E’ stato l’umido garage della Silicon Valley di Fratelli d’Italia. “La tavernetta”, tipo la serie Sky sugli 883, dove un’insolita band provò a uccidere, non l’Uomo ragno, ma il reducismo nostalgico e sfigato. Eravamo quaranta post fascisti non al bar – ma a Colle Oppio – che volevano cambiare il mondo. E ce l’hanno fatta. Sono arrivati nei gangli vitali dello stato. Tuttavia quella “comunità di destino” 30 anni dopo non c’è più. Anzi, si accapiglia.
Come da esergo del caso Giuli, il potere ha levigato quei legionari. Li ha resi sospettosi gli uni degli altri. Il cerchio magico si è stretto fino a entrare in un fazzoletto. In pochi sono disponibili a evocare certi ricordi, quei ricordi. Ora non si scherza più. Niente nostalgia di “come eravamo”. Gratta gratta si scopre che è in corso una sottile opera di rimozione. Anzi, nel frattempo i protagonisti di quella storia si azzannano fra di loro. Come racconta la faccenda del ministro della Cultura trafitto dai fratelli coltelli (in una storia piena zeppa, come d’abitudine, di sorelle bionde e forti). Ma guai a dirlo al sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, per esempio. Ti fa uno shampoo di venticinque minuti al telefono e alla fine ti dice: “Guarda, bello mio, che io Giuli lo conosco da trent’anni! Basta rovistare nell’immondizia”. Per fortuna, e meno male. La sera andavamo a Colle Oppio, ora tutti a Palazzo Chigi. Ma attenti alle spalle.
Via delle Terme di Traiano 15A. Una piccola porta di ferro dipinta con l’italico tricolore, e sorvegliata da telecamere, custodisce i settanta metri quadrati che hanno fatto da incubatrice alla destra che governa il paese da due anni. Rumore metallico, la chiave gira. Si scendono una decina di gradini: un salone, un corridoio, una saletta e un piccolo ufficio. Più un bagno (che sorgerà dopo decenni di stress alle vesciche).
Roma capoccia der monno infame, quartiere Esquilino, Colosseo sullo sfondo, Colle Oppio. Anzi la Colle Oppio, al femminile. La sezione tra leggenda e realtà, oblio e un certo fastidio. La prima del Msi. Pensiero magico e profondità di elaborazione culturale inedita e stravagante. Nasce come una simil falegnameria. Già ricovero di ex repubblichini, esuli istriani e dalmati nel 1946. Nel gergo comune il nome con cui si riconosceva era Colle Oppio, visto il parco archeologico adiacente, con un fulmine che attraversa le due lettere montate una dentro l’altra come simbolo. Su un pino secolare veniva issata ogni pomeriggio una bandiera tricolore in tela pesante, quasi un rituale. La sede era aperta.
Queste mura attraversano con sangue e difficoltà gli anni 70, fino ad Acca Larentia. Nel 1980, dopo la strage di Bologna, Giorgio Almirante decide di chiuderla per evitare rischi e accuse. I ragazzi del Fronte della gioventù riescono a farsi ridare le chiavi e iniziano una battaglia eretica contro il partito di Via della Scrofa: dicono no alla pena di morte voluta da Almirante, lanciano Fare Fronte nelle università, raccolgono generi alimentari per i terremotati irpini. Si inizia a fare “metapolitica”. Nascono a destra movimenti alternativi nelle università, si cerca l’accordo con Comunione e liberazione per le elezioni nell’ateneo. Alla Sapienza tre ragazze colloppine (Gloria, Emanuela e Fabiana) consegneranno al rabbino capo Elio Toaff una lettera densa di condanne per le leggi razziali e piena di amicizia verso Israele.
E’ in questo contesto che Giorgia Meloni inizia nel 1992 la sua palestra politica. Lei e non solo lei. Dalla Colle Oppio, così centrale, dipendono tutte le sezioni di Roma ovest fino al mare, Garbatella e Ostia comprese.
Chi conta al giorno d’oggi, a Roma, è passato da questo parco buio o comunque non può non conoscerlo. E’ stata “l’Ena” di un’intera generazione della droite italienne. Ovviamente all’amatriciana, scanzonata. Con una bella iniezione di endogamia e paranoia. Racconta un dirigente diventato importante: “Noi che eravamo più grandi ci dovevamo raccomandare con i nostri ragazzi affinché tenessero a bada gli ormoni”. Chi sgarrava veniva processato. Gli impenitenti cacciati. Polizia politica, ancora attualissima nel governo dove la caccia all’infame, che di natura è una spia, è un passatempo praticato.
Allora scendiamo in quella sezione. Eccola, sembra di vederla, Giorgia-Calimero: cappellino da baseball e bomberino nero. Ti guarda sempre con quegli occhi dardeggianti. Entra ed esce con passo marziale, elettrica, in questa spelonca che fa venire i reumatismi solo a osservarla da fuori.
Ci sono manifestazioni da preparare, l’autofinanziamento, il volontariato, le scuole e le università dove fare proseliti, il fortino da difendere dagli assalti dei “kollettivi” che tutte le volte deviano sempre da queste parti quando passano da via Merulana per sfociare a piazza San Giovanni. Non sono mai carezze, ma perfino bombe piazzate di notte. Bombe rosse. “Ao’ ci sono i volantini da scrivere”. I dibattiti fiume. Le riunioni. I Richiami del corno e il Solstizio d’inverno da onorare come si deve. Il ricordo degli occhi azzurri di Stefano Recchioni, uscito da qui a vent’anni e mai più rientrato perché rimasto a terra ad Acca Larentia, colpito da un proiettile di un carabiniere. “I nostri morti”. E poi i ritiri spirituali. L’elaborazione politica, interminabile. Le letture in circolo. La fascinazione per il capo di Cuib, l’ultranazionalista Corneliu Zelea Codreanu: c’è anche il suo nome scritto sulle pareti insieme a quelli di Evola, Papini e Degrelle. E poi: le passeggiate in silenzio ad alta quota. La misticanza in cui si voleva mischiare Gramsci e Ezra Pound, Pasolini ed Ernst Jünger. I congressi da vincere nella neonata An, lotte intestine che possono finire a sediate. I viaggi tutti insieme a El Alamein. Va detto: a questa storia non è mancata la fortuna e alla fine si capirà se avrà avuto un valore: per ora ci sono indizi abbastanza contrastanti, diciamo. Di sicuro quel comunitarismo non c’è più, ora che le autoblu e le segretarie sfrecciano di qua e di là, ora che i capi di gabinetto sono diventati strumenti di resa dei conti o di ostentazione di chi comanda sul serio. “Qui non stiamo a Colle Oppio”, si è sentito in questi giorni che hanno portato alle dimissioni di Francesco Spano.
Meglio seguire ancora per un attimo questa ragazzina dall’energia esplosiva, così la descrivono: malata di politica sociale, stakanovista fino alla paranoia: “Ci penso io, controllo io, vado io”. Ma capace di essere “compagnona”, di cantare e fare scherzi e imitazioni, di imporsi in un ambiente dai forti connotati maschili, seppur pieno zeppo di donne vista la media a destra, in una comunità che dall’esterno appare chiusa a doppia mandata. “Questa c’ha le palle”, dicono di Calimero i suoi amici che si chiamano fra loro con camerateschi soprannomi: Bussola, il Lungo, Pejo, Spugna, Beautiful, Bibi, il Noto. Eccola Giorgia Meloni, Giorgina Calimero, ragazzina, poi giovane donna. Una soldatessa: alterna improbabili momenti di serietà ad attimi di normale sbraco. Brilla. Viene dalla Garbatella, Roma sud, dopo un’infanzia movimentata a Roma nord. E’ accompagnata sempre dalla sorella di nemmeno due anni più grande: si chiama Arianna, sgobbona filiforme, timida e accondiscendente, che ha spesso in mano una manciata di soldi spicci perché le tocca passare le giornate in una cabina telefonica a chiamare tutti gli iscritti della sezione per ricordare loro la convocazione di questo o quell’appuntamento: “Dovete esserci, raga’, Fabio ci tiene. Stasera c’è Mille e uno scopo”. Ovvero il decalogo in cento punti del bravo militante. Va letto ad alta voce, a turno. L’ha scritto un neo architetto, ex olimpionico di nuoto, con due spalle che levati. Un tizio particolare, generoso e autoritario. Lo chiamano Dante per via del profilo alla francese. Sembra avere sempre un’idea spettinata su tutto. E’ Fabio Rampelli, il capo indiscusso. La guida carismatica, già pioniere delle giovanili, il fratello maggiore di questa compagnia fissata con Tolkien e l’anello del potere, la sinistra della destra. Dante ci crede, tantissimo. Verrà mollato per un periodo da quella che poi diventerà sua moglie, la giornalista del Secolo Gloria Sabatini, perché nel 1993 decide di candidarsi (e sarà eletto) alle comunali per il Campidoglio, quelle del bipolarismo di Gianfranco Fini contro Francesco Rutelli. Lei non accetta che lui si comprometta con il sistema, che a loro non piace, perché lo combattono da dentro e dal basso, da là sotto. A Colle Oppio sono fatti così. Non amano manco i giornalisti “perché sono tutti di regime e sparano balle sopraffine”, come da strofa di una canzone di rock alternativo. Un altro tormentone è “Il domani appartiene a noi”, testo originariamente controverso (per alcuni nazistoide), ma poi rivisitato. Sono forse visionari, chissà se un po’ mattocchi. Però ce l’hanno fatta: è storia. Stop.
Trent’anni dopo. Calimero è diventata presidente del Consiglio, prima donna nella storia della Repubblica. La timida sorella è la numero due di Fratelli d’Italia, partito del 30 per cento. L’ultimo segretario di questa sezione quando c’era il Msi e il primo di An, è il Lungo Marco Marsilio, governatore dell’Abruzzo al secondo mandato. L’attuale segretario della sezione (che ormai fisicamente si appoggia altrove, in via Sommacampagna) è il presidente della commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, Molly, er Mollica, quello che ha litigato in Transatlantico con Antonella Giulia, la sorella del ministro.
Il figlio di un diplomatico che si divertiva nei dibattiti culturali è il potentissimo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Fazzolari, Spugna. Il quale faceva spesso coppia con un altro amico, appassionato di archeologia: è l’amministratore delegato della Rai, Giampaolo Rossi, Bussola, postura mazziniana e uomo-pipa. Poi c’è Chiara Colosimo, diventata nel frattempo presidente della commissione Antimafia. La sorella di Calimero è stata una vita, e poi si è lasciata, con il bello della compagnia, Beautiful, attuale ministro dell’Agricoltura, anzi della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida. E ancora: senatori, deputati, consiglieri comunali, assessori regionali, governatori, come Francesco Rocca. Il ragazzo spilungone con i capelli fulvi che adolescente dalla sezione di via Livorno bazzicò questo posto – prima di andarsene in polemica perché erano troppo moderati e badogliani per approdare a Meridiano zero – è l’attuale periclitante ministro della Cultura, Alessandro Giuli. Il suo predecessore Gennaro Sangiuliano, gran furbacchione, invece passava da qui a presentare le sue biografie sui grandi della Terra. Il maestro di tutto questo, il capo dei Gabbiani,altro nome di questa corrente, è rimasto per la seconda legislatura vicepresidente della Camera. E questo dettaglio spiega tutto: la rimozione, il desiderio inconscio forse di non restare intrappolati in una fase storica, bella e guascona, ma diversa e inattuale, troppo romantica, poco pragmatica. Chissà.
La sezione dove tutto è nato venne chiusa con un blitz dalla sindaca del M5s Virginia Raggi nel 2017 per una faccenda legata a presunte morosità del canone sebbene a prezzo calmierato. Chi le è succeduto in Campidoglio, Roberto Gualtieri del Pd, lo scorso anno l’ha restituita a questo mondo. La sede è stata ristrutturata come si deve e data in affidamento all’associazione “10 Febbraio” che dentro vi ha allestito una mostra fotografica dedicata a Norma Cossetto, studentessa istriana, uccisa dai partigiani comunisti del maresciallo Tito. Alla mostra, inaugurata da Rampelli con l’allora ministro Sangiuliano, non si sono ancora mai viste le sorelle Meloni, Fazzolari, Lollobrigida, Giuli… E’ passato un anno. Perché? I protagonisti di quella stagione di Colle Oppio, diventato per l’opposizione simbolo di settarismo e chiusura mentale della premier e di tutto il cucuzzaro di governo, sono divisi nel ricordo. C’è chi non ne parla mai, chi minimizza, chi si commuove. Lollobrigida: “E’ una storica e importante sezione che ha avuto grandi capacità di promuovere dibattito e fare cultura. La prima volta che vi entrai avevano messo una bomba la notte prima”.
Mollicone: “E’ la nostra caverna platonica, il luogo dove è nata la strategia per uscire dal ghetto degli anni 70 e 80 con l’associazionismo. Costringemmo un’intera generazione a guardare il sole a dire basta nostalgia”. Marsilio: “Fu un punto di riferimento, molto più avanzato del resto della destra tradizionale, contro un mondo cupo. Fondammo case editrici, il Bosco e la nave, associazioni rivolte all’ambiente, come Fare verde del compianto Paolo Colli”.
Scrisse Rossi, ad Rai, sul blog del Giornale: “Furono i ragazzi di Colle Oppio, alla fine degli anni 90, a organizzare le prime tende di solidarietà per i barboni che stazionavano nel parco; furono loro a sporcarsi le mani, a dormire in quelle tende con i diseredati, non i fighetti di sinistra. Don Di Liegro venne dai noi”. Esiste un romanzo militante che racconta questa epopea sommersa: si chiama “Colle Oppio vigila” (Eclettica) di Fabrizio Crivellari, detto Bibi, ora a capo dell’ente cinofilo. A sinistra ci avrebbero fatto tre serie tv e due documentari. A destra questo posto è il vanto della memoria di pochi, mentre gli altri sono alle prese con il potere. Zac zac. Fratelli coltelli: “Il domani appartiene a noi”. Anzi, l’oggi.
(da ilfoglio.it)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
ORA NON SOLO LE PERSONE MA ANCHE LE COSE COMPLOTTANO CONTRO IL GOVERNO
Voglio credere all’incredibile e cioè che, quando Paolo Corsini — alto dirigente della tv di Stato e militante dichiarato di Fratelli d’Italia — ha pronunciato ai microfoni la parola «infame» subito dopo la parola «Formigli», non si riferisse affatto al conduttore televisivo, ma al gradino su cui aveva appena rischiato di incespicarsi, come da lui sostenuto.
Questa spiegazione, però, mi preoccupa persino più di quell’altra. Può capitare a tutti di chiamare «infame» qualcuno che ti sta sulle scatole. Oddio, proprio a tutti no, perché «infame» è termine arcaico che usano soltanto qualche dirigente di Fratelli d’Italia e gli ultrà del calcio. Però a tutti può succedere di pronunciare qualche sinonimo più moderno e, nel caso, di risponderne in tribunale.
Invece, dare dell’«infame» a un gradino è il sintomo di una visione del mondo particolarmente cupa. Significa immaginare che non solo le persone, ma persino le cose complottano contro di te. Quella che il Giuli definirebbe, in parole povere, «una concezione antropomorfa e perigliosa dell’esistente».
Non oso immaginarmi la giornata-tipo del povero Corsini, trascorsa a dare dell’«infame» alla pastasciutta della mensa Rai e all’ascensore di viale Mazzini che non è mai al piano quando ne ha bisogno.
La sera rientra a casa talmente provato che, se accende la tv e vede un’inchiesta giornalistica di Formigli sulle magagne del suo partito, quasi quasi tira un sospiro di sollievo.
(da corriere.it)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL CASO DELLA CULTURA E’ SOLO UNA SPIA: CROSETTO SFIDA MANTOVANO PER LE NOMINE DEI CARABINIERI
L’immagine del partito granitico, tutto compatto dietro alla leadership di Giorgia Meloni, è ormai evaporata. Perché quando il potere arriva di colpo allora ribalta persino gli aforismi e finisce a logorare chi ce l’ha. Lo sanno bene in Fratelli d’Italia, dove non si contano liti e fazioni. A differenza di altri partiti, dediti alla lotta in pubblica piazza, qui i dissidi rimangono di solito sottopelle per mesi, in attesa di un fiammifero che li faccia esplodere.
Neanche a dirlo, la miccia più recente è il disastro al ministero della Cultura, dove Alessandro Giuli, arrivato coi favori di Arianna Meloni, si è inimicato mezzo partito quando ha deciso di rimuovere Francesco Gilioli da capo di gabinetto per sostituirlo con Francesco Spano. Il primo, a lungo mandarino del Senato, è amico di Ignazio La Russa, non a caso adirato con il neo-ministro per come ha trattato Gilioli medesimo; il secondo, costretto alle dimissioni dopo dieci giorni, come svelato dal Fatto ha subito l’onta di insulti omofobi nelle chat di FdI e ha subito quella parte di partito che fa da raccordo con la galassia Pro-Vita. Per dire un nome: la sottosegretaria Isabella Rauti.
In questo contesto Giuli si è scontrato duramente con Giovanbattista Fazzolari, braccio destro di Meloni che al ministero della Cultura ha orecchie e occhi fidati, come quelli del capo della segreteria tecnica Emanuele Merlino. Il ragionamento di Giuli è presto fatto: o mi fate fare il ministro, senza “ministri ombra”, o me ne vado. Solo che questo discorso lo ha fatto all’altro sherpa di Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, colui che lo ha incontrato nel giorno delle dimissioni di Spano.
Fin qui la faida al ministero, cui resta una coda non trascurabile: la rissa sfiorata l’altro giorno alla Camera tra l’onorevole Federico Mollicone e Antonella Giuli, conosciutissima componente della comunicazione FdI già portavoce di Francesco Lollobrigida nonché sorella del ministro della Cultura. È noto che Mollicone sperasse di fare il ministro o quantomeno il sottosegretario, ma è rimasto in panchina come gran parte della sua “corrente”, l’ala dei Gabbiani che fa riferimento a Fabio Rampelli. Nonostante la lunghissima militanza romana alle spalle, ormai si tratta di una costola di partito messa ai margini, quasi un’opposizione interna.
È anche per questo che Meloni non si fida più. La lite tra Antonella Giuli e Mollicone alla vigilia di possibili nuove rivelazioni di Report segue lo sfogo in chat della premier contro gli “infami” del suo partito, colpevoli di spifferare troppe cose ai giornalisti: “Mollerò per colpa vostra”. Come sempre in questi casi, illudersi di scovare le talpe è inutile. Meloni ha troppa esperienza per non saperlo, ma quel che conta è mandare un messaggio al partito che ribolle.
Un partito dove peraltro cambiano i rapporti di forza. Giovanni Donzelli, per esempio, ha gestito la macchina nel periodo cruciale dell’ascesa fino alla vittoria del 2022, ma oggi – lo si è appena visto – molti altri hanno strappato quote di potere, in primis Arianna Meloni, militante da una vita ma mai così in primo piano. Tra i primi a dare solidarietà a Meloni contro gli “infami” c’era stato Guido Crosetto, che però a sua volta ha dato più di una preoccupazione alla premier negli ultimi mesi, soprattutto per i toni usati contro i Servizi nella vicenda del presunto dossieraggio ai suoi danni. E ora i dissidi con Alfredo Mantovano, che ai Servizi ha la delega, potrebbero accentuarsi in occasione della nomina del prossimo comandante generale dei carabinieri: il ministro punta su Salvatore Luongo, Mantovano su Mario Cinque. Qualcuno, tanto per cambiare, ne uscirà malissimo.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DEGLI APPROFONDIMENTI DELLA TV PUBBLICA, GIÀ TRAMORTITO DALL’INFILATA DI FLOP RISCHIA UNA SANZIONE DISCIPLINARE… NON È LA PRIMA VOLTA CHE ROSSI VIENE MESSO IN DIFFICOLTÀ DA CORSINI, TANTO CHE PENSAVA DI SOSTITUIRLO: MA IL “MILITANTE DI FDI” È STATO SALVATO DA ARIANNA MELONI
Il neo-ad Giampaolo Rossi, fedelissimo della premier, è furibondo. Già tramortito per l’infilata di flop collezionati dal “fratello” piazzato a supervisionare i talk — da Avanti popolo , chiuso anzitempo, a L’altra Italia di Antonino Monteleone che viaggia a quote da discount, 0,99% lo share della penultima puntata — lo convoca nel suo ufficio e gli fa una lavata di testa da far tremare i vetri.
Corsini prova a riproporre la scusa improvvisata mercoledì sera: «Parlavo del gradino, come si sente chiaramente in onda. Sono giorni che zoppico per un problema al ginocchio, tanto che faccio magnetoterapia, anche qui in Rai. Se poi a Formigli piace attribuirsi certi epiteti…».
Una difesa che ribalta la frittata: è il conduttore de La7 ad aver frainteso, non lui ad averlo insultato. Ma non regge. Persino l’amico amministratore delegato non gli crede. E in fondo a una mattinata ad altissima tensione fa diffondere una timida nota per esprimere «il proprio disappunto » e notificare di aver «dato mandato alle Direzioni competenti di valutare eventuali elementi sotto il profilo disciplinare».
Non è la prima volta che il giornalista promosso direttore di genere, uomo di punta della sua filiera, lo mette in difficoltà. Era già successo l’anno scorso quando, dal palco di Atreju, aveva fatto pubblica professione di fede meloniana; poi con il pasticcio sul contratto annullato ad Antonio Scurati; infine con gli ascolti deludenti di format e volti targati FdI.
Tanto che a un certo punto Rossi avrebbe voluto sostituirlo, ma Corsini si rivolse ad Arianna Meloni e venne blindato. Questa, però, rischia di essere la classica goccia. Un messaggio che l’ad avrebbe anche recapitato a palazzo Chigi.
In pochi tuttavia credono che possa accadere. Roberto Sergio fra questi: «Di fronte allo stress, ci può stare che uno sbagli la risposta», minimizza il dg. «Non è questione di essere intoccabili, bensì di valutare il comportamento. Io non l’avrei detto», prende comunque le distanze, «ma non ci trovo niente che possa interessare il codice etico dell’azienda e probabilmente non accadrà nulla»
Non la pensano così Fnsi e Usigrai che parlano di atteggiamento «indegno del ruolo», invocando «le scuse della Rai e decisioni conseguenti». Mentre Pd, M5S e Avs ne pretendono le dimissioni.
«Se uno come Paolo Corsini resta al suo posto è un problema della Rai, non per La7. Anzi per noi è pure un vantaggio». Corrado Formigli, «l’infame» si aspetta le scuse dei vertici del servizio pubblico.
Ma ha capito perché Corsini ha reagito in quel modo?
«Francamente no. Io non ho il piacere di conoscerlo, non ci siamo mai parlati, né l’ho mai insultato. L’unica volta che me ne sono occupato è quando abbiamo mandato in onda lo spezzone in cui da capo degli Approfondimenti Rai è salito sul palco di Atreju e si è definito militante di FdI. Chiedendo se sia giusto che un alto dirigente della tv di Stato che si occupa dell’informazione pubblica dichiari la sua fede politica in modo tanto sfacciato e plateale».
Corsini è vicino a Meloni, i rapporti tra lei e la premier sono tesi: può essere questo il motivo?
«Il veto di Meloni su Piazzapulita non è un mistero: sono anni che lei declina i nostri inviti e da un po’ impedisce anche ai suoi esponenti di partito di partecipare. Ci sta che qualcuno sia più realista del re e pensi, offendendoci, di farle un favore. In fondo è successo anche alla Gnam per la festa del Tempo: gli unici due giornalisti tenuti fuori, anche se accreditati, sono stati i nostri».
Per la destra «infame» equivale a dire traditore…
«Io credo che la cosa sia molto più semplice, che la reazione di Corsini sia dovuta al grande nervosismo generato dalla lunga serie di flop che ha collezionato. Non ne azzecca una. Detto questo, ho trovato l’insulto gratuito e fuori luogo. Mi domando che cosa pensa di fare la Rai».
Cosa dovrebbe fare?
«Mi aspetto che prenda le distanze, in qualche maniera si scusi”.
(da La Repubblica)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
È IN CORSO UN BRACCIO DI FERRO TRA IL MINISTRO DELLA DIFESA CROSETTO (A CUI FORMALMENTE SPETTA LA NOMINA), CHE HA INDICATO SALVATORE LUONGO, E I SOTTOSEGRETARI MANTOVANO E FAZZOLARI, CHE VOGLIONO RISPETTIVAMENTE MARIO CINQUE E RICCARDO GALLETTA – LA NOMINA DELICATISSIMA SI È TRASFORMATA IN UN REGOLAMENTO DI CONTI IN FDI
La cerimonia di avvicendamento nella carica di comandante generale dell’Arma dei carabinieri è prevista per il prossimo 15 novembre presso la caserma Salvo D’Acquisto a Roma. La data è già nelle agende di ministri, sottosegretari, alte cariche dello Stato, parlamentari, vertici delle altre Forze armate e di polizia che da giorni hanno ricevuto il prestigioso cartoncino d’invito con il logo della Benemerita.
Il generale Teo Luzi, l’attuale comandante, il 14 novembre compirà 65 anni, età massima per il trattenimento in servizio e quindi dovrà obbligatoriamente lasciare l’incarico. Proroghe non sono previste e, anche volendo, non sarebbero consentite dalla legge.
C’è però un piccolo particolare: ad oggi non si conosce il nome di chi sarà chiamato a prendere il posto di Luzi che rischia così la mattina del prossimo 15 novembre di fare il passaggio di consegne con se stesso. La nomina del successore di Luzi doveva essere pronta per il Consiglio dei ministri di lunedì scorso ma poi è saltato tutto. Motivo? Secondo i bene informati il ministro della Difesa Guido Crosetto, a cui spetta la proposta del candidato che dovrà poi essere ratificata dal Consiglio del ministri, avrebbe un suo nome.
Ma anche il sottosegretario Alfredo Mantovano, molto ascoltato dalla premier, avrebbe un nome, che è diverso da quello di Crosetto. Ed anche l’altro sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, anch’egli molto ascoltato dalla premier, a sua volta avrebbe un nome, diverso anch’esso da quello di Crosetto e Mantovano.
Tutto legittimo, ci mancherebbe, visto che la nomina del comandante generale compete alla politica che deve scegliere un nome fra i generali dell’Arma. La conseguenza di questo eccesso di candidati sta però creando grande sconcerto nella base dell’Arma in quanto il nome del comandante generale dovrebbe essere deciso per tempo e non all’ultimo momento.
I papabili sono sempre i soliti: il vicecomandante Salvatore Luongo, il capo di stato maggiore Mario Cinque ed il comandante interregionale “Pastrengo” Riccardo Galletta. Luongo sulla carta è quello più titolato e più trasversale, essendo stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa con i ministri dem Roberta Pinotti e Lorenzo Guerini, con la grillina Elisabetta Trenta, e da ultimo con Crosetto.
Cinque è la soluzione interna e rappresenterebbe il bis di quanto accaduto a Luzi che, prima di diventare comandante generale, aveva ricoperto il medesimo incarico. Galletta, infine, è il più anziano. I curricula si equivalgono e sono tutti di altissimo profilo. L’unico criterio realmente oggettivo, quello dell’anzianità di servizio, è stato da tempo mandato in soffitta con la conseguenza che il prescelto potrebbe trovarsi a dare ordini a chi, fino al giorno prima, obbediva.
L’aver tolto l’anzianità ha determinato un vero cortocircuito in quanto essa è alla base dell’ordinamento militare. Vale la pena allora ricordare cosa disse Beniamino Andreatta, fondatore dell’Ulivo e ministro della Difesa nel primo governo di Romano Prodi. “Il comandante generale – disse Andreatta – deve essere mantenuto esterno all’Arma come garanzia di neutralità nel comando: è infatti indispensabile evitare che potenziali rivalità interne tra i più alti esponenti dell’Arma si ripercuotano sull’intera organizzazione determinando sconcerto nell’opinione pubblica e minando quella fiducia generalizzata che è il patrimonio conquistato in una lunga storia”.
Chiunque sarà nominato susciterà dunque inevitabili mal di pancia nei bocciati. La novità di questa volta è che la nomina del comandante generale dell’Arma offre l’occasione per un regolamento dei conti fra le varie anime di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni condifa in un accordo fra Crosetto-Mantovano-Fazzolari. Il presidente della Repubblica, a cui i carabinieri garantiscono la scorta, è alla finestra. Non resta che attendere.
(da agenzie)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
“MICA PENSANO CHE MI DILEGUO CON LE TENEBRE, DI NOTTE?”… “MELONI ‘FURIOSA’ PER NON RIUSCIRE A TENERE A BADA LA SUA CIURMA, SEMPRE PIÙ ANARCHICA”… È VERO CHE FAZZOLARI HA SCOMUNICATO GIULI?
“Il mio cadavere sarà pieno di impronte digitali. Questo lo si sa”, spiega all’amico mentre con una mano respinge infastidito il menu. Ma l’amico del ministro, col tono di chi conosce più della politica il quid di questo ristorante sull’Aurelia antica, periferia verde e silenziosa della Capitale, avanza la propria riflessione: “Cacio e pepe?”.
Tra le disgrazie che stanno capitando ad Alessandro Giuli, ministro della Cultura esposto al fuoco della destra di governo (e di opposizione), era rimasta colpevolmente esclusa quella che ci rammenta un principio costituente del passaparola: anche i muri ascoltano.
“Le Iene sono venute sotto casa. Hanno spaventato la mia bimba che era alla finestra e mi ha chiesto: papà perché hai litigato con quel signore? Così no, così non è vita e non è giusto. Volete che prenda cappello e lasci la poltrona?”. L’amico, con tono compassionevole: “Ordiniamo e poi mi dici”. Lui: “Stavo così bene al Maxxi e l’ultima cosa che pensavo era di sostituire Sangiuliano al quale anzi tutte le volte che ho potuto ho dato una mano, ho offerto un consiglio che ritenevo utile, ho agevolato la soluzione di un problema”. L’amico: “Ti vogliono costringere alle dimissioni, è chiaro”. Lui “Mica andrei via di notte? Mica pensano che mi dileguo con le tenebre?”.
Avrebbe già deciso, a quel che si sa, il passo dell’addio anticipato qualora il fuoco amico si facesse più insistente, più cattivo, più indigesto. Giuli non avrebbe una telecamera del Tg1 ma l’emiciclo del Parlamento al quale riferire quel che è successo. E sarebbe il principio del terremoto!
Al solo evocare questa ipotesi, che pure oggi pare oggettivamente lontana, la preoccupazione di Sergio Mattarella si è infittita assai da metterlo in allarme. E Giorgia Meloni? Inquieta, stupìta, la descrivono “furiosa” per non riuscire a tenere a bada la sua ciurma, sempre più anarchica.
Quando Giuli ha lasciato il ristorante, l’amico l’ha salutato con un gesto di desolazione e con le parole di una resa imprevista e inimmaginabile fino a ieri, ma d’ora in avanti possibile, concreta, da mettere in conto: “Così frana tutto, cazzo!”.
Allerta, frana in arrivo. Non serve il servizio meteo perché in questo caso il cambiamento del clima interno al partito della destra italiana che si trova a dover gestire il 30 per cento dei voti e mille vite affamate di visibilità è un fatto certificato, ufficiale, definitivo.
È vero o falso che Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura, aveva proposto di confermare Giovanna Melandri, cioè il nome del Pd, al Maxxi, il museo romano nel quale è invece sbarcato Giuli prima di approdare al Collegio Romano? Ed è vero che quella proposta Mollicone l’aveva avanzata col solo proposito di stoppare Giuli? Ed è vero che Giambattista Fazzolari, il drone ex missino che sorveglia gli affari interni dei ministeri, ha scomunicato Giuli, puntandolo al cuore?
Nel garbuglio di odi e rancorose antipatie (che diciamo di Giovanni Donzelli contro Arianna Meloni, per esempio?) Alfredo Mantovano è riuscito almeno nell’armistizio. Che pare – stando a quel che trapela da Palazzo Chigi – sia stato così definito: Giuli conserva il titolo a proporre un nuovo nome per la poltrona di capo di gabinetto, dopo che ben due in poco più di due settimane sono finiti in bocca ai pescecani, ma non ha più l’assoluta certezza che quel nome sarà il prescelto. Punto
Il ministro si era già sfogato giorni fa: “Non hanno capito che sono un socialista liberale di radice gentiliana (Giovanni Gentile, il filosofo teorico dell’idealismo, fu una figura di spicco del fascismo italiano ndr). Conserverò la mia identità e la mia autonomia, costi quel che costi. Non sono così moderno da essere omosessuale, mi tocca specificare anche questo?
E non mi importa se tentano di ridicolizzarmi, di farmi divenire una presenza fissa nello show di Maurizio Crozza. Le mie parole che in Italia sembrano ora oscure oppure esoteriche, mi sono valse l’apprezzamento della Frankfurter Allgeimeine Zeitung (è un importante quotidiano tedesco, ndr) per il discorso fatto alla fiera del libro di Francoforte. Facciano pure ironia ma questa è la verità”.
La verità? È che non passa giorno che ci sia una nuova rivelazione, un colpo di teatro, una manciata di segreti da svelare, di cause da sostenere, di amicizie da conciliare. Dagospia rivela gli anni “leghisti” di Giuli, quando fu chiamato a redigere il programma politico della Lega. “Roba vecchia e soprattutto nulla di nuovo sotto il sole. Evidentemente D’Agostino ce l’ha con me”.
Sulla natura del sole delle Alpi in effetti Giuli fu chiamato a intervenire. Il Fatto, ricostruendo la vicenda, è in grado di delineare le sue dimensioni. La proposta di scrivere il programma culturale della Lega nel 2018 fu avanzata a lui da Giancarlo Giorgetti. Alessandro andò da Giorgia a comunicare l’offerta ricevuta e lei diede il consenso. La dimensione dell’entusiasmo per la prova assai ardita lo coinvolse a tal punto da esondare un po’. Arrivò a scrivere: “I nemici della Nazione hanno le ore contate. Il sole delle Alpi è il sigillo che lega l’Italia dei popoli e la salverà dalla sconfitta”.
Il Giuli leghista piacque ai committenti padani e Matteo Salvini volle riceverlo e – immaginiamo – congratularsi per la bella prova. Gli venne addirittura proposta la candidatura in Parlamento. Troppo anche per chi, come Giuli, aveva sfidato il principio di gravità.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
“GIULI SAPEVA TUTTO”… L’INDICAZIONE SAREBBE ARRIVATA A MOLLICONE (FDI)
Dambruoso in un’intervista a La Stampa reitera le accuse. Sono stato cacciato. Al mio posto? È stato messo chi ha le conoscenze politiche “giuste”. Io sono un critico d’arte indipendente. E questa indipendenza l’ho pagata cara», dice a Irene Famà.
Secondo lui «devano che sul mio conto giravano voci calunniose e che erano preoccupati di un possibile scandalo. In realtà era già tutto deciso, non c’è stato nessun confronto». Ovvero: «L’ordine di mandarmi via era arrivato dai vertici stessi di Fratelli d’Italia».
L’estromissione
Secondo Dambruoso lo hanno estromesso per favorire il gallerista romano Fabrizio Russo. È stato messo in discussione il mio operato in generale. Si è detto che io autenticavo opere false di Boccioni, che mi ero arricchito con un giro di falsi. Addirittura che ero diventato milionario. Nessuno aveva mai messo in dubbio il mio lavoro».
Intanto la mostra è stata stravolta: «Da 650 opere si è passati a 350. Con aerei e macchine che entrano in scena, legate allo sviluppo tecnologico, senza mai essere state contemplate prima. Lo stesso Simongini, il curatore, è solamente una pedina in mano a loro».
E Giuli? «Sapeva benissimo che ero co-curatore della mostra. Era a conoscenza di ogni aspetto. L’avevo incontrato, con Simongini, quando era presidente del Maxxi. Ed era parte del comitato organizzatore della mostra sul Futurismo, che poi, sostanzialmente, prende in mano l’evento».
La fine della storia
«Sono un critico d’arte lontano dai giochi della politica o da altri tipi di compromesso. Va da sé, non sono una pedina, ma un bersaglio facile sì. E questa storia è chiara. E lo ha dimostrato», conclude Dambruoso. «Chi ha portato avanti i propri interessi è un uomo di estrema destra che ha conoscenze politiche. E tramite queste persone è riuscito a estromettermi».
(da agenzie)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
IL PD CHIEDE LE DIMISSIONI DEL MANAGER RAI
Non c’è solo quell’«infame» che Paolo Corsini, direttore dell’approfondimento della Rai, si è lasciato sfuggire ai microfoni di Piazzapulita rivolto al conduttore Corrado Formigli. E che gli è costato una convocazione dai vertici di viale Mazzini e l’irritazione dell’amministratore delegato Rossi.
Mentre il Partito democratico, attraverso il suo europarlamentare e responsabile informazione nella segreteria nazionale Sandro Ruotolo, chiede le dimissioni del manager meloniano del servizio pubblico, escono dal passato di Corsini le sue simpatie fasciste, apertamente condivise e disseminate sui social network nel corso di anni.
Nelle stesse ore dell’insulto a Formigli, esce anche il libro del docente universitario, linguista e sociologo Massimo Arcangeli: Quel braccio alzato. Storia del saluto romano. Con un ultimo capitolo intitolato proprio Fratelli d’Italia, l’Italia s’è destra, in cui emergono i legami vecchi e nuovi della destra di governo italiana con il nostalgismo fascista e con l’ultranazionalismo nero internazionale, con un riferimento anche alla Corte dei Brut dove quei movimenti trovano spesso casa.
Paolo Corsini, simpatie e affiliazioni
Nel suo libro Arcangeli dedica diverse pagine proprio a Paolo Corsini, riprendendo quanto il giornalista ha scritto su Facebook negli ultimi anni. Tra citazioni di Mussolini e auguri beffardi per il 25 aprile, slogan del fascismo e anche partecipazioni a eventi culturali nettamente schierati. Come i concerti dei 270bis, di cui era frontman Marcello De Angelis, il capo comunicazione della Regione Lazio costretto a dimettersi per i suoi post sulla strage di Bologna.
«Paolo Corsini è quello che, parlando di “orgoglio italiano” nel corso dell’ultima kermesse di Atreju, ha rivendicato pubblicamente, senza neanche un filo d’imbarazzo, la sua affiliazione al partito di Giorgia Meloni. In quell’occasione (14 dicembre 2023) ha dichiarato di essere tuttora militante di Fratelli d’Italia, definendolo “il nostro partito”», ricorda Arcangeli, ma è anche «quello del monologo sulla Festa della Liberazione che il 20 aprile 2024 Antonio Scurati avrebbe dovuto leggere in prima serata su Raitre a Chesarà… (l’intervento fu invece censurato), ed è lo stesso che si è divertito più volte a provocare gli utenti di Facebook, nei suoi post del 25 aprile».
Il diario di Facebook del dirigente Rai è un libro aperto, senza imbarazzi, sulla vicinanza di Corsini al mondo nero. E per questo Arcangeli chiosa, in merito all’opportunità di affidargli un ruolo apicale in viale Mazzini: «Solo un’Italia che non abbia fatto ancora seriamente i conti col Ventennio può tollerare che a decidere degli approfondimenti giornalistici del servizio pubblico possa esserci chi inneggia senza mezzi termini al nazifascismo in atti, parole e comportamenti inaccettabili».
Corsini, la richiesta di dimissioni
Citando le rivelazioni nel libro di Arcangeli, parte delle quali erano già note come sottolinea l’autore stesso, Ruotolo chiede le dimissioni di Corsini: «Per quell’infame al giornalista Corrado Formigli abbiamo chiesto, come Partito Democratico, le dimissioni di Paolo Corsini, direttore degli approfondimenti giornalistici della Rai. Dopo aver letto il libro uscito oggi di Massimo Arcangeli ‘Quel braccio alzato. Storia del saluto romano’, la Rai non deve perdere più tempo. Pubblichiamo alcuni dei post di Paolo Corsini dove l’apologia del fascismo è evidente. È una vergogna che Paolo Corsini resti al suo post». E conclude: «Chiederemo in commissione di Vigilanza Rai di sentire i vertici aziendali». Ruotolo ha condiviso una nota in cui ha definito la «Rai ridotta a megafono del governo Meloni», ma che «rimane un bene di tutti». E per questo chiede le dimissioni del direttore dell’approfondimento, ricordando l’episodio di Atreju: «Abbiamo bisogno di un’informazione libera e indipendente».
(da agenzie)
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Ottobre 26th, 2024 Riccardo Fucile
COMUNE COMMISSARIATO, SI DIMETTONO SETTE CONSIGLIERI DOPO LE POLEMICHE LEGATE A UNA FESTA HARD
Una festa privata a tema sadomaso che si sarebbe dovuta tenere in un castello medievale la scorsa estate ha provocato una crisi di Giunta, la decadenza del sindaco Giuseppe Restiani e il commissariamento del Comune.
A Varano dè Melegari, in provincia di Parma, sette dei dieci consiglieri comunali (quattro di maggioranza e tre di opposizione) si sono dimessi facendo decadere l’Amministrazione di centrodestra.
Il prefetto Antonio Lucio Garufi oggi ha nominato un commissario, il viceprefetto Adriano Eustachio Coretti, che guiderà il Comune fino alle prossime elezioni previste nel 2025, un anno prima della scadenza del mandato che era stato consegnato dagli elettori a Restiani nel 2021.
Lo scontro politico è nato in estate, dopo l’organizzazione, poi sfumata, di un evento a tema Bdsm (bondage, dominazione e sadomaso) da parte di un’associazione bolognese che avrebbe dovuto svolgersi nel castello medievale Pallavicino di Varano.
Prima il via libera del Comune, che aveva poi annullato l’evento. Le polemiche erano nate perché già cinque anni prima un appuntamento analogo era stato organizzato nel castello della Valceno e gli atteggiamenti e l’abbigliamento delle persone che avevano raggiunto il paese avevano creato polemiche.
Una serie di comunicazioni pubblicate sui social dall’associazione che riguardano il sindaco e un suo assessore hanno ulteriormente alimentato la tensione. “Fingendo sdegno per la riedizione di un evento già tenutosi in paese senza alcuna conseguenza – dice il sindaco – una parte politica della mia maggioranza ha cercato solo un modo per porre fine alla legislatura”.
Così le dimissioni dei gruppi consiliari Dignità e Trasparenza e Varano Domani hanno decretato la fine anticipata del mandato. “Le ragioni di questa sofferta, seppur necessaria, decisione – scrivono i consiglieri – nascono lontane nel tempo ed hanno trovato il loro culmine nell’azione, carbonara, che avrebbe dovuto portare alla realizzazione dell’evento ormai ben noto a tutti. Tale ultimo accadimento non è certo il punto di partenza, casomai, il punto di arrivo di un modo di fare politica, di fare squadra che ha caratterizzato questi due ultimi anni di mandato”.
In particolare, i consiglieri dimissionari avevano chiesto al primo cittadino se l’iniziativa era stata proposta dall’associazione bolognese oppure dal sindaco, lamentando la mancanza di trasparenza nella gestione della vicenda e ritardi nel fornire spiegazioni al Consiglio e ai cittadini.
(da agenzie)
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