Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
L’OPPOSIZIONE INSORGE: “CREDE DI STARE NEL CILE DI PINOCHET”… CHIEDILO COME SI STA BENE AI TANTI GIOVANI DI DESTRA ARRESTATI NEGLI ANNI DEGLI OPPOSTI ESTREMISMI QUANDO L’OBIETTIVO NON ERA UNA POLTRONA DA SOTTOSEGRETARIO
“L’idea di far sapere ai cittadini come non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato è per me un’intima gioia”. Fanno discutere le parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro.
L’occasione è la presentazione della nuova autovettura blindata con cellula detentiva che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha fatto realizzare per il trasporto di detenuti al regime del 41-bis e di alta sicurezza
Salutato dal picchetto d’onore, nel piazzale antistante l’ingresso del Dap, quartiere Bravetta, quadrante nord ovest di Roma, il deputato di Fratelli d’Italia, che nel governo ha la delega al dipartimento delle carceri, non nasconde la sua soddisfazione per le dotazioni del veicolo “sempre più tecnologiche”, grazie alle quali, “la polizia penitenziaria è sempre più in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata”.
In effetti fa sapere ‘Gnewsonline’, il notiziario web del ministero di via Arenula, le 36 nuove SsangYong Rexton Dream e-XDi220 presentano “3 telecamere all’interno dell’abitacolo che rimandano le immagini su due monitor, la chiusura della cellula detentiva automatizzata e temporizzata, blocca manette, blocca porte e blocca arma gestibili da consolle”, nonché “geolocalizzazione continua con la possibilità di trasmettere specifici alert alla centrale operativa, sistemi di videoregistrazione interna ed esterna, un allarme perimetrale e un impianto audio per comunicare con l’esterno del veicolo”.
“L’idea di vedere sfilare questo potente mezzo – ha detto tra l’altro Andrea Delmastro durante la presentazione, il 13 novembre – far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato è per il sottoscritto una intima gioia”.
Le parole di Delmastro suonano in contraddizione anche con quanto riportato dal ministero, che presentando la nuova vettura sottolinea l’attenzione verso il rispetto dei diritti dei detenuti: “La cellula detentiva è stata inoltre realizzata con criteri di ergonomia per garantire il maggior comfort e l’incolumità di tutti gli occupanti, nel rispetto dei parametri europei sui trattamenti inumani e degradanti”.
Il leader Iv risponde, dopo aver visto e condiviso sui social il video della cerimonia, dicendo che “il giorno in cui il sottosegretario Delmastro si vergognerà sarà comunque troppo tardi. Ma intanto che si dimetta. Subito”. “Sono parole vergognose, orribili, indegne di un uomo che dovrebbe rispettare la Costituzione e lo Stato di diritto”, conclude Renzi.
Attacca anche il Pd. Il deputato Matteo Orfini chiede che “qualcuno nel governo prenda le distanze” da Delmastro. Angelo Bonelli di Alleanza verdi sinistra definisce “indegne” le sue parole. “Da regime sudamericano”, aggiunge Riccardo Magi, +Europa.
“Un uomo in preda a questi deliri da macellaio sadico non può fare il sottosegretario alla giustizia. Crede di stare nel Cile di Pinochet. Fuori Delmastro dalle istituzioni repubblicane!”. Così l’Anpi su X.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
QUATTRO PERSONE SONO STATE RINVIATE A GIUDIZIO, TRA LORO ANCHE FEDERICO PIAZZA, CONSIGLIERE COMUNALE DI FRATELLI D’ITALIA IN UN PAESINO VICINO BOLOGNA – AL VERTICE DELL’ORGANIZZAZIONE TERRORISTICA C’ERA ALESSIO SABELLI… NELLE CHAT SEGRETE, LE SVASTICHELLE ELOGIAVANO LO STRAGISTA NORVEGESE BREIVIK E LUCA TRAINI
L’Unione forze identitarie aveva una scala gerarchica ben definita. E cellule in tutta Italia. Poi armi, campi di addestramento, metodi per il reclutamento e l’indottrinamento realizzato anche grazie a opuscoli suddivisi in 50 lezioni.
C’era anche un programma per una «società nuova» dove «malformati, deformi, stupri da allogeni, gay, down, meticci, figli di oppositori politici, gemelli siamesi et similia» verranno «abortiti». Volevano fare la «rivoluzione», imporre un proprio «governo», ma nel 2021 sono scattati arresti e poi processi in diverse città d’Italia.
Anche a Roma, dove ieri quattro persone dell’associazione terroristica sono state rinviate a giudizio mentre altre 4 hanno patteggiato pene che vanno da 1 anno e 10 mesi a 2 anni di carcere.
Tra loro c’è anche Federico Piazza, consigliere comunale di Zola Predosa in quota Fratelli D’Italia. Si tratta del 23enne bolognese che lo scorso giugno è stato aggredito perché indossava una maglietta del Fuan, l’associazione giovanile che si è evoluta in Azione Universitaria, nella rete del partito di Giorgia Meloni.
Dal ministro all’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, al vice ministro alle infrastrutture, Galeazzo Bignami: in molti dopo il pestaggio avevano espresso la solidarietà al militante vittime dell’intolleranza politica contro chi aveva «il diritto di esprimere il proprio pensiero e la propria appartenenza politica»
Nessuno di loro sapeva che in realtà Piazza da anni era indagato proprio per aver fatto parte di un’associazione che faceva dell’intolleranza la propria bandiera: «Sarà un mondo migliore, gli stupri se fatti da europei verrà effettuato il parto e poi alla madre verrà tolto il figlio se non vorrà tenerlo verrà affidato alle cure dello Stato», recita il manifesto di quella che il pm Erminio Amelio definisce come un’associazione «di natura ideologica neonazista, marcatamente xenofoba, connotata da antisemitismo, incitamento all’odio razziale o etnico, avente nel suo programma la diffusione di una efferata propaganda negazionista della Shoah, dei crimini di genocidio e di crimini di guerra».
Al vertice c’era il romano Alessio Sabelli, a seguire diversi “comandanti cittadini”. Gli uomini della Digos hanno monitorato le chat segrete dove elogiavano al terrorista norvegese Anders Behring Breivik e allo stragista italiano Luca Traini.
Nell’attesa si esercitavano grazie alle armi del covo nel parco della Caffarella: mitragliatrici, pistole, coltelli con impresse svastiche.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
AFFERMAZIONI IN PARTE FALSE O CHE DISTORCONO LA REALTA’ DEI FATTI
Giorgia Meloni, quando ha preso il palco a Perugia per concludere la campagna elettorale verso le regionali in Umbria con un comizio di circa 35 minuti, ha usato molti dei cavalli di battaglia della sua retorica politica.
Da una parte le lodi al proprio operato, dall’altra l’idea che il governo di destra sia costantemente sotto attacco da parte di soggetti esterni – dalla stampa ai sindacati, fino alle opposizioni, colpevoli di mettere gli interessi di partito davanti a quelli nazionali (a differenza della premier e del centrodestra, attenti solo al bene del Paese). Verso la fine del suo intervento, la premier ha anche rivolto un attacco, l’ennesimo, alla magistratura.
“A me non interessa nessuno scontro con la magistratura”, ha detto, parlando della gestione dell’immigrazione. “Ci tengo al rispetto dei ruoli”, ha continuato, “ma con la stessa serenità dico che intendo andare avanti e fare tutto il possibile per fermare in Italia l’immigrazione illegale di massa, piaccia o no alla sinistra”. Questo passaggio ha riassunto un punto importante della logica della premier: i partiti politici di opposizione e la magistratura che si occupa di far applicare le leggi sull’immigrazione sono la stessa cosa.
Non è vero che secondo i giudici “non esistono Stati di provenienza sicuri”
L’attacco è andato più nel dettaglio: “Considero irragionevoli alcune decisioni di una parte della magistratura”, che cerca di “far passare il principio che non esistono Stati di provenienza sicuri”. La frase è rivolta ai giudici che hanno valutato i trattenimenti delle persone migranti in Albania, e che li hanno bocciati tutti e diciannove.
In realtà, però, nessuna sentenza ha affermato che “non esistono Stati di provenienza sicuri”. Nelle loro decisioni, i giudici della sezione Immigrazione del Tribunale di Roma hanno applicato le direttiva europee sul tema. In particolare, la direttiva 32 del 2013 parla dei Paesi sicuri, e agli articoli dal 36 al 38 fissa diversi paletti da seguire. Uno di questi è proprio che ci deve essere un “esame individuale della domanda”, e che il Paese deve essere sicuro “nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente”.
Questi paletti sono stati aggiornati da una sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre che aveva anticipato il flop dei centri in Albania, cosa di cui anche il governo si era reso conto. Alla luce della sentenza, le regole europee affermano che bisogna valutare caso per caso se uno Stato è sicuro per la specifica persona che sta chiedendo asilo. E per essere considerato sicuro, questo Stato deve esserlo per tutti: tutte le minoranze e i gruppi sociali, in tutto il territorio del Paese. Che è ben diverso dal dire che “non esistono Stati sicuri”.
Non è vero che le sentenze sui Paesi sicuri rendono “impossibili i rimpatri”
Insomma, la premessa alla base del discorso della premier era distorta. E lo è diventata ancora di più quando ha detto che questa attività dei giudici – applicare le sentenze e le norme europee – potrebbe “precludere ogni possibilità di controllare le frontiere” e “rendere i rimpatri impossibili”. Ma la questione dei Paesi sicuri non ha niente a che fare con i rimpatri in sé: riguarda solamente per le procedure accelerate per l’asilo.
Le procedure accelerate, lanciate dal governo Meloni e che nei prossimi anni partiranno anche a livello europeo, permettono un risultato più rapido: l’intero iter si completa in 28 giorni, almeno sulla carta. Ma, proprio perché sono procedure con tempi stretti, danno meno garanzie e opportunità di difendersi a chi fa domanda di asilo. Perciò possono esservi sottoposti solamente coloro che vengono già da Paesi sicuri.
Tutti gli altri non ottengono automaticamente (come sembrerebbe invece suggerire Meloni) un permesso di soggiorno in Italia. Semplicemente, vengono sottoposti alla normale procedura di domanda d’asilo, più corretta e approfondita, che può avere esito positivo o negativo. Dunque, il rimpatrio o l’espulsione restano pienamente possibili.
L’esempio sbagliato di Meloni
Meloni si è spinta oltre, dicendo che sentenze come quelle sui trattenimenti in Albania rendono impossibili i rimpatri non solo “di chi non ha titolo, ma persino di chi commette reati in Italia”. Ha fatto un esempio concreto: il 21enne che ha accoltellato un capotreno a Genova, cittadino egiziano che in precedenza aveva fatto richiesta di protezione internazionale. “Secondo queste interpretazioni della magistratura non potrebbe essere rimpatriato perché l’Egitto non è considerato un Paese sicuro”, ha detto la premier.
Al di là del caso concreto, dove la magistratura valuterà il da farsi, è semplicemente falso dire che chi viene da un Paese considerato non sicuro non possa essere rimpatriato. Come detto, significa solamente che si applicherà la procedura ‘ordinaria’. Se la persona che chiede asilo non rientra in una categoria i cui diritti sono violati nel suo Stato di origine, e non ci sono altri gravi motivi di pericolo personale, il rimpatrio può scattare comunque. A meno che manchino gli accordi di rimpatrio tra l’Italia e quello Stato, ma questa è responsabilità del governo.
Il finto stupore della premier davanti a un comunicato dei giudici
La presidente del Consiglio ha poi usato un trucco retorico, proseguendo il discorso. Ha detto: “Nelle ultime ore i giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma si sono probabilmente accorti di questo cortocircuito e hanno diramato un comunicato”. In realtà il comunicato in questione è sì una risposta al “cortocircuito” inventato da Meloni, ma non è arrivato perché i giudici in questione se ne sono accorti.
È una nota che risale a quattro giorni fa, e che con tutta probabilità è arrivata perché molti esponenti del centrodestra – tra cui la presidente del Consiglio – continuavano a ripetere informazioni false su come funzionano i rimpatri. Il comunicato, come ha letto Meloni, recita: “L’esclusione di uno Stato dal novero dei Paesi di origine sicuri non impedisce il rimpatrio e/o l’espulsione della persona migrante la cui domanda di asilo sia stata respinta o che comunque sia priva dei requisiti di legge per restare in Italia”.
n sostanza, quello che è stato detto finora. Dire che un Paese non è sicuro non impedisce il rimpatrio di nessuno, ma blocca solamente le procedure accelerate. Meloni però ha reagito come se queste frasi non avessero nessun senso: “Confesso che mi sono persa”.
“Forse io non sono un raffinato giurista, ma in buona sostanza ci si sta dicendo che noi non possiamo impedire l’ingresso in Italia di un egiziano perché l’Egitto non è un Paese sicuro, ma lo possiamo rimpatriare in Egitto. Ditemi voi”, ha continuato, insistendo su un’idea sbagliata di come funzionano i rimpatri.
Non è vero che “gli italiani hanno chiesto” i centri in Albania
Per concludere, Meloni è tornata all’attacco suggerendo che i giudici agiscano con motivazioni politiche: “Non capisco la ratio. A meno che la ratio di alcune decisioni non sia impedire a questo governo di controllare i flussi dell’immigrazione illegale di massa”. Si è tornati così al governo accerchiato e sotto attacco.
Una situazione – inesistente, nei fatti – da cui la premier è uscita con un appello agli elettori: “Ma cercare di fermare il flusso dell’immigrazione irregolare di massa è quello che gli italiani ci hanno chiesto di fare. E per me il punto è tutto qui. Non perseguo nessuno scontro con nessuno, ho rispetto per le istituzioni di questa Repubblica, ma devo poter fare il mio lavoro, devo poter mantenere gli impegni che ho preso con il popolo italiano”.
Bisogna ricordare che l’impegno preso dal centrodestra con il popolo italiano alle ultime elezioni, nel 2022, poteva essere semmai quello di ridurre l’immigrazione irregolare. Sicuramente nessun elettore ha votato Fratelli d’Italia per la promessa specifica di costruire dei centri migranti in Albania.
Il protocollo con il governo albanese è stata una decisione specifica presa dall’esecutivo di Meloni, e non si può ‘scaricare’ sugli elettori. È sempre possibile che un governo o una forza politica, per raggiungere un obiettivo elettorale, facciano delle scelte sbagliate. E la responsabilità non è di chi li ha votati perché era d’accordo con quell’obiettivo.
Non è vero che la magistratura deve mettere Meloni “in condizione di lavorare”
Infine, Meloni ha inserito un accenno ai suoi sacrifici personali di Meloni – del tutto simili a quelli dei molti presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta, si presume: “Posso lavorare giorno e notte (lo faccio) posso rinunciare a tutto (già l’ho fatto), l’unica cosa a cui non rinuncerò è essere la persona seria che sono sempre stata. Quando prendo un impegno lo porto a casa e mi si deve mettere nella condizione di farlo”.
Un ultimo aspetto da tenere a mente è che, in realtà, non c’è nessun obbligo di “mettere” una premier “nella condizione” di realizzare un programma elettorale. Innanzitutto, dal punto di vista politico, l’opposizione ha il diritto di contestare l’operato di un governo. Ma soprattutto, lo scopo della magistratura non è “mettere in condizione” un esecutivo di fare quello che vuole. Piuttosto, è valutare se e quando delle leggi non vengono applicate, da chiunque.
Insomma, un governo non può fare delle cose che non rispettano le norme in vigore e poi lamentarsi se i giudici lo riconoscono, dicendo che quella è la volontà popolare.
La Costituzione recita che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, ma “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, e non alla volontà degli elettori. E sottolinea che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Incluso quello del governo.
(da Fanpage)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
A BRUXELLES PER URSULA SI PREFIGURANO TRE SCENARI: 1) LA CRISI RIENTRA E PASSANO LE NOMINE, FITTO COMPRESO; 2) ACCONTENTA I SOCIALISTI E RIFORMULA LE NOMINE DEI COMMISSARI; 3) SALTA LA ”MAGGIORANZA URSULA” E SI TORNA AL VOTO (COSA MAI SUCCESSA…)
La trionfale vittoria di Donald Trump (Camera, Senato, Corte Costituzionale) sta sconvolgendo gli equilibri politici negli Stati Uniti e nel resto del mondo. L’onda lunga del successo del tycoon è arrivata anche nell’Unione Europea, dove la “maggioranza Ursula” è scossa da scosse telluriche.
Il primo segnale del ritorno sulla scena mondiale del Trumpone è il generale ringalluzzimento dei gruppi destronzi (Patrioti, Ecr, Afd) che, complice la composizione variegata del Partito Popolare Europeo, si sono ritrovati col gran parte del Ppe a votare con successo il regolamento sulla deforestazione.
Apparentemente una norma secondaria, ma che diventa la spia di un mutamento in corso che vede i sovranisti e i populisti uniti nella lotta con i neonazisti di Afd. Il voto congiunto con l’estrema destra non poteva non terremotare il gruppo socialista (S&D), e gran parte di esso chiede di uscire dalla maggioranza Ursula.
Il clima di caos che si è creato a Bruxelles, con i veti incrociati sulla nomina dei vicepresidenti, dipende innanzitutto dall’inettitudine di Ursula. La cofana bionda tedesca ha dimenticato uno dei principi cardine della politica: se hai una maggioranza, la valorizzi e vai avanti con quella.
Lei, invece, per blindare la sua poltrona ha pensato di darsi un perimetro di potere più ampio, e ha teso la manina a Giorgia Meloni e al gruppo da lei presieduto, quello dei Conservatori di Ecr
Era chiaro che bisognava dare un commissario all’Italia, ma non di cedere a Meloni concedendo una vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto, innescando il domino del malcontento di socialisti e liberali – considerando anche il doppio rifiuto della Ducetta alla Commissione (prima in Consiglio europeo con l’astensione, e poi in Parlamento con il voto contrario di Fratelli d’Italia).
Un errore che ha finito per trasformare la sua maggioranza in un’insalata mista che è andata di traverso a tutti.
Ad accendere questo casino malmostoso, la scintilla non è partita solo dalla nomina con deleghe di un commissario fuori dalla maggiaranza come Fitto ma una tanica di benzina è arrivata dagli spagnoli: la delegazione di Madrid nel Ppe sta tentando infatti di sabotare la nomina della socialista Teresa Ribera, che è anche ministro e vicepremier di Spagna, con l’obiettivo di far cadere il Governo Sanchez.
In quanto ministro della Transizione ecologica i Popolari iberici addossano alla Ribeira – anziché al governatore Mozon – la responsabilità della tragedia di Valencia, dove l’alluvione ha ucciso più di 200 persone. E la Ribeira è attesa nei prossimi giorni a riferire del suo operato al Parlamento spagnolo.
L’obiettivo del Partido popular è far slittare le nomine europee a dopo l’audizione-processo, così da azzoppare la Ribera e far saltare la sua nomina a Bruxelles. In caso contrario, i popolari spagnoli minacciano di boicottare i commissari di Ursula.
Il caso Ribera è l’ennesima dimostrazione di come il Partito popolare europeo sia, al suo interno, disomogeneo e parcellizzato in obiettivi non convergenti.
Lo stesso premier polacco, Donald Tusk, che del Ppe è un pezzo da novanta, si è molto infastidito, al pari dei socialisti e liberali, per la convergenza dei voti di gran parte dei Popolari con le destre estreme sulla deforestazione.
L’allargamento della maggioranza a Ecr, poi, significherebbe sdoganare anche il Pis, partito rivale in patria, visto da Tusk come il nemico numero uno.
Al momento, a Bruxelles gli analisti politici prevedono questi tre gli scenari per Ursula :
1. Riesce a ricompattare la sua maggioranza “domando” il Partito socialista e facendo ingoiare a Sanchez e Macron l’inclusione di Fratelli d’Italia nell’alleanza (e Fitto ottiene il via libera).
2. Non riesce a sedare il malcontento di S&D che chiede di riformulare tutte le nomine dei commissari.
3. Definitiva spaccatura della maggioranza, salta Ursula e si torna al voto (cosa mai successa…).
(da Dagoreport)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
MUSK VUOLE ESPANDERE IL SUO DOMINIO TECNOLOGICO IN EUROPA SFRUTTANDO L’INGRESSO ITALIANO, L’UTILE IDIOTA
Sarà affascinante l’idea di Hyperloop, il treno da 600 chilometri all’ora di media in una galleria costruita dalla «Boring Company». Alletterà molti anche la vaga ipotesi di una fabbrica di Tesla da aprire in Italia, dopo quella già in funzione in Germania. E il ricorso a lanciatori spaziali di SpaceX per i vettori italiani ed europei è senz’altro qualcosa più di un’aspirazione: presto potrebbe essere una necessità, come lo è per la Nasa negli Stati Uniti, tanto che il ministro della Difesa Guido Crosetto riconosce che in questo il gruppo americano ha «un monopolio sostanziale».
Ma nessuna di queste tecnologie di Elon Musk, vagheggiate, progettate o già trasformate in campioni industriali, ha la concretezza che hanno per il nostro Paese le sue mosse nelle telecomunicazioni. Qui l’interesse commerciale è tangibile, al punto da creare già controversie e qualche malumore all’interno stesso delle strutture dello Stato.
È Starlink, la rete di satelliti controllata da SpaceX per la fornitura di internet veloce, l’infrastruttura centrale degli affari dell’uomo più ricco del mondo.
Lo è almeno nella prospettiva di un futuro prossimo e lo è anche fuori dagli Stati Uniti, Italia inclusa: Morgan Stanley, una banca d’affari, stima che al 2040 Starlink potrebbe fatturare nel mondo fino a 250 miliardi di dollari l’anno; andasse così, una volta scorporata da SpaceX, l’azienda potrebbe raggiungere un valore di borsa tale da far sembrare di seconda classe le più vaste società quotate di oggi: Nvidia, Apple o Microsoft.
Cinque o sei degli oltre seimila satelliti di Starlink lanciati nell’orbita bassa da SpaceX assicurano già oggi l’accesso a Internet veloce nel nostro Paese. L’offerta in rete ieri sera all’ora di cena prometteva uso residenziale «lite» (leggero: «a bassa priorità» (cioè per «uso domestico ridotto») da 29 euro al mese, più un kit di partenza da 349 euro; oppure da 40 euro più il solito kit, «ideale per la casa» ma più costoso rispetto ai fornitori di rete tradizionali.
I satelliti di Starlink hanno senz’altro, dalla loro parte, la loro unicità tecnologica: al massimo da circa 800 chili l’uno ma anche piccoli fino a poche decine di centimetri di lato, scomponibili, si trovano ad un’altezza fra duecento e trecento chilometri dal suolo.
Il costo dell’investimento per SpaceX dunque è fisso e relativamente limitato, rispetto al duro lavoro di portare la banda larga via terra nelle zone interne più remote e spopolate degli Appennini o della Sicilia centrale. Dev’essere per questo che il sottosegretario di Stato all’Innovazione tecnologica, Alessio Butti, ha detto al «Sole 24 Ore» il mese scorso che il governo «sta valutando con Starlink la tecnologia satellitare» visti «i ritardi degli operatori» tradizionali nel portare la banda larga nelle aree remote grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa.
Ma non tutto è necessariamente così semplice. Non lo è, in primo luogo, perché un’articolazione pubblica come Cassa depositi e prestiti è impegnata nella posa della banda larga indirettamente tramite Fibercop e direttamente come azionista di Open Fiber: non è detto ché apprezzi il rischio di essere spiazzata da un soggetto esterno che stringe un nuovo accordo con il governo, così come non lo apprezzerebbero grandi investitori esteri del settore come Kkr o Macquarie (con i quali Palazzo Chigi si è impegnato).
La qualità della connessione di Starlink sembra non essere ideale e soprattutto il gruppo di Musk non è soggetto agli stessi obblighi legali dei concorrenti, per esempio quello di fornire intercettazioni all’autorità giudiziaria: forse logico dopo che Musk stesso ha definito la magistratura italiana «un’autocrazia non eletta»; ma curioso dato che proprio il referente italiano di Musk, Andrea Stroppa, si trova indagato in un’inchiesta che coinvolge la fornitura della rete di Starlink ad alcune sedi diplomatiche italiane. Stroppa si dice estraneo ai fatti.
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
LA CORTE DEI CONTI: LE CIFRE REALI SBORSATE DALLE REGIONI A FAVORE DELLE STRUTTURE ACCREDITATE SONO GIA’ MOLTO PIU’ ALTE DI QUELLE FISSATE PER LEGGE
La spesa reale delle Regioni per acquistare prestazioni sanitarie dai privati è molto più alta, rispetto a quanto sarebbe previsto dai vincoli imposti dalle leggi dello Stato, tanto che nel 2023 era già ampiamente oltre le percentuali – pur riviste al rialzo – scritte nell’ultima legge di bilancio. È quanto emerge da una tabella allegata alla memoria, presentata dalla Corte dei Conti, in occasione dell’audizione a Montecitorio sulla manovra.
Il tetto alla spesa per i privati
Il decreto Spending Review del 2012 ha introdotto un limite all’utilizzo dei fondi del Sistema Sanitario Nazionale per l’acquisto da parte delle Regioni di prestazioni sanitarie – ospedaliere e specialistiche – dalle strutture private accreditate. La legge prevedeva una progressiva riduzione negli anni, rispetto a quanto era stato complessivamente sborsato nel 2011. Con l’esplosione della pandemia, nel 2020 e 2021, il governo Conte stabilì una deroga al tetto, prima per affrontare l’emergenza Covid e poi per consentire il recupero delle visite, degli esami, degli interventi etc… non effettuati, a causa dell’emergenza epidemiologica. Anche per il 2022 si decise di derogare alla norma, affinché i privati potessero contribuire a smaltire le liste d’attesa.
Nella legge di bilancio 2023, il governo Meloni ha ridefinito la materia, stabilendo dei nuovi limiti, che avevano sempre come riferimento la spesa rendicontata nel 2011, ma rispetto a questa prevedevano non più una riduzione, bensì un incremento, pari a un punto percentuale per il 2024, tre punti per il 2025 e quattro punti dal 2026. Ora con la nuova manovra i tetti vengono ritoccati al rialzo, arrivando per il 20025 al 3,5 percento in più, rispetto alla spesa del 2011. E al 5 percento in più nel 2026, con un aumento previsto in due anni di circa 184 milioni, rispetto alle risorse precedentemente preventivate.
I conti non tornano
Fin qui c’è la teoria, ma la realtà dei bilanci delle Regioni è ben diversa. Secondo le elaborazioni presentate nella memoria della Corte dei Conti, nel 2022 l’esborso effettivo delle Regioni ai privati è stato pari a 12miliardi e 930 milioni, 930 milioni in più rispetto ai 12 miliardi del 2011. E nel 2023 la spesa è stata di 13miliardi e 107 milioni, quindi 1miliardo e 107 milioni sopra a quella di dodici anni prima. Tradotto in percentuali, fa un incremento del 7,7 percento nel 2022 e del 9,2 percento nel 2023.
La relazione tecnica della manovra del governo Meloni in realtà stima un valore di riferimento di partenza un po’ più alto, calcolando nel 2011 un volume di spesa di 12,3 miliardi di euro. Ma anche a prendere per buona questa cifra, la sostanza non cambia molto. In pratica, nei due anni presi in esame, la misura effettiva dell’acquisto di prestazioni da privati da parte delle Regioni non solo ha sforato di centinaia di milioni i paletti previsti all’epoca, al netto delle deroghe. Ma era già anche nettamente superiore, rispetto a quella che dovrebbe essere finanziata dal Fondo Sanitario Nazionale nei prossimi due anni, pure secondo i limiti incrementati dall’ultima legge di bilancio.
Come si vede dalla tabella pubblicata dai magistrati contabili, lo sforamento per le prestazioni specialistiche è stato soprattutto al Nord, mentre per quelle ospedaliere è più marcato al Centro e al Sud. In ogni caso, tutti i valori rilevati risultano superiori, anche rispetto al tetto previsto per il 2025, dal governo Meloni. Per questo motivo, conclude la Corte dei Conti nella sua memoria, gli appostamenti previsti in manovra – per aumentare il tetto dell’acquisto di servizi sanitari dai privati – sembrano in grado di sostenere solo in parte il reale incremento di spesa, relativo a tale voce. D’altra parte il ricorso alle strutture private – per sopperire alle carenze e ai ritardi del sistema sanitario nazionale – non sembra certo destinato a diminuire, anzi da anni registra un trend in crescita. Per finanziarlo, dunque, le Regioni dovranno ricorrere ad altre voci del bilancio o ai risparmi di spesa. E le diseguaglianze e gli squilibri tra i vari territori del Paese non potranno che aumentare.
(da Fanpage)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
GAETZ, GABBARD, HEGSETH: I REPUBBLICANI DELLA VECCHIA GUARDIA. SONO SCONCERTATI DALLE SCELTE DEL TYCOON, E MEDITANO DI BOCCIARE GLI IMPRESENTABILI IN SENATO
Donald Trump continua la sua prova di forza contro l’establishment e anche contro una parte dei repubblicani con un’altra nomina controversa, difficile da confermare al Senato: l’ex candidato presidenziale e avvocato attivista no vax Robert F. Kennedy Jr. come segretario del dipartimento della salute e dei servizi umani.
Figlio dell’ex ministro della giustizia Bob Kennedy e nipote dell’ex presidente John Fitzgerald Kennedy, Rfk si era candidato per la Casa Bianca sfidando Joe Biden nelle primarie dem e poi come indipendente, prima di ritirarsi e dare il suo endorsement al tycoon. Che ora gli ha dato ciò che gli aveva promesso in campagna elettorale e nel discorso della vittoria: carta bianca su sanità e controllo della politica alimentare. Una nomina che fa tremare il mondo della ricerca scientifica e le migliaia di dipendenti delle agenzie interessate, molti dei quali pronti alla fuga.
L’intero clan Camelot ha preso le distanze da lui e lo ha ripudiato da tempo per aver rinnegato la fede democratica sostenendo The Donald. Il 70enne Kennedy dovrà affrontare una dura strada in salita per la conferma al Senato dopo aver promosso per anni affermazioni poi smentite secondo cui i vaccini causano l’autismo, aver scritto un libro in cui accusa l’ex capo del National Institutes of Health Anthony Fauci di aver cospirato con il magnate della tecnologia Bill Gates e le case farmaceutiche per vendere i vaccini contro il Covid-19 e aver affermato che i funzionari delle autorità regolatorie sono burattini dell’industria che dovrebbero essere rimossi. Nelle ultime settimane, Rfk ha tentato di correggere il tiro assicurando che non avrebbe tolto i vaccini a nessuno
“Mi assicurerò che siano disponibili studi scientifici sulla sicurezza e l’efficacia, e che le persone possano fare valutazioni individuali sulla bontà o meno di quel prodotto per loro”, ha detto alla Msnbc il giorno dopo la vittoria di Trump. Una delle sue proposte più recenti è quella di togliere dalla rete idrica pubblica il fluoruro, che è aggiunto per migliorare la salute orale degli americani ma che a suo avviso “quasi certamente” causa una perdita del quoziente intellettivo nei bambini
Durante la campagna elettorale era stato travolto da varie polemiche. Tra queste, una per aver tagliato in passato con una motosega la testa di una balena morta; un’altra per aver ammesso in un video sui social media la storia, risalente al 2014, sul cucciolo di orso morto trovato per strada che voleva portarsi a casa per scuoiarlo ma che poi lasciò a Central Park simulando un incidente.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
“PER ESEMPIO POTREBBE GARANTIRE IL LIVELLO DI SPESA PUBBLICA SULLA DIFESA CHE RICHIEDE TRUMP, E COSÌ ABBATTERE I DAZI” … IL MESSAGGIO ALLA POLITICA: “LA STRADA DELLA TECNOCRAZIA È FINITA, ORA L’UNICA STRADA È QUELLA DELLA DEMOCRAZIA”
«La strada della tecnocrazia è finita, è finita tanto tempo fa, è servita per fare l’avvio» all’Europa, dove ora «l’unica strada è quella della democrazia, e questa passa per il Parlamento europeo e per quelli nazionali»
Così Mario Draghi, intervenendo ieri al World business forum a Milano. L’idea di Unione, fa notare l’ex numero uno della Bce, è cambiata: un tempo mandare qualcuno nelle istituzioni europee «era un modo per pensionarlo, per premiarlo, tanti anni fa queste cose venivano viste così». Ora non più.
«E la difficoltà in cui si sta trovando questa Commissione dipende esclusivamente da chimiche di politiche nazionali: questo, per quanto renda complesso il processo europeo, è un segnale positivo», segno che ora l’Europa fa la differenza. «E per prendere grandi decisioni bisogna che i cittadini europei si riconoscano» nell’Ue.
Che cosa succederà all’Europa con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca? La domanda del momento da 1 milione di dollari è stata posta ieri a Mario Draghi, ex-presidente del consiglio ed ex-presidente della Bce, da una cinquantina di amministratori delegati, italiani e non, partecipanti al prestigioso appuntamento annuale milanese dell’Executive Lunch organizzato da Porsche Consulting.
Draghi ha focalizzato l’attenzione su una delle poche certezze sulle prossime mosse di Trump: i dazi. Per Draghi, non ci sono dubbi sul fatto che il nuovo presidente americano introdurrà dazi ai prodotti importati negli Usa dalla Cina e dall’Europa. Ma lo farà con una differenza sostanziale tra i due mercati, che consentirà alla Ue un qualche margine di manovra.
I dazi sui prodotti cinesi «saranno più alti e non saranno negoziabili» mentre secondo Draghi i dazi sui prodotti europei saranno più moderati di quelli imposti alla Cina e soprattutto «saranno negoziabili». L’Europa insomma avrà la possibilità di interagire, e sarà meglio se lo farà con una sola voce, con Trump.
«L’Europa per esempio potrebbe garantire il livello di spesa pubblica sulla difesa che richiede Trump, e così abbattere i dazi», ha ipotizzato Draghi, sottolineando il fatto che l’Europa – a differenza della Cina – potrebbe trovarsi nella posizione di poter rispondere […]: ma dovrà quindi essere pronta per saper agire.
L’Europa è molto più dipendente dagli Usa e dalla Cina di quanto questi due Paesi non lo siano nei confronti dell’Europa. Il Pil europeo dipende per il 50% dal commercio, mentre per Usa e Cina la percentuale si aggira sul 25%-30%. L’Europa dipende dagli Usa nel conflitto tra l’Ucraina e la Russia: l’80% degli aiuti all’Ucraina proviene dagli Stati Uniti
E gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale della Ue, con un interscambio di beni superiore agli 800 miliardi di euro, e sono il primo o il secondo partner commerciale di molti Stati europei (per esempio la Germania).
Draghi ha poi ammonito che l’Europa deve imparare dai suoi errori per non ripeterli. Uno di questi, citato da esempio dall’ex-premier, è quello dei pannelli solari, un mercato che l’Europa ha oramai perso perché ora è dominato dalla Cina. Qual è stato l’errore
Mentre la Cina metteva qualsiasi tipo di sussidio e di incentivo sulla produzione di pannelli solari nel suo mercato domestico, l’Europa agiva sulla domanda. Che cosa è accaduto? Che i sussidi sulla domanda europea hanno aiutato i produttori cinesi, che erano già stati assistiti dal loro Stato.
Ebbene per Draghi è importante che in futuro l’Europa non ripeta lo stesso errore: «I sussidi vanno dati alla produzione, ai residenti in Europa», ha detto con vigore. A chi gli domandava come e dove indirizzare la politica industriale europea, in un momento di grandi sfide multiple, Draghi ha spiegato che in passato la politica industriale mirava a creare aziende-campioni (sbagliando malamente come è avvenuto per esempio con Ilva o Gioia Tauro).
«Ora la politica industriale si concentra su settori», ha detto, come per esempio l’high tech e lo spazio. E a questo riguardo, Draghi ha menzionato i successi di Elon Musk. E lo ha fatto non per contribuire all’acceso dibattito sui commenti sui giudici italiani del magnate che presto diventerà capo del dipartimento dell’Amministrazione Trump per la sburocratizzazione, ma per rimarcare che «Musk non è nato nel deserto».
Se Musk e le sue imprese sono un colosso nei campi dell’innovazione tecnologica e dello spazio è perché “molti anni fa la pianificazione della politica industriale Usa ha portato a questo».
E l’Europa dovrà fare altrettanto nei nuovi campi di sviluppo, come per esempio quello del data management: la politica industriale deve puntare allo sviluppo dei settori chiave del futuro.
Draghi qualche ora prima aveva parlato – a porte chiuse -della necessità di velocizzare la realizzazione dell’Unione del mercato dei capitali davanti alla platea del World Business Forum di Milano (una due-giorni di incontri e dibattiti dedicati alla comunità degli affari al Mico, la Fiera di Milano).
All’evento di Porsche Consulting l’ex presidente del Consiglio ed ex presidente Bce ha spiegato che negli Usa le aziende start-up hanno più possibilità di diventare grandi perché trovano i primi finanziatori che poi, come un trampolino di lancio finanziario, gli consentono di accedere ai mercati dei capitali: in Europa, ha detto, è più difficile questo “scale up”.
E poi ha chiarito di non essere «favorevole al gigantismo», come alcuni commentatori hanno sostenuto. Ma in Europa «siamo piccolini» ha rimarcato e queste nostre dimensioni non funzionano più, non sono più al passo con i tempi, perché attorno a noi, negli Usa e in Cina, prosperano i giganti.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2024 Riccardo Fucile
QUESITI, QUORUM E CONTRATTI
Si sono riuniti di nuovo, a sorpresa, per rivedere quella valanga di quesiti. Dopo la maratona di 14 ore di lunedì scorso, in cui sembrava aver messo nero su bianco tutte le opzioni su cui far votare gli iscritti nella Costituente, ieri Giuseppe Conte ha nuovamente radunato i dirigenti del M5S raggrumati nel Consiglio nazionale. Perché le proposte su cui votare erano troppe, visto anche che la partita si giocherà sul quorum. E perché certi quesiti andavano ricontrollati e magari limati, dopo che l’ex premier su alcuni passaggi aveva incassato un parere legale, per stare più tranquillo. Così, altre ore di discussione sulle proposte da votare. In primis su quelle sul garante, cioè Beppe Grillo, riesaminate sillaba per sillaba. Prova regina di quanto conti la posta in palio, perché nel voto web dal 21 al 24 novembre l’ex premier si gioca praticamente tutto: compresa la sua poltrona di presidente e leader.
Alleanze
La scommessa di Conte sulla ruota della Costituente passa innanzitutto dai quesiti sulla collocazione politica del Movimento. In particolare, su quello che prevede il divieto di alleanze con altri partiti. Se venisse approvato, sarebbe il ritorno al M5S del né destra né sinistra, quello dei fondatori Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo (che ha poi abiurato). E la sconfessione della linea dell’avvocato, che vede comunque i 5Stelle nel campo progressista. Ergo, l’ex premier dovrebbe regolarsi di conseguenza, con le dimissioni. “Se passasse una linea diversa dalla mia, non potrei che prenderne atto” ha – in sostanza – spiegato lo stesso Conte settimane fa, davanti al Consiglio nazionale. All’ex premier andrebbe invece benissimo il sì al quesito che prevede l’obbligatorietà di un accordo scritto di programma per stringere alleanze. Mentre ci sarà anche la possibilità di optare per accordi differenziati tra livello locale e nazionale.
Assemblea
Un evento sulla falsariga di Italia5Stelle, la festa del M5S che dopo il Covid non è stata più organizzata. Così il Movimento immagina l’assemblea costituente a Roma del 23 e 24 novembre, presso il Palazzo dei Congressi all’Eur, ribattezzata Nova. L’organizzatore, l’ex capogruppo in Senato Gianluca Perilli, vuole banchetti e stand in rappresentanza dei vari territori. Ci saranno ospiti internazionali – il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz e l’economista Jeffrey Sachs – e italiani, come Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, e Flavia Perina. Previsti panel con giornalisti, come Marco Travaglio, Peter Gomez, Marcello Veneziani, Enrico Mentana e Selvaggia Lucarelli. Molti video in sala. A partire da quelli degli iscritti, invocati come contributi. Anche se ora il timore è che molti interventi siano quelli della minoranza grillina, ovviamente polemica. Per questo, si spera che i gruppi territoriali compensino con video propositivi, per evitare un cortocircuito mediatico. La certezza è che i risultati delle votazioni verranno diffusi domenica pomeriggio, proprio in assemblea. Il rischio concreto per i contiani invece è che Grillo irrompa nell’assemblea – dove non è ufficialmente previsto – gridando al Movimento ormai estinto per colpa dell’avvocato
Comitato di garanzia
È l’unico organo di peso nel M5S, oltre al garante e (in parte) al Consiglio nazionale. Lo volle fortissimamente Grillo, come contrappeso a Conte. Ne fanno parte Roberto Fico e Laura Bottici, contiani, e Virginia Raggi, notoriamente vicina al fondatore (ma silente da settimane). Nella Costituente si esprimerà su un tema delicatissimo, quello dei due mandati. La regola è racchiusa nel Codice etico, che da Statuto il comitato può “adottare o modificare su proposta del presidente”, cioè di Conte, prima che passi al voto degli iscritti. Importante: il comitato decide a maggioranza assoluta. Quindi vale la regola del due contro uno.
Garante.
L’altro nome dell’avversario di Conte, il bersaglio grosso. Ad oggi quella che Grillo pretese nell’estate 2021, nel braccio di ferro con Conte sullo Statuto, è una carica vitalizia. “Per trovare un esempio analogo, bisogna arrivare ai giudici della Corte suprema statunitense”, faceva notare sul Fatto settimane fa il costituzionalista Michele Ainis (consultato come esperto per la Costituente). Ha grandi poteri, tra cui “l’interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme” (e anche qui si può citare Ainis: “Neanche il Papa è infallibile”). I quesiti su cui anche ieri il Consiglio si è dilungato prevedono l’eliminazione della carica, o quantomeno il suo parziale svuotamento, con la possibilità di trasformarla in poltrona a tempo (4 anni di mandato, rinnovabili per una volta). In caso di cancellazione del garante, si potrà scegliere se affidare i suoi poteri al comitato di garanzia o a un altro “organo collegiale appositamente eletto”. Circostanza da ricordare: nel M5S da settimane dicono che la carica “modificata” potrebbe essere affidata a Fico.
Mandati
Per molti eletti è il cuore della questione. Nella Costituente tornerà in gioco anche la regola totem dei due mandati, “l’essenza del Movimento” secondo Grillo, un vincolo ormai superato per gran parte del M5S. Gli iscritti non potranno cancellarla, perché la base non ha espresso questa istanza, a conferma che la sua natura identitaria non può essere negata. Però potranno cambiarla in mille modi differenti. Aprendo a un terzo mandato, o permettendo di candidarsi senza limiti come sindaci o consiglieri regionali. Tre le varie opzioni, anche quella per nulla secondaria che riguarda la durata del mandato, ossia la possibilità di non conteggiarlo qualora la legislatura non venisse completata. E sarebbe un’altra novità rilevante, per il Movimento.
Quorum
Il vero ostacolo per Conte e i suoi e la prima arma di Grillo, perché per cambiare le regole a 5Stelle esistono quote variabili e comunque scivolose. Il principale problema riguarda le modifiche allo Statuto. Per approvarle in prima istanza, serve la partecipazione al voto della maggioranza assoluta degli iscritti (la metà più uno), mentre in un secondo turno basta la maggioranza dei votanti. Ma entro cinque giorni dalla pubblicazione dell’esito del voto, il garante può chiederne la ripetizione, e in quel caso sarebbero approvate solo con la partecipazione della maggioranza assoluta degli iscritti. Come raggiungerla, con una votazione che riguarderà svariate decine di quesiti (con tre opzioni: sì, no e astensione)? Difficilissimo. E infatti nel M5S puntano a toccare la maggioranza assoluta già nella prima votazione, così da mettere Grillo di fronte al fatto politicamente compiuto. Però non basta. Perché, sempre da Statuto, “le deliberazioni inerenti alla revisione della Carta dei principii e dei valori sono assunte con il voto favorevole della maggioranza assoluta degli iscritti in due successive deliberazioni a intervallo non minore di un mese l’una dall’altra”. Un’altra botola, in una partita che si giocherà sul filo dei numeri e dei nervi.
Simbol
Conte non ha urgenza di cambiare nome e simbolo. Ma qualche contiano sì, anche per segnare una decisa cesura con l’era di Grillo. Nel dubbio, decideranno gli iscritti. Magari optando per la possibilità di cambiare il simbolo “per determinate battaglie politiche”, come si fece nelle scorse Europee aggiungendo la scritta “pace” allo stemma.
(da ilfattoquotidiano.it)
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