Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
LA CORTE DI APPELLO DI GENOVA RECEPISCE QUANTO STABILITO DALLA CASSAZIONE: REATO DI LESIONI VOLONTARIE AGGRAVATE
La Corte di appello di Genova ha condannato a un anno di reclusione per lesioni volontarie aggravate i quattro poliziotti del reparto mobile di Genova che picchiarono a calci e manganellate il giornalista di Repubblica Stefano Origone durante gli scontri tra manifestanti antifascisti e polizia in piazza Corvetto il 23 maggio 2019 in occasione di un comizio di Casapound.
Il sostituto procuratore generale Alessandro Bogliolo aveva chiesto una condanna a 9 mesi per due degli agenti e a un anno e due mesi per gli altri due. Per tutti la pena è sospesa dalla condizionale.
Si tratta del processo d’appello bis per il pestaggio di piazza ai danni del giornalista. Ed stata proprio la procura generale di Genova a presentare ricorso in Cassazione contro la condanna giudicata troppo lieve.
I quattro agenti che avevano scelto il rito abbreviato ed erano stati condannati in primo grado a 40 giorni di reclusione perché per la giudice si trattava di lesioni ‘colpose’.
In appello la sentenza era stata ‘corretta’ trasformando la reclusione (che comunque prevedeva ovviamente la condizionale) con una sanzione di 2.582 euro. La riforma della sentenza applicata dalla Corte d’appello era stata motivata con il fatto che le lesioni ‘colpose’ sono un reato di competenza del giudice di Pace, che non può applicare pene detentive.
Il sostituto procuratore generale Alessandro Bogliolo invece nel ricorso contro la sentenza aveva ribadito che si trattava di lesioni ‘dolose’ chiedendo una condanna più pesante, La quarta sezione della Cassazione un anno fa aveva però definito la sentenza “contraddittoria” e “carente” rispetto ai fatti.
In particolare secondo gli Ermellini “non vi era stato da parte del giornalista alcun accenno di aggressione ma neppure di reazione, se non di mera difesa” “non si è individuato alcun elemento concreto dal quale inferire, con valutazione ex ante, il tipo di pericolo che gli agenti possano aver identificato”. Inoltre, avevano definito “palesemente fuorviante” il fatto, riportato nella sentenza della gip Silvia Carpanini, che i poliziotti avessero scambiato il giornalista per un manifestante visto che la scriminante della legittima difesa di deve fondare in ogni caso “su uno degli elementi tipici della causa di esclusione della punibilità e non sulla qualifica della persona offesa”.
Insomma, i giudici in un passaggio avevano sottolineato come visto che Origone non aveva messo in atto nessun tipo di aggressione o resistenza, nemmeno passiva, non doveva essere picchiato come avvenne anche mentre si trovava inerme a terra, neppure se fosse stato un manifestante e non un giornalista.
Le motivazioni della condanna saranno depositate tra 90 giorni, ma quasi certamente sono stati accolti proprio i rilievi della suprema Corte.
Soddisfatto l’avvocato Cesare Manzitti, che assiste il giornalista Origone e che a sua volta aveva presentato ricorso in Cassazione. I poliziotti, difesi dagli avvocati Paolo Costa, Rachele De Stefanis e Alessandro Vaccaro presenteranno un nuovo ricorso in Cassazione.
“Stavo solo facendo il mio lavoro e non avevo alzato un dito contro nessuno – il commento del giornalista Stefano Origone dopo la sentenza – e i giudici hanno riconosciuto che quello che è accaduto non poteva essere considerato come un eccesso di legittima difesa”. Il ministero a cinque anni dai fatti non ha ancora risarcito il giornalista, che era stato costretto ad assentarsi per molti mesi dal lavoro a causa delle lesioni riportate. Per lui fino ad oggi era stata disposta solo una provvisionale da 5 mila euro.
(da Genova24)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
IL MOTIVO È SEMPLICE: PIÙ SI VA AVANTI, PIÙ L’ITALIA INVECCHIA E QUALCUNO DEVE PAGARE LE PENSIONI (GIORGETTI DIXIT)
Il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, lo ha spiegato chiaramente lo scorso 7 ottobre in occasione della sua audizione sul Piano strutturale di bilancio segnalando «un’amplificazione dello squilibrio tra nuove e vecchie generazioni» che avrà sempre di più un impatto sulle politiche previdenziali del Paese
Da qualche giorno a causa dell’Inps, che senza averne l’autorizzazione ha anticipato nelle sue simulazioni l’innalzamento a 67 anni e 3 mesi dell’età della pensione a partire dal 2027, su questo tema si è scatenata la bagarre. Tant’è che oggi, secondo quanto si è appreso venerdì, a margine di una iniziativa dell’Inps in programma a Cagliari il ministro del Lavoro Marina Calderone chiederà conto dell’accaduto al presidente dell’istituto Gabriele Fava ed al direttore generale Valeria Vittimberga.
Il balzo in su dell’età pensionabile allarma sindacati e opposizione e pone il governo davanti a un bivio. In realtà la situazione, come emerge dai documenti dell’Inps a cui il presidente dell’ente rimanda oggi senza voler entrare nella polemica aperta dalla denuncia della Cgil, è ben più seria. Perché l’età della pensione è destinata a continuare a salire automaticamente di 3 mesi ogni due anni anche dopo il 2027.
Come ha evidenziato Chelli, infatti, il numero degli anziani di qui ai prossimi anni è destinato a crescere in maniera significativa tanto che «nel 2031 le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 27,7% del totale secondo lo scenario mediano (dal 24,4% del 2023 e fino al 34,5% nel 2050)».
Rispetto agli attuali 67 anni, si passerebbe a 67 anni e 3 mesi dal 2027, a 67 anni e 6 mesi dal 2029 e a 67 anni e 9 mesi a decorrere dal 2031, per arrivare a 69 e 6 mesi dal 2051». Ed in parallelo, come ha fato poi capire l’Inps, aumenterebbero di 3 mesi ogni 2 anni anche i requisiti per accedere alle pensioni anticipate per cui oggi sono richiesti 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi le donne).
Ovviamente si può sempre cambiare strada, ma se il governo intende riproporre il blocco dell’aumento dell’età e dei contributi dovrà provvedere a coprire il mancato risparmio che questo meccanismo comporta ben sapendo che tre mesi di pensione degli italiani, ai valori di oggi, valgono circa 2,3 miliardi di euro.
Nella sua relazione Chelli richiamava esplicitamente le ultime previsioni sul futuro demografico dell’Italia rese note dallo stesso Istat alla fine dello scorso luglio, previsioni che dal punto di vista previdenziale contengono un altro dato esplosivo: il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà infatti da circa tre a due del 2023 a circa uno a uno nel 2050.
Non a caso sempre in quei giorni il ministro dell’Economia Giancrlo Giorgetti aveva preso atto che «nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale» gelando tutte le aspettative di un ammorbidimento dei meccanismi di uscita anticipata dal lavoro.
(da La Stampa)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
DE LUCA PUNTA A CREARSI UNA BASE DI CONSENSO NAZIONALE, IN VISTA DELLE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE… MA ALLA SUA ETA’, NON POTREBBE STARE DIETRO AI NIPOTINI?
Il format è stato sperimentato questa estate. Vincenzo De Luca, testimonial contro l’Autonomia differenziata, in giro nel profondo nord. Per denunciare a modo suo gli effetti nefasti del regionalismo in salsa leghista tra Como, Verona, Bergamo. Al di là del favore della platee incrociate, l’esito in Corte costituzionale che impallinò a novembre la legge Calderoli, deve aver galvanizzato non poco il presidente della Campania.
Che ora sta studiando il tour per raccontare “l’ingiustizia” subìta in queste ore sul terzo mandato. Il plot è ormai noto: il governo che impugna la norma regionale che gli consente di ricandidarsi, che «ha paura di far votare gli elettori», la legge non «uguale per tutti» visto che la simil norma in Piemonte è stata ignorata dalla premier Meloni.
La campagna d’Italia, ma soprattutto in Campania – anticipano i suoi – è stata annunciata venerdì: «Utilizzeremo i mesi che abbiamo davanti – ha detto il governatore per promuovere una grande esperienza democratica nel nostro Paese: mesi di battaglia politica nazionale. Cercheremo di spiegare ai giovani cosa è una democrazia viva e non quella della politica politicante».
Altro che asserragliato nel Palazzo: pronto a calcare le piazze, e i palcoscenici delle tv nazionali. «Governatore di strada», è la battuta che circola all’ombra del Vesuvio. Come contrappasso rispetto all’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris – nemico giurato all’epoca di De Luca – che si inventò la formula quando fu sospeso dalla carica per effetto della legge Severino.
Se poi dovesse andar male in Consulta, questo movimento d’opinione potrebbe tradursi in una base di consenso verso le Politiche tra due anni: De Luca candidato a Roma, giocoforza. «Ma mica fa un partito», premettono i suoi. Una exit strategy sì. Che poi è quella che cercano in tanti in Campania, a partire dal centrosinistra.
Perché con la corsa solitaria di De Luca, in attesa del verdetto della Consulta, si complica la ricerca di un candidato unitario per M5s e Pd. Sarebbero in ribasso le quotazioni di Roberto Fico, ex presidente della Camera: nome che per la Regione sembra la naturale prosecuzione del “modello” già sperimentato al Comune di Napoli con Gaetano Manfredi.
Il fatto è che negli ultimi incontri tra il commissario Pd campano, Antonio Misiani, e i partiti della coalizione – Azione, Italia Viva, Verdi – sono fioccati dubbi su una candidatura M5s. Non solo.
Nel Pd e nei 5stelle c’è ancora chi spera in una “trattativa” con De Luca per farlo desistere. Come? Togliendo magari dal tavolo Fico inviso al governatore. E offrendo garanzie a De Luca sui progetti a lui cari, 4 miliardi di fondi di coesione: con un nome più dialogante.
L’identikit porta per ora al vicepresidente della Camera Sergio Costa. Mentre a destra – con Fratelli d’Italia che punta il Veneto – c’è Forza Italia che reclama la Campania: scalpita l’eurodeputato Fulvio Martusciello.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
“GLI STUPIDI VEDONO IL BELLO NEL BELLO, GLI INTELLIGENTI NEL CAOS”
Oliviero Toscani è morto lunedì 13 gennaio a 82 anni: alcuni mesi fa aveva raccontato di soffrire di una malattia rara, l’amiloidosi. Con lui se ne va un artista geniale e irriverente, che come pochi altri ha saputo raccontare in immagini l’attualità, anche nei suoi risvolti più difficili. Lo ha fatto scattando fotografie iconiche dal messaggio potente, espresso in modo spesso crudo, ma necessario per scuotere davvero le coscienze e spingere a una riflessione più ampia, capace di andare oltre l’immagine in sé.
Nicolas Bellario ha a lungo lavorato col geniale fotografo milanese. Raggiunto telefonicamente da Fanpage.it, ha ricordato il suo maestro.
“Era un uomo difficile”
Il privilegio di lavorare con un professionista così geniale si scontrava con la difficoltà di avere a che fare con una persona certamente complessa: impossibile stare al suo passo.
Nicolas Bellario difatti ricorda: “Dal punto di vista personale era un uomo molto difficile, capace di arrabbiature epiche, ma divertentissimo, intelligentissimo, colto e soprattutto molto generoso. Dal punto di vista della fotografia io credo che lui sia uno dei pochissimi nomi italiani del Novecento che veramente verranno ricordati nella storia dell’arte, anche se lui dall’arte si è sempre voluto un po’ discostare. È stato un grande rivoluzionario e soprattutto ha sempre fatto politica attraverso le immagini e se c’è una cosa che noi gli dobbiamo è di continuare questa sua battaglia”.
“Tutti devono saper fare tutto”
Nel percorso professionale di Nicolas Bellario c’è molto, dell’impronta di Oliviero Toscani, che sin dall’inizio (e anticipando i tempi) ha concepito arte, fotografia, comunicazione, media e pubblicità come un tutt’uno. I suoi esordi professionali nel mondo dell’arte risalgono proprio alla factory La Sterpaia, la scuola-laboratorio di Toscani dove è arrivato nel 2006, 22enne. Poi ha proseguito sperimentando diversi linguaggi nel mondo della comunicazione: le mostre con Arthemisia, la tv con Sky Arte e poi la radio, i podcast, il giornalismo. Nel 2022 ha curato l’esposizione Professione fotografo, per celebrare gli 80 anni di Toscani, a cui è sempre rimasto profondamente legato.
Da lui ha imparato una lezione importante: “Tutti devono saper fare tutto. Io da lui ho imparato che la vita è fatta di approcci orizzontali e non verticali. È una balla enorme, che ci si deve concentrare solo su una cosa. Non è vero, perché se tu hai un obiettivo in mente, ci sono tanti mezzi per raggiungerlo. Lui mi ha insegnato proprio questo”. Nella società moderna, dove tutto è veloce e siamo perennemente connessi, con uno smartphone in mano e un tablet nell’altra, siamo forse più abituati a una concezione dinamica di comunicazione, che non era affatto così immediata 50 anni fa.
Eppure Olivieri Toscani sin dall’inizio si è sempre mosso così: “Lui ha iniziato a farlo da subito, quando non era così scontato e semplice. Adesso è facile, ma lui l’ha capito molto prima degli altri. Il mondo ancora deve accorgersi di quanto lui sia stato un anticipatore. Ha veramente cambiato le regole del gioco nel campo della fotografia, della pubblicità. Ha preso tutte queste cose, le ha mischiate insieme e ne ha fatto qualcosa di grande. Lui diceva di non accorgersi, di essere così avanti sui tempi. Ma io sospetto che invece sotto sotto lui sapesse, sapesse bene il valore che aveva nel mondo. Il mondo cambiava con lui: era un tale anticipatore che sembrava che in qualche modo il mondo lo inseguisse. Diceva delle cose che sembravano delle stupidaggini e poi dopo 4-5 anni ti accorgevi che aveva ragione. Ma a quel punto lui era già scappato altrove”.
“Sembrava un animale in gabbia”
La malattia è stata una condanna per un uomo come lui così dinamico. Ma se il suo corpo era stato in qualche modo costretto a rallentare, lo stesso non era accaduto alla sua mente: “Io l’ho visto martedì l’ultima volta ed era lucidissimo, combattivo: abbiamo parlato di tante cose, anche di politica”. Difficile accettare l’amiloidosi: “La malattia non l’ha vissuta bene, perché lui ha sempre fatto del muoversi e del non stare mai fermo la sua vera forza. Questa malattia lo costringeva a stare fermo: era arrabbiato, sembrava un animale in gabbia e le bestie ingabbiate sono tristi. Però lucidissimo, sempre sul pezzo e credo che questo lo abbia fatto arrabbiare ancora di più, perché aveva la mente che viaggiava e il corpo costretto in una poltrona. Questo lo ha lentamente ucciso”.
“Era esagerato in tutto”
Da uomo senza peli sulla lingua, che non ha mai fatto passi indietro quando si è trattato di esprimere un pensiero sincero seppur divisivo, Oliviero Toscani è stato spesso al centro di accese polemiche. Non sono mancate le critiche per alcune sue esternazioni: “Lui delle critiche se ne è sempre fregato. Non so come facesse, ma aveva veramente una scorza dura. In qualche modo lui sapeva di navigare nella direzione giusta. Era spesso offensivo, ma era esagerato in tutto e quindi lo era anche nella parola. Parlava molto, ma dava molto peso alle parole”.
“Gli stupidi vedono il bello solo nelle cose belle”
Nella sconfinata produzione di un talento di questa portata diventa difficile isolare una sola immagine più di tutte: “È il suo lavoro che parla” ha commentato Nicolas Ballario. Però ricorda bene una foto di cui ultimamente Oliviero Toscani parlava spesso: “Soprattutto nell’ultimo periodo la citava tantissimo. Era una fotografia fatta negli anni ’70 a Carmelo Bene. A quella fotografia era veramente molto legato. Diceva che doveva fotografarlo per Vogue, era un giorno di pioggia. Carmelo Bene arrivò sul set con delle pantofole di velcro bagnate, una giacca abbottonata male, la patta aperta, tutto zuppo d’acqua. Lui l’ha guardato un po’ stranito e Carmelo Bene col suo vocione gli ha detto: C’è qualcosa che non va? Oliviero diceva sempre che in quel momento aveva capito che gli stupidi vedono il bello solo nelle cose belle, mentre per essere intelligenti bisogna andare al di là, bisogna andare anche nel caos, nel disordine, nelle cose che apparentemente non ci sembrano belle”.
(da Fanpage)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
E’ IL FRATELLO MINORE DI YAHYA SINWAR_ E’ LUI IN QUESTE ORE CHE STA TRATTANDO
Quando ad ottobre Israele ha trovato ed eliminato dopo un anno di guerra Yahya Sinwar, capo delle milizie di Hamas, molti pensavano fosse arrivata l’agognata svolta nel conflitto di Gaza. Tre mesi dopo, la realtà sul terreno nella Striscia racconta un’altra storia. A succedere all’architetto del 7 ottobre è stato il fratello minore Mohammed. Sulla cinquantina, meno noto del fratello, il «giovane» Sinwar si è dimostrato in questi mesi un leader almeno altrettanto cocciuto ed efficace nella guida del movimento terroristico, secondo quanto riporta il Wall Street Journal. È lui, in queste ore, a tenere col fiato sospeso il Medio Oriente e non solo sulla possibile fine della guerra: fonti israeliane fanno sapere che l’accordo per il cessate il fuoco negoziato a Doha è sostanzialmente cosa fatta, manca solo il suo via libera. Ma soprattutto, è lui ad aver guidato la strategia di «ricrescita» di Hamas dalle macerie che ha messo in seria difficoltà sul terreno le truppe israeliane negli ultimi mesi. «Siamo in una situazione in cui la velocità a cui Hamas è in grado di ricostruirsi è maggiore di quella a cui l’Idf la sta sradicando», ammette parlando con la testata Usa l’ex generale israeliano Amir Avivi. Riferimento alla strategia di rigenerazione dalle macerie che il movimento terroristico ha messo in atto sin dall’inizio dell’offensiva israeliana, ma reso particolarmente efficace – a quanto sembra – da quando Sinwar Jr. ha raccolto il testimone dal defunto fratello.
Così Hamas si rigenera
La Striscia è ormai ridotta in macerie, appunto, e il dolore e la rabbia della popolazione palestinese sono l’ovvia benzina della rigenerazione di odio verso il nemico giurato. Su questa base, secondo le fonti arabe e israeliane sentite dal Wsj, entra in gioco Hamas, con una strategia tanto cinica quanto efficace. I suoi militanti più «stagionati» – quelli che sopravvivono via vai ai raid di Israele – vanno in giro a reclutare nuovi combattenti, tipicamente promettendo loro quel che più serve oggi a chi vive nella Striscia: cibo, medicine, altri beni di prima necessità. Spesso le provviste cui attingono derivano dal saccheggio dei dispacci di aiuti umanitari ingresso nella Striscia. Un escamotage particolarmente rodato consiste nell’approcciare giovani palestinesi ai funerali di persone uccise dai raid israeliani o ad altre occasioni di preghiera. E la strategia paga. Dall’inizio della guerra a Gaza fonti sanitarie locali valutano siano morti oltre 46mila palestinesi – stime contestate sia verso l’alto che verso il basso da altri studi. Il bilancio non distingue tra civili e miliziani di Hamas, ma l’esercito israeliano sostiene di aver eliminato in questi 15 mesi di guerra circa 17mila terroristi e di averne arrestati migliaia di altri, su un «esercito» iniziale stimato attorno ai 30mila effettivi. Rivendica inoltre di aver di fatto distrutto la struttura paramilitare del movimento originariamente organizzata in 24 battaglioni. Perdite certamente gravi, cui va aggiunta la decapitazione del partito-milizia, con l’uccisione nei mesi scorsi prima di Ismail Haniyeh a Teheran (31 luglio), poi di Yahya Sinwar a Khan Younis (17 ottobre). Eppure sotto la guida del fratello Mohammed, tramite la strategia sul terreno evocata sopra, Hamas avrebbe rinfoltito i ranghi, formando ed inserendovi solo negli ultimi pochi mesi centinaia, forse migliaia di nuovi combattenti.
Il ciclo della violenza e i dubbi «congeniti» sulla guerraEcco perché il generale Avivi sospetta che Hamas stia ricostruendosi più rapidamente di quanto Israele riesca a sradicarlo. Ed ecco spiegato in buona parte perché Israele continua a dover rispedire ciclicamente il suo esercito in porzioni della Striscia che aveva già ritenuto «bonificate» nei mesi scorsi, soprattutto nel nord di Gaza. Un ciclo di violenza potenzialmente senza fine che, oltre a rendere la vita per i civili delle zone colpite un inferno e a mettere in continuo pericolo gli eventuali ostaggi nei paraggi, finisce per rendere «esauste» le stesse truppe israeliane, nota il Wsj sulla base dei colloqui condotti. Era il cortocircuito verso il quale puntavano il dito allarmati non solo gli Stati Uniti, ma pure pezzi rilevanti dell’establishment politico e di difesa israeliano sin dall’inizio della guerra. «Hamas è un’organizzazione che riflette delle radicate attitudini sociali, basata su delle idee. È molto difficile sradicare un’organizzazione di questo genere», ammoniva per tutti dieci giorni dopo il 7 ottobre su Open l’analista israeliano Nimrod Goren. Suggerendo che anche negli apparati di sicurezza dello Stato ebraico ci fosse piena consapevolezza di questo limite «congenito» all’operazione di terra concepita da Benjamin Netanyahu.
La caccia al «giovane» Sinwar e l’assenza di un piano per il dopoguerra
È anche per questo dunque se la guerra si è trascinata tanto a lungo, sulla pelle dei civili palestinesi oltre che degli stessi soldati. «Stiamo lavorando alacremente per trovarlo», dicono ora fonti militari israeliane di Mohammed Sinwar. Ma morto un leader se ne fa un altro, e morto un miliziano – con ogni evidenza – pure. È la ragione per cui gli Stati Uniti hanno chiesto sin dal primo giorno della guerra a Netanyahu un piano chiaro per il dopo: senza un’idea e un investimento politico, era e resta la convinzione, la guerra proseguirà ad oltranza e, cosa ancor più grave, non centrerà l’obiettivo di rendere realmente Israele più sicuro. Solo un piano credibile e concertato con altri attori della regione per la gestione della Striscia dopo la fine della guerra potrebbe potenzialmente cambiare lo scenario. Trump avrà la forza e l’interesse di spiegarlo a Netanyahu meglio di quanto abbia fatto a vuoto per mesi Biden? O gli lascerà invece carta bianca su Gaza? La risposta, quella ufficiale, comincerà ad arrivare tra una settimana esatta.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
IL CASO A SAN GIORGIO A CREMANO: GLI STUDENTI HANNO RIVERSATO LA LORO RABBIA SUI PROFILI SOCIAL DEL PRIMO CITTADINO
«Par a capocchia o fra spero ca t sparn». Questo è solo uno e certamente non il più violento degli insulti subiti da Giorgio Zinno, sindaco di San Giorgio a Cremano per la decisione di non chiudere le scuole oggi, lunedì 13 dicembre, nonostante l’allerta meteo gialla in Campania. Sulla regione sferzano forti venti e la cima del Vesuvio si è tinta di bianco, ma nel Comune dell’hinterland napoletano gli istituti sono regolarmente aperti. Nonostante la rabbia di molti studenti che hanno riversato le loro ingiurie sui profili social del primo cittadino.
Gli insulti omofobi
C’è chi usa epiteti omofobi e chi gli augura la morte. Qualcuno scrive bestemmie e altri si limitano a dire che il sindaco non sa fare il proprio lavoro. Tutto in dialetto e tutto documentato da un post su Facebook del primo cittadino che illustra la situazione. «Cari concittadini, purtroppo in queste ore ho dovuto registrare una ondata di odio fatto da parte di decine di giovani del nostro territorio che mi accusano di non aver chiuso le scuole per il maltempo. Vi posto qui alcuni di questi vergognosi messaggi, che offendono me, ma anche la lingua italiana e rappresentano un segno del degrado dei nostri tempi», scrive Zinno.
Sono perlopiù minorenni
Le foto profilo dei responsabili sono state oscurate, ma il sindaco assicura: «Sono, perlopiù, minorenni non controllati dai genitori, che pensano di poter utilizzare i social network pensando di non essere puniti per i propri vergognosi comportamenti: è nostro dovere dare, innanzitutto, un segnale di tipo educativo e, quindi, trasmetterò gli screenshot ai dirigenti scolastici del nostro territorio affinché più facilmente possano identificare i propri alunni e far loro una lezione di educazione civica». E aggiunge: «I messaggi che violano la legge saranno trasmessi direttamente alle forze dell’ordine: è difficile che io denunci, ma stavolta si è passato il limite ed è necessario che siano contattati i genitori».
«Dobbiamo spiegare ai ragazzi che la violenza non funziona»
La denuncia non è fine a sé stessa. Il primo cittadino coglie l’occasione per lanciare una riflessione collettiva: «Io ho tutta l’esperienza per non curarmene, ma i ragazzi vittima di bullismo possono trovare scampo da tanta violenza?». E aggiunge:« Se non ci occupiamo di questi giovani, continueranno a pensare che la loro idea personale vale più di quella di un esperto e dove la sopraffazione e la violenza valgono più di un ragionamento». Conclude Zinno: «Tutti noi dobbiamo lavorare, nelle famiglie, nelle scuole e nella società per spiegare ai ragazzi i valori della vita e della non violenza, altrimenti il futuro della società sarà sempre più buio e non certo per il maltempo».
(da Open)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
RESTARE LEADER DELLA LEGA O RESTARE AL GOVERNO COME SACCO DA PUGNI DELLA DUCETTA? LA CRISI POTREBBE ESPLODERE ALLE PROSSIME REGIONALI IN VENETO: SE ZAIA PRESENTASSE UN SUO CANDIDATO NELLA LIGA VENETA, SALVINI SCHIEREREBBE LA LEGA A SUPPORTO DEI “DOGE-BOYS” CONTRO IL CANDIDATO FDI DELLA DUCETTA, SFANCULANDO COSI’ L’ALLEANZA DI GOVERNO, O RESTEREBBE A CUCCIA A PALAZZO CHIGI, ROMPENDO IL CARROCCIO?
A che punto è la notte di Matteo Salvini, ora che il sole splende sui successi della signorina Meloni? Mentre la premier si fa benedire da Donald Trump, vanta la personale amicizia con Elon Musk, si bea degli onori che le sono stati tributati dopo la liberazione di Cecilia Sala, il povero “Capitone” non ne imbrocca più una.
Il ministro della “malavoglia” (copyright Filippo Ceccarelli), è da anni in difficoltà (a partire dell’era del governo Draghi), e oggi è talmente fragile politicamente da permettere a Giorgia Meloni di rifilargli tre ceffoni uno dopo l’altro senza battere ciglio: il congelamento dell’Autonomia differenziata, l’opposizione a qualunque apertura sul terzo mandato dei governatori e infine il no secco alla sua richiesta di voler tornare al Viminale.
Il fu truce del Papeete sogna ancora di riprendere la poltrona di ministro dell’Interno, non solo perché immagina di recuperare voti, come fu nell’anno pazzo del primo Governo Conte (2018-19), quando la Lega volò al 34,3%. Ma anche perché il ministero dei Trasporti e Infrastrutture, che immaginava essere un eldorado fatto di fondi Pnrr e tagli di nastro, si sta rivelando un inferno senza fine: dalle ferrovie alle autostrade.
Senza contare che l’opera principe, che il Mit dovrebbe portare a casa è il ponte sullo Stretto, un progetto faraonico e costosissimo per le casse al verde dello Stato, di cui non frega una suprema mazza agli ex militanti del secessionismo padano dell’era Bossi.
Salvini, da navigato mestierante della politica, incassa, fa buon viso a cattivo gioco, ma sa che corre il serio rischio di saltare in aria con l’implosione della Lega. E deve trovare assolutamente un’exit strategy per uscire dall’angolo in cui lo ha costretto, a forza di cazzotti, la Ducetta.
L’anestesia totale con cui la premier ha sostanzialmente bloccato l’Autonomia differenziata ha toccato un nervo scoperto nel Carroccio, visto che la riforma era l’ultimo simbolo ideologico e collante di potere che teneva insieme le varie anime del partito (Zaia arrivò a dire: “Senza l’autonomia salta tutto”).
Sul capoccione del genero di Denis Verdini aleggiano molte nubi: nella Lega ormai sono in molti a soffrire per una gestione del partito considerata suicida. Un ex fedelissimo di Salvini, come Massimiliano Romeo, è uscito allo scoperto e ha apertamente contestato la linea politica del suo segretario, arrivando a sfidarlo per la segretaria della Lega Lombarda (cuore del partito), costringendo Salvini, per la prima volta nella sua carriera da leader, a fare un passo indietro e a ritirare il suo candidato, il capogruppo al Pirellone, Luca Toccalini.
Il “viagra” politico che alle Euopee ha mantenuto l’erezione di Salvini al 9%, il generale Roberto Vannacci, si sta ritagliando una autonomia ideologica di ultradestra sempre più distante anche dalla stessa linea leghista. Forte delle sue 500mila preferenze, valse un +3% alla Lega alle Europee, il trombettiere del “Mondo all’incontrario” ha apertamente sconfessato, per la gioia dei governatori Zaia, Fontana, Fedriga, la linea della Lega sul terzo mandato: “Due sono sufficienti”.
Che i nervi dei big del partito siano tesi come una corda di violino, lo dimostra anche l’aspro botta e risposta tra Roberto Calderoli e Giorgia Meloni. In Cdm, il ministro degli Affari Regionali si è incazzato con la premier per la decisione di impugnare la legge della Campania sul terzo mandato: “Io questa responsabilità non me la prendo. deve essere l’intero Cdm a darmi il mandato”.
Persino il sempre mite Attilio Fontana ha tirato fuori la testa dal sacco e, in un’intervista a difesa del terzo mandato per i governatori, ha cucinato qualche polpetta avvelenata al suo leader, come il riferimento alla classe dirigente del territorio e all’autonomia che va rimessa all’ordine del giorno, ma soprattutto il siluro al ministro dei Trasporti e alla sua opera prediletta: “Il ponte sullo Stretto è un’iniziativa molto bella, ma c’è anche il Nord”.
Al coro di malcontento, ha aggiunto la sua voce il governatore del Friuli Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga, che in un’intervista alla “Stampa” ha mollato un calcione alle ambizioni di Salvini di tornare al Viminale elogiando il lavoro dell’attuale ministro, Matteo Piantedosi: “Sta facendo un ottimo lavoro, il ministero dell’interno è in buone mani”.
Ultima e non meno importante spina nel fianco per il vicepremier è il guazzabuglio che è venuto a crearsi in Veneto: l’impossibilità per Luca Zaia di ricandidarsi a governatore, e la bramosia di Fratelli d’Italia di conquistare la Regione chiave per la Lega, stanno esacerbando gli animi della base.
La Liga Veneta potrebbe, in aperta frattura con Giorgia Meloni e i suoi fratellini, presentare una “Lista Zaia”, con un candidato governatore vidimato dal “Doge” (si vocifera possa essere il sindaco Treviso, Mario Conte, suo fedelissimo)
Considerato il consenso di cui gode Zaia, una lista civica capitanata da un suo candidato, potrebbe addirittura vincere senza il sostegno di altri partiti: 4 anni fa la lista civica del presidente ottenne il 44,57% contro il 16,92% della Lega e il 9,55 di Fratelli d’Italia.
Davanti a un’opzione simile, cosa farebbe Matteo Salvini? Schiererebbe la Lega a supporto degli Zaia-boys, sfanculando il centrodestra, o resterebbe allineato e coperto al fianco della Giovanna d’Orco della Garbatella, perdendosi un grossissimo pezzo di partito? Certo, ogni analisi e possibile scenario sul Carroccio non possono prescindere da una considerazione di partenza. La fu Lega Nord non è e non sarà mai un partito “normale”.
Un partito nato sotto la guida carismatica di Umberto Bossi, è pasciuto con le idee secessioniste di Gianfranco Miglio e con Roma nemica numero uno. Correva l’anno 1996 quando a Venezia Bossi dichiarò: “Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”.
Dopodiché, da contenitore del malcontento del Nord, passando alle sfuriate antimeridionaliste fino agli anni di governo con Berlusconi e allo stradominio nelle regioni più ricche, è successo di tutto sul Carroccio, condito dalla parentesi del Trota, Belsito, le scope di Maroni, scandali e scandalucci fino al sogno salviniano di creare una Lega nazionale.
Fermo restando uno spirito staliniano di obbedienza cieca al capo, che in 34 anni ha permesso l’avvicendarsi di soli tre segretari (Bossi, Maroni, Salvini). Un unicum assoluto nel panorama italiano.
Morale della fava: non sappiamo quali saranno le mosse di Matteo Salvini nei prossimi mesi. Resterà a fare da punching ball per gli sfoghi muscolari di Giorgia Meloni o avrà un sussulto d’orgoglio e di sopravvivenza?
Di certo, dopo il ”golpetto” sulla spiaggia del Papeete, con cui, invocando ”pieni poteri”, fece saltare il governo gialloverde con Giuseppe Conte nell’estate del 2019, nessuno può sottovalutare l’imprevedibilità delle sinapsi del “Capitone”.
Una bella spada di Damocle che sballonzola sulla testolina della “Giorgia dei Due Mondi” che, all’apogeo internazionale e domestico, tra i salamelecchi della quasi totalità dei media e l’impotenza delle opposizioni, si ritrova in casa una bomba a orologeria pronta a esplodere.
(da Dagoreport)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
IL 41% DEGLI UNDER 35 CREDE CHE LE MOTIVAZIONI DEL “GIUSTIZIERE” SIANO FONDATE… È TALMENTE POPOLARE CHE FORMARE UNA GIURIA IMPARZIALE, CHE ARRIVI A UN VERDETTO UNANIME DI CONDANNA, POTREBBE RIVELARSI COMPLICATO
«Gli occhi di un killer? Di un visionario? Occhi abbandonati dall’amore? Appannati dalla paura? Alla ricerca di un significato? Gli occhi di Luigi Mangione sono telescopi, scrutano nel profondo delle nostre anime, vanno oltre tutto ciò che è falso, vedono attraverso le maschere».
Non solo un merchandising infinito, iniziato prima ancora che si conoscesse l’identità dell’assassino del capo di United Healthcare, Brian Thompson, stampando su t-shirt, felpe, tazze, le tre parole (negare, difendere, deporre) impresse sulle pallottole trovate sul luogo del delitto.
Un fenomeno che dopo il suo arresto è esploso con free Mangione stampato ovunque, il suo volto usato anche per i tatuaggi, messaggi d’amore («mamma, mi sono innamorata di un killer»), una copertina fake di Time che diventa manifesto o viene stampata su qualunque tessuto: l’uomo dell’anno, Donald Trump, sostituito dal “giustiziere” italoamericano «rivoluzionario della salute, guida del movimento per trasformare la sanità».
Così ora, mentre a New York vanno avanti le indagini e parte l’iter giudiziario che condurrà al processo, le autorità sono alle prese con una Mangione-mania che renderà difficile arrivare a una sentenza di condanna: per la legge americana i giurati selezionati devono essere privi di pregiudizi e la giuria, per assolvere o dichiarare la colpevolezza, deve esprimersi all’unanimità. Un solo dissenziente e cade tutto il procedimento.
Ma i timori provocati dall’onda di simpatia per Mangione vanno ben oltre le questioni processuali. Spaventano sondaggi come quello dell’Emerson College: una vasta maggioranza degli americani condanna l’assassinio ma, dividendo il campione per età emerge che se l’80% degli ultrasessantenni chiede una pena severa e il 13% giustifica il gesto di Mangione, tra i giovani (18-29 anni) le cose sono molto diverse: solo il 40% giudica inaccettabile l’assassinio, mentre per il 41% le motivazioni del “giustiziere” sono fondate
Se, poi, ci trasferiamo nelle migliori università d’America, quelle che dovrebbero formare le classi dirigenti del futuro, le cose vanno ancora peggio: a Princeton, accademia della Ivy League, una delle più blasonate d’America, un sondaggio tra 1500 studenti si è concluso col 25% che ha definito l’assassinio «totalmente giustificato», mentre per un altro 22% Brian Thompson meritava di morire.
Non si tratta solo di preoccupazione teoriche: nelle strade di New York sono comparsi manifesti col volto di almeno due capi di altre compagnie assicurative della sanità con su scritto Wanted. Da qui la veemente reazione di Jessica Tisch, capo della polizia della città («non è ammissibile celebrare un assassinio») e del sindaco Eric Adams («voglio vedere in faccia questo individuo che è venuto a compiere un gesto così efferato nella mia città»). Ma il democratico Adams – che ha già i suoi problemi tra incriminazioni e contrasti col suo partito – non è parso la persona giusta per fermare possibili imitatori di Mangione o per risvegliare le coscienze.
Intanto sociologi e criminologi scandagliano la sua vita alla ricerca delle cause profonde di un gesto estremo che sta avendo una risonanza enorme, superiore a quella di tanti altri “lupi solitari”: gli autoproclamati giustizieri di un Paese regno dell’individualismo nel quale, assenti organizzazioni terroristiche come le Brigate Rosse, sono stati i singoli ad avere la pretesa di innescare movimenti rivoluzionari con un gesto violento.
Luigi inizialmente è passato per estremista di sinistra, anche perché tra i primi suoi scritti arrivati alla stampa c’era un elogio del manifesto di Unabomber: il genio matematico Ted Kaczynski che per quasi vent’anni, alla fine del Novecento, inviò dal suo rifugio nel Montana lettere-bomba in giro per l’America: la sua personalissima campagna contro ogni sviluppo tecnologico e per il ritorno alla natura. In realtà Unabomber era un anarchico che aveva rifiutato le ideologie di sinistra. Poi, esplorando le tracce lasciate nel web, si è scoperto che Mangione, anche se spesso critico, era un assiduo frequentatore dei siti dei grandi influencer della destra, da Tucker Carlson a Joe Rogan, a Jordan Peterson
Anarchico anche Luigi? Secondo alcuni ad ispirarlo sarebbe stato addirittura Luigi Galleani, anarchico italoamericano di Boston che negli anni della Prima guerra mondiale scrisse un manuale per la costruzione di bombe rudimentali utilizzato da altri anarchici italiani della città per una serie di attentati. Anche Mangione aveva pensato di usare bombe, ma poi ha preferito la pistola stampata in 3D.
Negli altri casi non ne sono venuti fuori molti. Ma Mangione, uccidendo una sola persona, sta avendo un impatto molto superiore anche a quello di McVeigh, protagonista del più grave atto di terrorismo interno della storia americana (escludendo l’attacco jihadista di Al Qaeda dell’11 settembre 2001). Lui era in guerra contro uno Stato che aveva bollato come opprimente e voleva vendicare la strage dei seguaci della setta di David Koresh a Waco, in Texas.
Mangione, invece, uccidendo Thompson ha centrato un nervo scoperto dell’America: l’iniquità e l’inefficienza del sistema sanitario più costoso del mondo (brucia il 16,5% del reddito nazionale, il doppio dell’8,4% italiano) al servizio di una popolazione che è al 47esimo posto per aspettativa di vita (77,4 anni rispetto agli 83 dell’Italia), perfino dietro Cuba e Arabia Saudita. Un Paese nel quale il costo delle cure mediche è la prima causa di bancarotta e nel quale 14 milioni di cittadini sono gravati da consistenti debiti sanitari. Lasciando spazio al risentimento nei confronti di un sistema privato che, volendo garantire lauti profitti agli azionisti, tende a razionare le cure mediche garantite agli assistiti.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2025 Riccardo Fucile
L’ENNESIMO STOP AI CONVOGLI RIVELA LA CRISI DEL LEGHISTA
Non si capisce più tanto bene che cosa vuole Salvini dal governo, da Meloni, dalla Lega che contro ogni logica continua a invocarlo premier nel nome e nel simbolo. Per uno di quei paradossi che segnano la vita del potere – e quella dei potenti ancora di più – questa sua irresolutezza si è accentuata dopo l’assoluzione di Palermo. Così adesso è sempre meno chiaro che cosa il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture vuole dalla sua amministrazione, dal suo impegno, dalla sua carriera e, se è consentito, anche da se stesso – incertezza che per un uomo politico che ha superato i 50 anni costituisce un bel guaio.
Sul piano operativo è sopraggiunto il terzo stranguglione ferroviario in pochi mesi, su siti e giornali illustrato dai cartelloni luminosi densi di ritardi e cancellazioni. Ieri, il vice e super ventriloquo leghista Crippa ha garantito che Salvini lavora 14 ore al giorno; ma la penultima volta, a ottobre, quando Roma Termini e migliaia di viaggiatori erano piombati dentro l’ennesima paralisi, il ministro era intento a celebrare la festa dei nonni; e solo nel pomeriggio, ai margini di un evento, in tal modo ha ritenuto di auto-commiserarsi: «Sono anni che chiedono le mie dimissioni perché respiro e perché vivo».
E tuttavia lo snodo Salvini oltrepassa vittimismi, pantografi, chiodi, guasti elettrici, incendi e “sfiga”, come ha riassunto lui con indulgente approssimazione. C’entra e non c’entra il Viminale, desiderato, concesso, perduto, poi richiesto e non ottenuto, però intanto “sto bene dove sto”. Prima un rullio di tamburi sul nuovo e severo codice alcolemico della strada, poi le più insistite rassicurazioni che “non è cambiato nulla”, quindi auguri dal ministro intento a grattare la pancia a un cagnone. Per cui l’incertezza trascende i soliti strombazzamenti, le abituali contraddizioni, le capricciose impuntature, i tagli dei nastri tirati con i denti, la cravatta rossa alla Trump e la “Casa rossa” che sarebbe la nuova, provvida e comprensibilmente gettonata società di produzione di Francesca Verdini.
È la mancanza non solo di sbocchi a breve termine, ma anche e soprattutto di senso compiuto l’inconfessabile cruccio di Salvini, il ritrovarsi intrappolato fra Vannacci e il Ponte del perenne scetticismo, i sommovimenti lombardi e il terzo mandato di Zaia; per cui il personaggio rilutta, resiste, recalcitra, si offre, ci ripensa, si offende, insegue Musk, partecipa all’apericena a casa Meloni, ma poi diserta il Consiglio dei ministri e in definitiva sembra che faccia tutto di malavoglia.
Troppo e insieme troppo poco, come capita alle maschere. Potrebbe dirsi la fine di un ciclo o la crisi del settimo anno o giù di lì, in questo gli archivi, ma più in generale i confronti con il passato sono impietosi. Nel gennaio del 2019 il Capitano era il perno del governo gialloverde e la sorpresa della scena pubblica, sfoggiava uniformi, inaugurava protocolli di selfie post-comizio, divorava gagliardo biscotti alla Nutella, attaccava briga sui social assestando “bacioni” di sprezzo a J-Ax, a Baglioni, perfino alla pornodiva Valentina Nappi.
Un sito dal sintomatico nome de “Il Populista” lo ritrasse accanto a Padre Pio: «Notevole esperimento di psicologia sociale», commentò lo strategist Luca Morisi; ma è documentato che ad Afragola un signore (dal nome Francuccio e di mestiere venditore ambulante di calzini) gli baciò la mano. Qualche mese dopo Salvini ottenne alle europee il 34 per cento e quando, in omaggio alla malattia melodrammatica italiana, veniva accolto sui palchi dal “Nessun dorma” di Pavarotti, ecco, arrivò a chiedere i pieni poteri. È pur vero che tutto si dimentica. Ma oggi? A parte la lotteria permanente dei treni in ritardo o cancellati, durante le feste l’ex “Bestia” social si è compiaciuta di far notare che nel potente coro africano di apertura di “Mufasa, il Re Leone”, riecheggiano, per tre volte, le parole “per Salvini” – così la fiaba è servita, assai meno anzi per niente la realtà.
(da La Repubblica)
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