MELONI FA FINTA DI NON CAPIRE COSA HANNO DETTO I GIUDICI SUI MIGRANTI IN ALBANIA: IL FACT CHECKING
AFFERMAZIONI IN PARTE FALSE O CHE DISTORCONO LA REALTA’ DEI FATTI
Giorgia Meloni, quando ha preso il palco a Perugia per concludere la campagna elettorale verso le regionali in Umbria con un comizio di circa 35 minuti, ha usato molti dei cavalli di battaglia della sua retorica politica.
Da una parte le lodi al proprio operato, dall’altra l’idea che il governo di destra sia costantemente sotto attacco da parte di soggetti esterni – dalla stampa ai sindacati, fino alle opposizioni, colpevoli di mettere gli interessi di partito davanti a quelli nazionali (a differenza della premier e del centrodestra, attenti solo al bene del Paese). Verso la fine del suo intervento, la premier ha anche rivolto un attacco, l’ennesimo, alla magistratura.
“A me non interessa nessuno scontro con la magistratura”, ha detto, parlando della gestione dell’immigrazione. “Ci tengo al rispetto dei ruoli”, ha continuato, “ma con la stessa serenità dico che intendo andare avanti e fare tutto il possibile per fermare in Italia l’immigrazione illegale di massa, piaccia o no alla sinistra”. Questo passaggio ha riassunto un punto importante della logica della premier: i partiti politici di opposizione e la magistratura che si occupa di far applicare le leggi sull’immigrazione sono la stessa cosa.
Non è vero che secondo i giudici “non esistono Stati di provenienza sicuri”
L’attacco è andato più nel dettaglio: “Considero irragionevoli alcune decisioni di una parte della magistratura”, che cerca di “far passare il principio che non esistono Stati di provenienza sicuri”. La frase è rivolta ai giudici che hanno valutato i trattenimenti delle persone migranti in Albania, e che li hanno bocciati tutti e diciannove.
In realtà, però, nessuna sentenza ha affermato che “non esistono Stati di provenienza sicuri”. Nelle loro decisioni, i giudici della sezione Immigrazione del Tribunale di Roma hanno applicato le direttiva europee sul tema. In particolare, la direttiva 32 del 2013 parla dei Paesi sicuri, e agli articoli dal 36 al 38 fissa diversi paletti da seguire. Uno di questi è proprio che ci deve essere un “esame individuale della domanda”, e che il Paese deve essere sicuro “nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente”.
Questi paletti sono stati aggiornati da una sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre che aveva anticipato il flop dei centri in Albania, cosa di cui anche il governo si era reso conto. Alla luce della sentenza, le regole europee affermano che bisogna valutare caso per caso se uno Stato è sicuro per la specifica persona che sta chiedendo asilo. E per essere considerato sicuro, questo Stato deve esserlo per tutti: tutte le minoranze e i gruppi sociali, in tutto il territorio del Paese. Che è ben diverso dal dire che “non esistono Stati sicuri”.
Non è vero che le sentenze sui Paesi sicuri rendono “impossibili i rimpatri”
Insomma, la premessa alla base del discorso della premier era distorta. E lo è diventata ancora di più quando ha detto che questa attività dei giudici – applicare le sentenze e le norme europee – potrebbe “precludere ogni possibilità di controllare le frontiere” e “rendere i rimpatri impossibili”. Ma la questione dei Paesi sicuri non ha niente a che fare con i rimpatri in sé: riguarda solamente per le procedure accelerate per l’asilo.
Le procedure accelerate, lanciate dal governo Meloni e che nei prossimi anni partiranno anche a livello europeo, permettono un risultato più rapido: l’intero iter si completa in 28 giorni, almeno sulla carta. Ma, proprio perché sono procedure con tempi stretti, danno meno garanzie e opportunità di difendersi a chi fa domanda di asilo. Perciò possono esservi sottoposti solamente coloro che vengono già da Paesi sicuri.
Tutti gli altri non ottengono automaticamente (come sembrerebbe invece suggerire Meloni) un permesso di soggiorno in Italia. Semplicemente, vengono sottoposti alla normale procedura di domanda d’asilo, più corretta e approfondita, che può avere esito positivo o negativo. Dunque, il rimpatrio o l’espulsione restano pienamente possibili.
L’esempio sbagliato di Meloni
Meloni si è spinta oltre, dicendo che sentenze come quelle sui trattenimenti in Albania rendono impossibili i rimpatri non solo “di chi non ha titolo, ma persino di chi commette reati in Italia”. Ha fatto un esempio concreto: il 21enne che ha accoltellato un capotreno a Genova, cittadino egiziano che in precedenza aveva fatto richiesta di protezione internazionale. “Secondo queste interpretazioni della magistratura non potrebbe essere rimpatriato perché l’Egitto non è considerato un Paese sicuro”, ha detto la premier.
Al di là del caso concreto, dove la magistratura valuterà il da farsi, è semplicemente falso dire che chi viene da un Paese considerato non sicuro non possa essere rimpatriato. Come detto, significa solamente che si applicherà la procedura ‘ordinaria’. Se la persona che chiede asilo non rientra in una categoria i cui diritti sono violati nel suo Stato di origine, e non ci sono altri gravi motivi di pericolo personale, il rimpatrio può scattare comunque. A meno che manchino gli accordi di rimpatrio tra l’Italia e quello Stato, ma questa è responsabilità del governo.
Il finto stupore della premier davanti a un comunicato dei giudici
La presidente del Consiglio ha poi usato un trucco retorico, proseguendo il discorso. Ha detto: “Nelle ultime ore i giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma si sono probabilmente accorti di questo cortocircuito e hanno diramato un comunicato”. In realtà il comunicato in questione è sì una risposta al “cortocircuito” inventato da Meloni, ma non è arrivato perché i giudici in questione se ne sono accorti.
È una nota che risale a quattro giorni fa, e che con tutta probabilità è arrivata perché molti esponenti del centrodestra – tra cui la presidente del Consiglio – continuavano a ripetere informazioni false su come funzionano i rimpatri. Il comunicato, come ha letto Meloni, recita: “L’esclusione di uno Stato dal novero dei Paesi di origine sicuri non impedisce il rimpatrio e/o l’espulsione della persona migrante la cui domanda di asilo sia stata respinta o che comunque sia priva dei requisiti di legge per restare in Italia”.
n sostanza, quello che è stato detto finora. Dire che un Paese non è sicuro non impedisce il rimpatrio di nessuno, ma blocca solamente le procedure accelerate. Meloni però ha reagito come se queste frasi non avessero nessun senso: “Confesso che mi sono persa”.
“Forse io non sono un raffinato giurista, ma in buona sostanza ci si sta dicendo che noi non possiamo impedire l’ingresso in Italia di un egiziano perché l’Egitto non è un Paese sicuro, ma lo possiamo rimpatriare in Egitto. Ditemi voi”, ha continuato, insistendo su un’idea sbagliata di come funzionano i rimpatri.
Non è vero che “gli italiani hanno chiesto” i centri in Albania
Per concludere, Meloni è tornata all’attacco suggerendo che i giudici agiscano con motivazioni politiche: “Non capisco la ratio. A meno che la ratio di alcune decisioni non sia impedire a questo governo di controllare i flussi dell’immigrazione illegale di massa”. Si è tornati così al governo accerchiato e sotto attacco.
Una situazione – inesistente, nei fatti – da cui la premier è uscita con un appello agli elettori: “Ma cercare di fermare il flusso dell’immigrazione irregolare di massa è quello che gli italiani ci hanno chiesto di fare. E per me il punto è tutto qui. Non perseguo nessuno scontro con nessuno, ho rispetto per le istituzioni di questa Repubblica, ma devo poter fare il mio lavoro, devo poter mantenere gli impegni che ho preso con il popolo italiano”.
Bisogna ricordare che l’impegno preso dal centrodestra con il popolo italiano alle ultime elezioni, nel 2022, poteva essere semmai quello di ridurre l’immigrazione irregolare. Sicuramente nessun elettore ha votato Fratelli d’Italia per la promessa specifica di costruire dei centri migranti in Albania.
Il protocollo con il governo albanese è stata una decisione specifica presa dall’esecutivo di Meloni, e non si può ‘scaricare’ sugli elettori. È sempre possibile che un governo o una forza politica, per raggiungere un obiettivo elettorale, facciano delle scelte sbagliate. E la responsabilità non è di chi li ha votati perché era d’accordo con quell’obiettivo.
Non è vero che la magistratura deve mettere Meloni “in condizione di lavorare”
Infine, Meloni ha inserito un accenno ai suoi sacrifici personali di Meloni – del tutto simili a quelli dei molti presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta, si presume: “Posso lavorare giorno e notte (lo faccio) posso rinunciare a tutto (già l’ho fatto), l’unica cosa a cui non rinuncerò è essere la persona seria che sono sempre stata. Quando prendo un impegno lo porto a casa e mi si deve mettere nella condizione di farlo”.
Un ultimo aspetto da tenere a mente è che, in realtà, non c’è nessun obbligo di “mettere” una premier “nella condizione” di realizzare un programma elettorale. Innanzitutto, dal punto di vista politico, l’opposizione ha il diritto di contestare l’operato di un governo. Ma soprattutto, lo scopo della magistratura non è “mettere in condizione” un esecutivo di fare quello che vuole. Piuttosto, è valutare se e quando delle leggi non vengono applicate, da chiunque.
Insomma, un governo non può fare delle cose che non rispettano le norme in vigore e poi lamentarsi se i giudici lo riconoscono, dicendo che quella è la volontà popolare.
La Costituzione recita che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, ma “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, e non alla volontà degli elettori. E sottolinea che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Incluso quello del governo.
(da Fanpage)
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