Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LUCA CIRIMBILLA, FEDELISSIMO DI GALEAZZO BIGNAMI (DEPUTATO MELONIANO CHE SI ERA VESTITO DA NAZISTA) E ASSUNTO NELL’UFFICIO STAMPA DI FRATELLI D’ITALIA ALLA CAMERA. CHE NE PENSA GIORGIA MELONI DI QUESTE SPARATE? … POI LA RETROMARCIA PATETICA: “I POST? LI AVEVO TOTALMENTE RIMOSSI DALLA MEMORIA”
Antisemita, filoputiniano, filo Assad, il tutto impreziosito da post omofobi dedicati («froci») e che Domani ha scovato sui suoi profili social. Luca Cirimbilla, ufficio stampa di Fratelli d’Italia alla Camera, mette in difficoltà l’immagine rassicurante di Giorgia Meloni che tra parenti, consanguinei e acquisiti, compagni di scuola e di militanza giovanile con fatica riesce a liberarsi di un’antica storia di chiara matrice.
Galeazzo Bignami ha lasciato la poltrona di vice di Matteo Salvini al ministero dei Trasporti ed è approdato al posto di capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, quella foto in divisa da nazista indossata con soddisfatto sorriso alla festa per l’addio al celibato ormai è un ricordo lontano.
Ha preso il posto di Tommaso Foti, missino dall’età di 16 anni, promosso ministro per il Pnrr al posto del democristiano Raffaele Fitto, l’unico della tribù di FdI non proveniente dalla destra missino e dunque spendibile in Europa.
La presidente Meloni aveva ricordato che «le radici profonde non gelano», frase del Signore degli Anelli. Nel caso di Cirimbilla attecchiscono lì dove non si vede. Nelle retrovie. «Il potere ha bisogno di gente che sa stare al microfono e di gente che regola la sintonia della radio», disse una volta Francesco Cossiga.
Ma a voler seguire lo schema cossighiano qui qualcosa si inceppa: gente che mentre regola il volume si mette anche al microfono e fa crollare l’immagine rassicurante che Meloni con fatica cerca di costruire intorno al suo partito postfascista.
C’è stato prima il caso del portavoce del ministro Lollobrigida, Paolo Signorelli, autosospeso per una chat con contenuti antisemiti. Poi le dimissioni da portavoce del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca dell’ex estremista nero Marcello De Angelis.
Ora nel gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera spunta il nome di Luca Cirimbilla, 43 anni, giornalista, ex militante del “Foro 753”, spazio gestito dall’estrema destra fascista nella capitale sgomberato nel 2005. È subentrato a Signorelli come capo segreteria quando Foti era capogruppo. Oggi è alla Camera come ufficio stampa di Bignami.
Cirimbilla è cresciuto in una Roma nostalgica insieme a Paolo Corsini e Federico Palmaroli (il disegnatore di meme della destra conosciuto come Osho). Nel 2006 è tra i protagonisti dell’iniziativa dell’università Roma Tre organizzata dall’allora ministro dell’Agricoltura Alemanno che terminò con diverse persone dei collettivi contuse.
Tra un comunicato stampa e l’altro, ha il vizio di twittare: post goliardici natalizi («No ve prego. I froci in televisione pure la sera di Natale no! Ebbasta») e posizioni politiche chiare contro Israele, in difesa della Siria di Assad, contro la Lega di Salvini.
Gli amici di Israele che Fratelli d’Italia difende, con rispettoso ossequio soprattutto dopo il 7 ottobre, Cirimbilla li definisce terroristi. «Israele nemico di tutti». «Israele terrorista!», «Israele usa fosforo bianco perché ogni anno ci rompe i coglioni con la giornata della Memoria?». Ma non solo: «Armi israeliane alle cosche, chissà cosa ne pensa il difensore di Israele alias “quel porco di Saviano”».
Dai post si possono rintracciare anche posizioni no-vax: «Ma se i vaccini sono sicuri perché esistono i “Benefici relativi ai danneggiati da vaccinazione”», chiede su X a Burioni. «Vaccinochiseloincula», ironizza.
Sulla Siria si rintracciano posizioni oblique che mettono in difficoltà il partito di governo che in questi giorni è cauto sulla situazione. Cirimbilla da tempo sostiene Assad il “macellaio di Damasco”: definito un eroe.
Il giorno in cui 59 missili Tomahawk lanciati da due portaerei al largo del Mediterraneo Donald Trump dà una svolta alla sua presidenza e a sei anni di guerra in Siria, il meloniano scrive: «Maledetti Usa. Avanti con Assad e Putin».
Per il presidente Putin ha infatti una passione particolare: «Addio maledettissimo Obama. Maledetto te e tutti quelli che pensavano – da cretini – che il tuo fottuto colore della pelle potesse rappresentare il cambiamento. Tu sparisci dalla storia mentre Assad e Putin spazzano via i terroristi che hai finanziato».
Putin «ultima speranza di odiare». «Questi gay te li fanno odiare anche se non vuoi. W Putin», scrive il giorno in cui viene approvata dal Cremlino la legge anti Lgbt.
Contattato da Domani, Cirimbilla ammette di essere lui l’autore di tutti i post, ma dice che li aveva «rimossi dalla memoria» e che «sono cose sguaiate da social network, che vanno evitate a prescindere ma che, ripeto, non mi rappresentano e che per di più risalgono a oltre dieci anni fa, e cioè ad anni in cui non avevo alcun tipo di incarico né ruolo in ambito politico».
I post tuttavia arrivano fino al 2021, non proprio dieci anni fa, insomma.
E poi c’è la matrice chiara. «Per essere antifascisti non bisogna essere stupidi, ma aiuta». «Non un sabato qualunque, ma un sabato italiano», posta il giorno in cui Rai Storia trasmette un documentario nostalgico su Mussolini.
L’uomo dell’ufficio stampa di Fratelli d’Italia nei suoi post non è morbido neanche con gli alleati: «Ecco la carta dove verranno stampate le 100mila firme raccolte dalla Lega contro il coprifuoco dopo che in Aula non ha votato per abolirlo», scrive nel 2021 allegando l’immagine di tre rotoli di carta igienica.
Al suo ex capo Foti, Cirimbilla, ha già augurato sui social «Buon lavoro ’presidente’, per sempre un ragazzo del Fronte». Un utente commenta: «Scusa dopo che hai lavorato per lui non ti porta con sé?». Nessuna risposta, solo un emoji, quella di un abbraccio. Chissà se questi post scovati da Domani faranno curriculum.
(da Domani)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
L’AMAREZZA DEL CLIENTE: “COLPA MIA, AVREI DOVUTO LEGGERE PRIMA I PREZZI”… MA DOVE STA SCRITTO CHE UN ESERCENTE PUO’ APPLICARE I PREZZI CHE VUOLE? ESISTE UNA LICENZA DEL COMUNE PER RILEVARE UN’ATTIVITA’ E UNA FEDERAZIONE CHE IN BASE ALLA CATEGORIA DEL LOCALE FISSA DEI PREZZI MASSIMI… SE POI SI FA FINTA DI NULLA SI E’ COMPLICI
Un panino, una pizzetta, un croissant, un litro d’acqua e due caffè. Prezzo? 86 euro. Sembra impossibile, ma questa è la cifra che ha dovuto pagare un avvocato che ha offerto la colazione a una cliente all’Antico Caffè Greco, noto locale del centro di Roma in attività dl 1760. In attesa di una udienza, i due sono usciti a mangiare un boccone che si è rivelato ben più salato del previsto. A raccontarlo è proprio l’avvocato all’edizione romana del Corriere della Sera ammettendo di non aver guardato i prezzi chiaramente indicati sul menù e consolandosi sapendo di essere seduto allo stesso bar di Gabriele D’Annunzio e del drammaturgo russo Gogol, di Byron, Wagner, Leopardi, De Chirico e Goethe.
La lezione: «Bisogna sempre guardare il menù prima di ordinare»
«Almeno oggi ho imparato qualcosa: bisogna sempre guardare il menù prima di ordinare. Certo la lezione è stata molto cara». Quanto cara? Il panino con la bresaola è costato 20 euro, circa come due piatti di pasta in una trattoria di Roma. I caffè sono venuti 7 euro l’uno. Il croissant salato 16. E per mandare giù il tutto, l’acqua a 16 euro al litro, come un buon vino. «Mi illudo di aver mangiato quel croissant nella stessa sedia e tavolo dove il sommo poeta, Gabriele D’Annunzio, tra i miei preferiti, si è formato», commenta. E si ripromette: «Lo metterò in una teca, perché nessun cliente abbia a dire un giorno che non sono generoso».
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
MUSK CONDIVIDE LA DIRETTA DEL CONGRESSO SU X… PROTESTE IN PIAZZA, IL CONGRESSO INIZIA CON DUE ORE DI RITARDO A CAUSA DI DECINE DI BLOCCHI STRADALI… E’ IL PREZZO CHE PAGANO LE DEMOCRAZIE PAVIDE QUANDO PERMETTONO L’ESISTENZA DI PARTITI CHE CONTRASTANO CON LA COSTITUZIONE
La leader di Afd Alice Weidel è ufficialmente la candidata cancelliera del partito in vista delle elezioni in Germania del 23 febbraio 2025. La scelta è avvenuta nel corso del congresso di Alternative für Deutschland, tenutosi oggi a Riesa, in Sassonia.
L’evento, iniziato con un ritardo di due ore a causa delle proteste contro il partito di estrema destra, è stato trasmesso in diretta su X dalla stessa Weidel che pochi giorni fa è stata protagonista di una conversazione sul social con Elon Musk.
L’imprenditore sudafricano ha a sua volta condiviso lo streaming facendo crescere vertiginosamente il numero degli spettatori mentre dal cancelliere uscente Olaf Scholz sono piovute critiche per l’influenza che Musk sta avendo sulla scena politica tedesca.
Grazie alla visibilità offerta da Musk, ad assistere online alle oltre tre ore di evento sono stati più di 400 mila spettatori. L’imprenditore ormai sostiene apertamente il partito di estrema destra, tanto che nei giorni scorsi ha affermato che «solo Afd può salvare la Germania». La partecipazione dal vivo è stata più complicata, a causa di decine di blocchi stradali che hanno ritardato l’arrivo dei politici e degli spettatori facendo iniziare il congresso alle 12 anziché alle 10. Bloccata nel traffico anche l’auto con a bordo Weidel.
In seguito all’elezione avvenuta per alzata di mano, la leader di Afd ha espresso esplicitamente la sua gratitudine all’imprenditore e futuro membro di spicco dell’amministrazione statunitense: «Vorrei ringraziare Elon Musk – ha dichiarato – per aver trasmesso in streaming il nostro congresso, consentendo a tutti di conoscere le nostre politiche. Freedom of speech! Noi siamo per la libertà di espressione in questo Paese». Tra i temi principali affrontati da Widel nel congresso, quello dell’immigrazione e dei confini. In caso di un governo a guida Afd «il messaggio dovrà essere chiaro: le frontiere della Germania sono blindate», ha dichiarato Weidel. E ha aggiunto: «Vogliamo cancellare ogni forma di sostegno per coloro che non hanno diritto di restare e realizzare un rimpatrio in grande stile. Voglio essere molto chiara: se dobbiamo chiamarla re-migrazione, allora significa davvero re-migrazione»
Ma l’ipotesi appare comunque complicata. I consensi di Afd sono aumentati raggiungendo cifre intorno al 20%. Tuttavia, nessun altro grande partito sembra disposto ad alleanze con l’estrema destra. Protestano anche le università, che sui social hanno abbandonato in massa i profili di Afd. E dal congresso del Partito Social Democratico (Spd) protesta il cancelliere Scholz contro l’influenza di Musk: «Dall’America, determinate forze lavorano in modo mirato per distruggere le nostre istituzioni democratiche occidentali».
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
“NON VIAGGIATE SE NON E’ NECESSARIO”… CIRCOLAZIONE RIPRESA SOLO NEL POMERIGGIO… UN MINISTRO IMPRESENTABILE
Un guasto alla linea è elettrica ha compromesso la circolazione dei treni nel nodo di Milano con ripercussioni sulle linee che attraversano, iniziano o terminano nel capoluogo meneghino, da e verso Venezia, Genova, Torino e Salerno. Trenitalia ha fatto sapere che la circolazione nella Stazione Centrale di Milano è stata riattivata intorno alle 15. Il guasto sarebbe stato causato da due treni in transito nello snodo meneghino, che avrebbero danneggiato la rete elettrica aerea. «L’intervento dei tecnici di RFI ha permesso di ripristinare la piena disponibilità dell’infrastruttura anche da e per Bologna, dopo la riattivazione dalle 10.30 delle linee da e per Venezia e Genova», scrive in una nota Trenitalia, che ha anche disposto il rimborso integrale per chi ha rinunciato al viaggio o non è riuscito a raggiungere la sua destinazione. Decine i treni i ritardo e numerosi quelli cancellati alla Stazione Centrale, epicentro dei disagi dalle 7 di questa mattina, quando un treno in uscita ha provocato il problema ai cavi dell’alta tensione che i tecnici stanno risolvendo dalle 9. Tra le 10 e le 11, è ripresa a singhiozzo la circolazione lungo alcune linee. In particolare quella per Venezia, e parzialmente lungo quella per Genova. Ma sono ancora molti i treni in ritardo da smaltire.
I ritardi registrati variano tra i 30 e i 160 minuti, provocando disagi per centinaia di passeggeri sulle linee ferroviarie che passano da Milano, in particolare quelle con destinazione Genova, Venezia, Napoli, Salerno e Torino. Trenitalia ha diramato la lista aggiornata dei treni che hanno subito vari
Trenitalia ha invitato a non viaggiare in treno a meno che non sia strettamente necessario. «Si consiglia di evitare o limitare gli spostamenti in treno a quelli strettamente necessari e di riprogrammare i viaggi rinviabili», si legge nella nota del vettore ferroviario che scrive di «verifiche tecniche alla linea elettrica». azioni di percordo, ritardi e cancellazioni.
(da agenzie)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
“BETTINO ERA UN RICORDO INGOMBRANTE TRA I FILOCOMUNISTI, SIA IN PARTE TRA I FILOBERLUSCONIANI. RAPPRESENTAVA UN PESO INUTILE DI CUI LIBERARSI”… AMATO E GLI ALTRI SOCIALISTI “TRADITORI E IGNAVI”… LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO MERCOLEDÌ 15 GENNAIO A ROMA
Estratto del libro “Craxi, l’ultimo vero politico” di Aldo Cazzullo pubblicato dal Corriere della Sera
Dal giornale mi telefonarono la domenica sera. In questi casi le chiamate sono sempre di poche parole: «Craxi sta male, dicono che sia grave, parti subito per Hammamet».
Arrivammo a Tunisi il giorno dopo. Era un tempo in cui i quotidiani italiani erano ancora ricchi. Gli inviati viaggiavano molto, spesso diventavano amici tra loro. Da quel punto di vista, la trasferta tunisina fu fortunata. Sull’aereo c’era Fabrizio Roncone del «Corriere della Sera», che oggi è per me persona di famiglia.
C’era Daniele Mastrogiacomo di «Repubblica», anche lui destinato a diventare un amico caro, per cui avrei trepidato al tempo del suo rapimento in Afghanistan e della sua ammirevole resistenza nelle mani dei talebani. E c’era uno dei giornalisti più simpatici di tutti i tempi, Vittorio Dell’Uva del «Mattino» di Napoli, che rendeva gradevoli persino cose abbastanza insopportabili come le barzellette.
Sul posto, poi, c’era già da giorni l’inviato del «Giornale», il mio fraterno amico Gianni Pennacchi, destinato a diventare un uomo-chiave di questa storia.
La prima cosa che mi colpì in quella Tunisi di fine ottobre, oltre al caldo innaturale, furono le strade piene di buche. L’Italia di allora era ancora un Paese ricco, almeno abbastanza da potersi permettere strade curate e relativamente sicure. La Tunisia di fine millennio faceva a un occidentale l’effetto che oggi può fare Roma e in genere l’Italia a un turista americano.
A Tunisi scendemmo in un albergone impersonale da sceicchi, l’Abu Nawas, con i marmi, le fontane e le scale mobili nella hall. Su suggerimento di Gianni, l’avrei presto abbandonato per un piccolo albergo alle porte della medina, la Maison Blanche, una casa appunto bianca piena di pezzi di antiquariato, un ambiente intimo che ricordava un po’ l’hotel dove a Roma viveva Bettino Craxi, il Raphael. Ma sul momento non c’era tempo da perdere nelle sistemazioni alberghiere. Bisognava capire come stava Craxi, e soprattutto dove diavolo fosse.
La famiglia, almeno all’apparenza, non aveva alcuna intenzione di collaborare alla ricerca. Verso i giornalisti sembrava diffidente, se non ostile; e con qualche buona ragione. Troppi i voltafaccia, i cronisti e i direttori amici, quando non cortigiani, che erano passati dall’altra parte, e si erano trasformati in critici, se non in accusatori. E questo era accaduto sia tra i filocomunisti, sia in parte tra i filoberlusconiani. Per entrambi, Bettino Craxi era un ricordo ingombrante. Il nemico che a un tratto si era fatto indulgente, ad esempio aiutando il partito nato dalle ceneri del Pci a entrare nell’Internazionale socialista. E l’amico che da presidente del Consiglio aveva salvato le nascenti tv private ma che, caduto in disgrazia, divenuto impopolare, rappresentava un problema, un peso inutile di cui liberarsi.
Fatto sta che come prima cosa ci precipitammo nella clinica di Nabeul, vicino ad Hammamet, dove secondo le notizie d’agenzia Craxi era stato ricoverato. Solo che in quella clinica Craxi non c’era più.
Il mattino dopo si seppe che era all’ospedale militare di Tunisi, un palazzone alla periferia della capitale. Le guardie all’ingresso avevano l’incarico di non far passare i giornalisti, ma solo i familiari. Con l’inviata del «Messaggero», Marida Lombardo Pijola — anche lei come Gianni purtroppo non c’è più —, ci guardammo negli occhi, ci prendemmo sottobraccio e ci dicemmo che avremmo potuto essere una coppia di cugini di Craxi, venuti dall’Italia a trovarlo.
Marida era una giornalista bravissima, oltre che bellissima, e nessuno osò fermarla. Salimmo al quinto piano, nella sala 1 del reparto rianimazione e terapia intensiva, dov’era ricoverato Craxi. Solo che Craxi non era neppure lì.
Cioè era lì, in ospedale, ma in quel momento era stato portato a fare un’ecografia. Il letto disfatto era vuoto, il televisore da cui il paziente poteva seguire Rai Uno era spento.
Colpiva un mazzo di rose rosse, dono del cerimoniale del presidente — diciamo pure dittatore — Ben Alì, ignaro che il fiore simbolo del craxismo fosse semmai il garofano. A mezzogiorno era atteso l’arrivo del professor Guediche, potente medico personale di Ben Alì, in visita al «paziente italiano», come presero a chiamarlo i giornali di Tunisi.
Fuori dalla stanza trovammo un infermiere, che sul camice bianco esibiva orgogliosamente una grossa spilla con il proprio nome, che poi era uguale al cognome: «Ahmed Ahmed».
Il signor Ahmed Ahmed era lì per portare il pranzo: una scodella di brodo di verdure.
Soddisfatto per quell’inattesa attenzione riservata alla sua persona, ci disse tutto fiero che Craxi non stava poi così male, che era presente a se stesso, financo di buon umore, e che le analisi del sangue segnalavano un miglioramento: in particolare erano scese le transaminasi, segno che il danno epatico stava regredendo.
Anche perché poi quale fosse esattamente la malattia di Craxi non lo sapeva nessuno. Sapevamo che aveva il diabete, e che tentava di arginarlo con feroci diete, sempre disattese una volta che si sedeva a tavola: magari ordinava verdure, poi però mangiava nei piatti degli altri, e a Bettino nessuno dei commensali osava dire di no. Non sapevamo però che la situazione era molto più grave di quel che si pensasse.
Quando il piede di Craxi si aprì, in una di quelle lesioni difficilissime da curare tipiche delle fasi avanzate del diabete, Antonio Di Pietro disse che Craxi aveva un «foruncolone».
E anche noi quel giorno contribuimmo un poco a creare quel clima di sottovalutazione.
All’uscita dell’ospedale Marida e io fummo assaliti dai cronisti in attesa, un po’ incuriositi, un po’ insospettiti: non erano mica lì per farsi dare un «buco» da «Messaggero» e «Stampa».
C’erano gli inviati delle agenzie, dei giornali nazionali e regionali, delle tv. Quasi tutti credevano che la malattia di Craxi fosse una manovra politica per facilitare il rientro in Italia. E quasi tutti avevano voglia di tornare a casa.
Così, quando riferimmo le parole di Ahmed Ahmed, la reazione fu un misto di ilarità e di sollievo. Ahmed Ahmed fu rapidamente promosso caposala — ma temo che un collega d’agenzia l’avesse presentato come cardiochirurgo, anzi come il primario di cardiochirurgia — e Craxi venne dato per convalescente, sul punto di essere dimesso, insomma quasi guarito
Le cose però stavano molto diversamente.
Per il pomeriggio era annunciata una conferenza stampa improvvisata di Stefania Craxi.
La primogenita di Bettino compiva quel giorno trentanove anni. Indossava un vestito berbero molto bello, verde con decorazioni argentate, lungo fino ai piedi, di cui tormentava di continuo la manica; ed era incazzatissima.
Con tutti: i giudici, i comunisti, Luciano Violante che aveva definito la sua famiglia «sudamericana», Giuliano Amato e gli altri socialisti che lei definiva traditori e ignavi, e ovviamente noi giornalisti.
Non conoscevo Stefania, e mi colpì molto.
La sua rabbia sembrava sempre sul punto di esplodere, nell’aggressività o nel pianto, ma nello stesso tempo era il suo carburante, il suo modo di restare legata alle persone e alle cose.
Si creò tra lei e noi inviati uno strano legame.
Da una parte eravamo i persecutori: il tono dei reportage dalla Tunisia era decisamente severo nei confronti di Craxi. Ma avevamo pur sempre bisogno di notizie dalla famiglia. E quindi finivamo per diventare, se non complici, comprimari di una vicenda molto più grande anche dei protagonisti. Che erano da una parte Bettino Craxi, e dall’altra lo Stato italiano, che Craxi aveva governato e condizionato per tanti anni.
Quel giorno Stefania parlò a lungo. Disse che il padre stava molto male. Tanto male da non aver sfogliato il pacco dei quotidiani italiani, che a Tunisi arrivavano dopo tre giorni, e neppure la rassegna stampa, che si faceva mandare ogni mattina via fax. La crisi era dovuta a complicazioni epatiche, innescate da un virus o dall’insufficienza cardiaca.
Precisò che il cuore pompava solo il 25 per cento del sangue: nessuno capì bene cosa volesse dire, e che ne fosse del restante 75 per cento; comunque la cosa fece una cerca impressione. Tutto nasceva dal diabete, ma richiedeva una serie di esami. Stefania ringraziò i medici tunisini che si stavano prendendo cura del padre. E spazzò via ogni ipotesi di rientro in Italia: «Un uomo che ha servito il Paese per quarant’anni non ha certo interesse a tornarvi grazie a un salvacondotto medico».
La conferenza stampa finì, quasi tutti se ne andarono, ma Stefania continuò a parlare, in un conciliabolo con pochi di noi. Raccontò che il padre era di umore pessimo e si comportava da paziente difficile: «Stefania sollevami il letto», «Stefania vorrei del sale», «Stefania portami dell’acqua». Qualcuno le riferì le aperture del premier D’Alema e del nuovo capo della procura di Milano, Gerardo D’Ambrosio: entrambi si erano detti favorevoli, a determinate condizioni, al rientro di Craxi in Italia.
D’Ambrosio aveva appena preso il posto di Francesco Saverio Borrelli, e sembrava aver scelto un approccio più morbido, più «politico» alla vicenda (nel 2006 sarebbe stato eletto al Senato con il centrosinistra).
La morte di Craxi in terra straniera avrebbe rappresentato un problema grave per il governo. Nella maggioranza c’erano sì i nemici di Bettino, tra cui lo stesso Di Pietro, che quel giorno aveva ribadito: «Se Craxi torna in Italia deve essere arrestato, i benefici si danno ai detenuti non ai latitanti». Ma nella maggioranza di governo c’erano anche i socialisti di Enrico Boselli. Oltre a storici dirigenti del Pci che a Craxi avevano sempre guardato con favore, a cominciare dall’ex ministro dell’Interno (e futuro presidente della Repubblica) Giorgio Napolitano.
Eppure Craxi, al telefono con il cognato Pillitteri (più avanti vi racconterò come Gianni Pennacchi e io venimmo a saperlo), fu categorico: «In Italia non torno. Voglio essere operato qui e, se necessario, morire qui e qui essere sepolto».
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA STORIA DI MARTINA: “QUANDO SONO ANDATA VIA NON HO PRESO IL TFR”… LO SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI NON INTERESSA AL GOVERNO, I CONTROLLI NON ESISTONO
Martina ha 27 anni ed è una studentessa fuorisede a Bologna. Per arrotondare fa la cameriera. E oggi racconta la sua esperienza all’edizione locale di Repubblica: «Era il mio primo impiego, prendevo la borsa di studio, ma il contributo arrivava a gocce, il costo della stanza non era indifferente, ho accettato. All’inizio ho pensato questa flessibilità potesse tornarmi utile, avrei potuto lasciare quando volevo. Ma poi, a un certo punto, un contratto mi è servito». A quel punto «era il 2022, mi ero spostata in un ristorante del quadrilatero. All’inizio i proprietari hanno fatto ‘gli gnorri’, poi su mia insistenza hanno accettato, ma senza farmelo vedere o firmare. Avevo chiesto un part-time, loro hanno optato per un apprendistato di 12 ore, a fronte delle 24/30 che svolgevo settimanalmente. A metà mese una parte dello stipendio arrivata tramite bonifico, il resto fuori busta».
Otto euro l’ora
Lei veniva pagata «otto euro l’ora, so di colleghi pagati molto meno, ma per me resta poco se commisurato allo stress e ai chilometri, fatti dentro e fuori. Il titolare disponeva di varie attività in centro e all’ultimo momento ti mandavano da un’altra parte all’altra, altri colleghi, altri spazi. Per non parlare degli straordinari, mai pagati come tali ma solo come ore in più e un po’ sul conto, un po’ a mano». E rivela che le insegnavano «a non battere lo scontrino, ma a stampare a chi pagava in contati solo un pre-conto. Inganna, sembra uno scontrino ma è il riepilogo di ciò che si è ordinato. il proprietario ci osservava con le telecamere da casa e sgridava se non c’era gente».
Il licenziamento
A un certo punto è andata via: «Sì, e senza TFR, senza liquidazione, niente di niente. Quando passo di lì e vedo la gente accomodata fuori, mi chiedo: com’è possibile che certe cose avvengano alla luce del sole?» Al momento lavora «in periferia, in una trattoria: 9 euro l’ora, un clima più tranquillo. E non penso sia un caso, che si trovi una situazione migliore fuori dal centro».
(da La Repubblica)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
“HA PORTATO AL GOVERNO UNA CLASSE DIRIGENTE IMPROVVISATA, L’EX COGNATO CHE FERMA I TRENI, QUELL’ALTRO CHE SPARA ALLA FESTA DI CAPODANNO, LORO SONO COSÌ. LA PRIMA REAZIONE DELLA GENTE È: ‘POVERINA, COME FA A GOVERNARE CON QUESTI?’ MA CIRCONDARSI DI INCAPACI È UNA STRATEGIA PRECISA. COSÌ TUTTI DICONO: MENO MALE CHE C’È LA MELONI… “AVENDO ATTORNO SALVINI E TAJANI, CHIUNQUE SEMBREREBBE UNO STATISTA”
L’11 gennaio Matteo Renzi festeggia 50 anni. L’ex royal baby, come lo chiamava Giuliano Ferrara, non è più baby e nemmeno tanto royal. La festa sarà a Firenze, festa pubblica, con tutti i renziani d’Italia, festa politica. Non solo per mangiare insieme la toscanissima pappa al pomodoro, ma per lanciare un’offensiva contro Giorgia Meloni, «un anno scoppiettante contro una destra illiberale». Nella convinzione di poterla buttare giù, perché «incapace e pericolosa».
Alla boa dei cinquant’anni ha deciso di galoppare lancia in resta contro Meloni. Ma in queste settimane la premier viene celebrata dalla stampa internazionale come la leader più forte d’Europa, Trump e Musk chiamano lei. Tutto un bluff?
«Meloni è una grande influencer, si sa vendere. Ma non sta facendo assolutamente nulla. E si circonda di incapaci. La prima reazione della gente è: poverina, come fa a governare con questi? Ma circondarsi di incapaci è una strategia precisa, un suo modus operandi. Così tutti dicono: meno male che c’è la Meloni. Sfido io! Avendo attorno Salvini e Tajani, chiunque sembrerebbe uno statista. Ha portato al governo una classe dirigente improvvisata, l’ex cognato che ferma i treni, quell’altro che spara alla festa di Capodanno, loro sono così».
Meloni le darà del “rosicone”, come faceva lei all’epoca…
«Scherza? I miei primi due anni avevano già visto il Jobs act, Industria 4.0, l’Imu prima casa, gli 80 euro, la legge sul Terzo settore, la legge “un euro in cultura, uno in sicurezza”, le unioni civili… Ne avevo fatte fin troppe, avevo anche rotto le scatole a molti. Lei ha fatto il rave party e la mototerapia».
Il mitico centro. Si farà mai?
«Il centro è il luogo grazie al quale si vince o si perde la partita. C’è un’opportunità evidente. Meloni con la sua coalizione non è maggioranza nel Paese, è diventata presidente del Consiglio grazie a Enrico Letta che ha voluto dividere la coalizione, e lo resta oggi perché i 5 stelle rifiutano l’alleanza organica»
Schlein?
«La cosa che più apprezzo di lei è che rifiuta la logica del meglio pochi ma buoni. Quel settarismo della sinistra che è il miglior alleato dell’estremismo della destra. Schlein, che viene da una storia molto diversa dalla mia, ha capito che con quel settarismo lì si perde e lei, invece, vuole vincere»
E a quel punto il centro diventa decisivo?
«Sì, chiunque lo rappresenti, chi sta lì vale doppio. Perché sono voti che vengono rubati al centrodestra».
Guidato da chi?
«Da qualcuno che capisce la politica, quindi non gente come Calenda per intenderci. E poi che abbia un consenso reale. Anche piccolo, ma ci deve essere. Capire di politica riduce molto il numero di aspiranti».
Tutti pensano che lei abbia un solo nome in testa, il suo…
«Se c’è una cosa sicura è proprio che non voglio farlo io. Voglio dare una mano, dico fatelo voi. L’ho fatto fare a Calenda, lo può fare chiunque».
(da La Repubblica)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA SORA GIORGIA QUANTO PIÙ SI AVVICINA ALL’AMERICA DI TRUMP, SOVRANISTA, PROTEZIONISTA, E A FORTE TASSO DI OSTILITÀ VERSO L’EUROPA, TANTO PIÙ SI ALLONTANA DA BRUXELLES. IL 20 GENNAIO LA MELONI POTREBBE ANCHE ESSERE L’UNICA LEADER PRESENTE DEI VENTISETTE DELL’UNIONE EUROPEA
Per ben due volte Giorgia Meloni ha un lapsus su Musk e lo chiama Trump. Un errore che rivela la percezione di un legame indissolubile, due figure interscambiabili della Nuova America a cui la presidente del Consiglio italiana vuole restare vicina, anzi vicinissima
Solo una volta, dopo un assedio di domande su Elon Musk e Donald Trump, Meloni concede di non condividere cosa ha detto il magnate padrone di X. Succede quando l’inviato del quotidiano londinese The Times le chiede se è accettabile che Musk possa definire strega malvagia da buttare in carcere la ministra Jess Phillips, che ha gestito una brutta storia di abusi sessuali nel Regno Unito. È l’unica volta in quasi tre ore in cui non giustifica parole e operato di Musk e Trump.
Per il resto del tempo, Meloni assume una difesa totale dei due campioni dell’ultradestra globale, due uomini a cui lei sta strategicamente affidando parte del suo destino politico, nella convinzione, ammessa ieri, di poter avere «un rapporto privilegiato» con il presidente che entrerà in carica tra dieci giorni e con il suo tecno-Rasputin che porterà nel gabinetto di governo. Il rischio potrebbe essere che quanto più si avvicina all’America di Trump, sovranista, protezionista, e a forte tasso di ostilità verso l’Europa, tanto più si allontana da Bruxelles. Di certo, ascoltando la conferenza, Meloni dimostra più volte di volersi smarcare dalle reazioni scandalizzate e dalle critiche che Europa e cancellerie hanno rivolto in queste ore al fondatore di Tesla in trattativa con l’Italia per Starlink, e al presidente eletto.
Una tappa di questa saldatura dovrebbe essere la partecipazione alla cerimonia del giuramento di Trump, il 20 gennaio. Meloni non smentisce che le farebbe «piacere». Un fuori agenda che sta spiazzando la diplomazia italiana, perché sarebbe una prima volta per un capo di governo seduto in platea, a Washington. Non solo: potrebbe anche essere l’unica leader presente dei ventisette dell’Unione europea. Ma Meloni ha un disegno preciso. Vuole confermare l’impressione di poter diventare la naturale interlocutrice di Trump nel Vecchio Continente, anche a costo di disallinearsi dai colleghi europei. Le condizioni sono ottimali: l’Ue spostata sempre più a destra, l’Italia politicamente più stabile, mentre Francia e Germania arrancano nella precarietà politica ed economica, la sintonia ideologica capace di cancellare le distanze costruite sulla convenienza
Se questo è l’orizzonte verso cui si muove Meloni allora si comprende perché indossa comodamente la veste di avvocato per giustificare, precisare, minimizzare, fare l’esegesi delle dichiarazioni di Trump e Musk che altri capi di governo e hanno invece stigmatizzato vigorosamente. Per inciso: quasi tutti capi di governo insultati da Musk via social. Trump ha dichiarato – nell’ordine – di non escludere di invadere la Groenlandia e di conquistare lo stretto di Panama, e di voler annettere il Canada. Tra dieci giorni sarà il commander in chief, andrebbe preso sul serio. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz lo ha fatto, esprimendo sconcerto e sostenendo: «I confini sono inviolabili». Concetto che è stato ripetuto un’infinità di volte contro Vladimir Putin. Meloni raffredda il clamore con il piglio di una lezione di geopolitica sulla Groenlandia e sul Canada ricche di risorse.
E anche se i danesi e i canadesi lo hanno preso dannatamente sul serio, Meloni prova a rivelarsi l’interprete più autentica del metodo Trump: «Mi sento di escludere che gli Usa tenteranno di annettere territori con la forza. A differenza di alcune letture che sento, noi abbiamo già visto Trump presidente; siamo di fronte a una persona che quando fa una cosa la fa per una ragione». E la ragione sarebbe mandare un messaggio alla Cina: «Per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte ad altri grandi player globali che si muovono in zone che sono di interesse strategico per gli Stati Uniti, e – aggiungo – per l’Occidente».
Stesso discorso sul possibile disimpegno militare in Ucraina: «Francamente non lo prevedo e non leggo questo dalle dichiarazioni di Trump». Anche sui dazi che metterebbero in ginocchio l’Italia e sul 5% del Pil a cui Trump minaccia di voler far salire tutti i Paesi Nato per le spese militari, Meloni sembra ridimensionare le responsabilità del tycoon, evidenziando invece quelle di Bruxelles e al suo predecessore democratico alla Casa Bianca
Per quanto riguarda la difesa, «la questione non è tanto di rapporto con gli Stati Uniti ma piuttosto interna all’Ue che deve individuare degli strumenti se vuole avere una difesa competitiva, e attualmente quegli strumenti purtroppo non ci sono». Quello che non dice ma che ha già detto è che vorrebbe fosse permesso all’Italia di scorporare il calcolo delle spese militari dal deficit.
Come si vede, i due amici americani sembrano intoccabili. Musk sta creando un problema con il monopolio satellitare di Starlink, vuole far esondare X e ha ingaggiato una battaglia contro le regole e i guardiani della democrazia in Europa, che temono i suoi insulti ai leader, le fake news, i flirt con l’estrema destra e le ingerenze? Meloni, fino a dieci giorni fa presidente del G7, non prende le parti dei colleghi.
«Vorrei che mi ricordaste dell’ingerenza del Cancelliere tedesco nella campagna elettorale italiana». E ancora: «Capiamoci: il problema con SpaceX è che è privato o sono le idee politiche di Musk? Perché io non faccio favori agli amici ma neanche accetto che a persone che hanno buoni rapporti con me venga appiccicata addosso una lettera scarlatta». E poi, ancora prima che qualcuno le ricordasse come un tempo era lei a scagliarsi contro l’attivismo di un altro magnate, risponde: «E allora George Soros?
(da lastampa.it)
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Gennaio 11th, 2025 Riccardo Fucile
NORME SEMPRE PIU’ LIBERTICIDE: DAL FUMO PROIBITO PER STRADA ALLE PUNIZIONE SEVERE PER IL VINO, DAL TIFO ALLE VIGNETTE CONTRO I POTENTI
Negli Usa il capo esecutivo della Sanità, Vivek Murthy, ha proposto che sulle etichette del vino e più in generale degli alcolici sia messo l’avviso che sono cancerogeni.
Se così fosse io dovrei essere morto di tumore più o meno all’età di 25 anni.
Se questa proposta dovesse essere accolta anche in Italia per il nostro Paese sarebbe un disastro, economico e sociale. Economico perché sulla vite vivono 255 mila aziende agricole. Sociale perché pur essendo il consumo del vino in ribasso – i giovani gli preferiscono la birra e le ragazze gli spumanti, Champagne compreso, che vini non sono ma risciacquature in bocca – è pur sempre una parte importante della nostra cultura e contribuisce a lenire molte malinconie della vecchiaia.
E voi potete immaginare un inglese e soprattutto uno scozzese che rinunci allo Scotch? Oggi un commentatore di calcio come Nicolò Carosio, che di schemi non capiva nulla ma sapeva dare l’emozione di una partita, che alla fine di un match vinto con la Scozia disse “E ora andiamo a berci un buon whiskaccio!” sarebbe arrestato per induzione all’alcolismo.
Com’erano belli i tempi della swinging London quando si poteva bere solo nei pub ed è noto che ogni proibizionismo genera il desiderio, la voglia matta, di infrangerlo. Per noi ragazzi, non mi ricordo sotto quale età, il whiskey era proibito in assoluto e allora cosa facevamo? Negli ostelli nascondevamo la bottiglia sotto il letto. Adesso in Gran Bretagna il governo vorrebbe inasprire le misure anti-alcoliche riducendo gli orari dei pub.
In Italia, di recente, sono state aumentate le multe e le sanzioni per chi venga trovato alla guida in stato di ebbrezza. Se il tasso alcolemico è compreso tra 0,8 e 1,5 grammi per litro, si è puniti con la doppia sanzione, detentiva e pecuniaria (arresto fino a 6 mesi e ammenda da 800 a 3.200 euro), con sospensione della patente da 6 mesi a un anno. Se il tasso alcolemico è superiore a 1,5 grammi per litro, c’è l’arresto da 6 mesi a un anno e ammenda da 1.500 a 6.000 euro e sospensione della patente da uno a due anni. Qui ciò che si vuole tutelare non è tanto la salute del cittadino ma prevenire gli incidenti. Ma anche qui è tutto soggettivo e discutibile. C’è chi l’alcool lo tiene benissimo e chi non lo tiene affatto. Personalmente a cena non mi sono mai negato le più abbondanti libagioni, e non ho mai avuto incidenti. Alla mia fidanzata, mingherlina, proibirei di guidare anche se a cena ha bevuto solo acqua. Le proibirei invece di curiosar fuori proprio nel momento in cui si è al bivio decisivo.
A Milano il sindaco Sala, come se non avesse altro cui pensare, ha ribadito il divieto di fumare all’aperto se non a distanza di almeno 10 metri da un altro umano. A Milano, città di un pigia pigia infernale, trovare un umano a meno di dieci metri è più difficile che trovare un taxi che è la cosa di cui il sindaco dovrebbe davvero occuparsi. E nel casino normativo generale non so se vale ancora la norma, sempre stabilita da Sala, che in un parco è proibito fumare se c’è una donna incinta. E come fai a sapere se è incinta? Le vai a tastare il ventre? Ottimo pretesto per un aggancio, solo che prima si usavano i cani ed era meno intrusivo.
E in casa propria si può ancora fumare? La cosa è dubbia perché viste le sottili pareti dei nostri edifici il vicino potrebbe sentirsene disturbato. Verrà un tempo, ne sono sicuro, in cui più o meno alle cinque del mattino, l’ora degli arresti e delle perquisizioni, entreranno in casa tua due pulotti non per cercar armi, ma pacchetti di sigarette.
Ci sono poi tutti i divieti, impliciti ed espliciti, della cancel culture. Della proibizione di chiamare il diverso ‘diverso’. Anni fa frequentavo un bar in cui andava uno zoppetto che gli avventori chiamavano “Mennea”. Lì per lì mi parve una cosa crudele, ma posto che le cose erano state messe in chiaro lo “zoppetto” si integrò benissimo nel gruppo: nessuno pretendeva che facesse i 200 metri in 19’’72.
Ci sono poi tutti i limiti del linguaggio. Un negro non può più essere chiamato “negro”, come i negri si son sempre chiamati fra di loro, ma “nero”. Di recente è successo un putiferio in uno stadio di calcio perché l’assistente di un arbitro dovendo indicare chi aveva commesso l’infrazione in una panchina dove sedevano tutti giocatori bianchi tranne uno nero, disse “è stato il nero” ma senza nessun intento denigratorio, era solo una questione pratica. Io ho viaggiato molto in Africa e mi sono trovato sempre in grande armonia con i negri, anche nel Sudafrica governato dai bianchi. Ma detesto i calciatori negri che ne approfittano per fare le vittime. Hanno tirato fuori a porta vuota e non puoi fare nemmeno un “buuu”. Adesso negli stadi esiste anche la “discriminazione territoriale”. Tu, se tifi Verona, non puoi gridare “forza Vesuvio!” e gli altri rispondere “Giulietta era una zoccola”. Sono modi, del tutto innocenti, di scaricare l’aggressività che è in noi ed evitare così quelli che Ceronetti ha chiamato “i delitti delle villette a schiera”.
La cancel culture, termine orrendo, ha investito anche la letteratura e in particolare i fumetti (perché prima di mettere le mani su Dante, un razzista ecclesiale, ci si pensa un po’). Per esempio è ancora lecito un fumetto titolato “Biancaneve e i sette nani”? Non è forse una discriminazione nei confronti dei nani per una colpa che non è loro: essere nani? A proposito dei nani mi ricordo una storia divertente. In Australia esisteva uno sport che consisteva nel “lancio dei nani”. Cioè si imbragava un nano e vinceva chi lo lanciava più lontano. Naturalmente intervennero Amnesty International e tutte le “anime belle” affermando che era un’indecenza. Ma i primi a opporsi furono proprio i nani, perché perdevano la loro unica fonte di guadagno.
Adesso gli infiniti verboten da cui è attraversata la nostra società hanno anche invaso il sacro recinto della satira. A una giornalista americana del Washington Post, Ann Telnaes, il giornale ha censurato una vignetta su Jeff Bezos, editore del prestigioso quotidiano, prostrato ai piedi di Trump con sacchi di dollari in mano. Osho, un modesto vignettista italiano, ha avvalorato la censura del Washington perché la vignetta “era un attacco preciso e non ironico ad alcuni tycoon americani”. Ah be’, adesso non si può più nemmeno ironizzare sui tycoon che più dell’ironia meriterebbero la galera.
Nostalgia dei tempi in cui Giorgio Forattini vignettava Giulio Andreotti perennemente gobbo (in realtà Andreotti, alto 1.83, non era gobbo ma curvo) e il “divo Giulio” non solo non se ne dispiaceva ma si faceva mandare da Forattini le vignette che esponeva poi in casa sua. Altri vignettisti. Altri politici. Altri tempi.
Massimo Fini
(da ilfattoquotidiano.it)
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