Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
DOPO LE EUROPEE DEL 2019, C’E’ STATA UNA EMORRAGIA DI VOTI PER IL CARROCCIO, LA BASE SI INTERROGA E METTE NEL MIRINO IL CAPITONE (E VANNACCI): “ERRORE COLOSSALE LA SVOLTA A DESTRA”…IL MALUMORE CRESCENTE NEL PARTITO
La Lega, partito che fu egemone in Veneto, sta morendo? No, è ancora lì, i leghisti ne sono sicuri. Ma è esangue e per rianimarla bisogna tornare alle origini di sindacato del Nord, abbandonare il Sud al proprio destino, parlare di nuovo di territorio, imprese, operai e casalinghe, di Autonomia. Può sopravvivere – dice chi la conosce e la vive da decenni – se impara dai propri errori e si sveste dell’abito centralista indossato per volere del segretario Salvini, magari tirando fuori dall’armadio quello federalista.
E soprattutto, abbandonando il profumo di estrema destra che è arrivato a portare il nome del generale Vannacci.
Cambiare le parole d’ordine, ripartire dalle radici. Da quel trionfo clamoroso che furono le elezioni Europee del 2019, in cui il Carroccio si portò a casa in Veneto quasi il 50% dei consensi, fino all’apice dell’epopea zaiana nel 2020 con quasi il 77% dei consensi, si è arrivati al crepuscolo: 14,5% alle Politiche del 2022, 13,1% alle Europee 2024, triplicati dall’alleato FdI. E allargando il raggio ai voti extra veneti, la discesa agli inferi in Emilia Romagna (dal 31 al 5%) e in Umbria (dal 36 al 7%) del weekend.
E allora la domanda se la fanno tutti, considerato che il Veneto non più Serenissimo si avvicina a grandi falcate verso le urne, probabilmente senza il «golden boy» delle grandi vittorie Luca Zaia: la Lega sta sparendo? E come fare per rianimarla?
Favero: «Errore colossale la svolta a destra»
I leghisti di casa nostra chiedono di accantonare i progetti della seconda vita del Carroccio, quella senza la parola Nord. A partire dal consigliere regionale Marzio Favero, teorico del leghismo originale: «Sono un federalista impenitente e resto convinto che la visione degli Stati centralisti e sovrani sia una salma del Novecento che merita degna sepoltura. È stata una scelta corretta andare a cercare consensi anche al Sud, ma si sarebbe dovuto fare senza dimenticare nostra identità.
La svolta a destra invece è stata un errore colossale, e ne stiamo vedendo tutti gli effetti: quel nazionalismo nascosto dietro la foglia di fico del sovranismo tradisce la matrice stessa della Lega».
Cita anche la svolta anti-europea, «che non risponde al pensiero politico del nostro movimento»: «Quello che occorre ora – rileva Favero – non è tornare ingenuamente alle origini, ma abbandonare il populismo e spiegare all’elettorato senza facili slogan le nuove logiche economiche e sociali. Spero che questa la lezione, o sberla, degli elettori porti un serio risveglio delle coscienze».
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
DA GIORNI L’ATENEO ROMANO E’ SCOSSO DA SCONTRI E PROVOCAZIONI
Ondata di tensioni all’Università La Sapienza di Roma, con giorni di scontri tra studenti dei collettivi di sinistra e il gruppo di destra Azione Universitaria. Tutto è legato al clima delle elezioni studentesche in corso che hanno portato a diversi momenti di violenza in questi giorni e all’intervento delle forze dell’ordine.
La situazione è degenerata oggi 22 novembre quando i collettivi studenteschi, riuniti in assemblea fuori dalla Facoltà di Giurisprudenza, hanno deciso di muoversi in corteo verso Economia, presidiata dagli studenti di destra. Qui sono intervenute le forze di polizia, bloccando i manifestanti all’altezza di via del Castro Laurenziano e viale Ippocrate, dove sono avvenute alcune cariche di alleggerimento.
Alcuni studenti riferiscono di essere stati colpiti durante le operazioni. «Fuori i rossi dall’università», «Polimeni caccia gli abusivi»: sono alcuni dei cori del movimento universitario di destra.
In un muro dell’università è apparsa la scritta «DUX», che i gruppi antifascisti hanno scelto di trasformare in «Daxx» per camuffare la parola originale. Sulla vicenda, è intervenuta anche la ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, che si è messa in contatto con la rettrice de La Sapienza, Antonella Polimeni, per essere aggiornata sugli episodi di violenza in ateneo.
Prima le svastiche, poi gli scontri alla Sapienza
La tensione all’interno della città universitaria non è cosa nuova. Nei giorni scorsi, i collettivi avevano denunciato che alcuni manifesti elettorali erano stati imbrattati con svastiche, un gesto che, secondo loro, conferma la presenza di un clima intimidatorio legato ai gruppi di destra. Negli scontri di ieri, un vigilante è rimasto ferito alla testa da una bottiglia lanciata durante il caos. Nel frattempo, i collettivi come Cambiare Rotta accusano la rettrice Antonella Polimeni di minimizzare il problema e denunciano un atteggiamento di tolleranza verso il «risorgere del fascismo» negli ambienti accademici. Mentre i due gruppi rimangono contrapposti, la Sapienza si trova ancora una volta al centro di uno scontro ideologico e politico, che evidenzia un clima di divisione e di intolleranza crescente. Con assemblee e manifestazioni già in programma, il rischio di una nuova escalation di violenze resta concreto.
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
FORZA ITALIA SI OPPONE IN DIFESA DEI BERLUSCONI, PERCHÉ LA MISURA PORTEREBBE COME CONSEGUENZA A UN AUMENTO DEL TETTO PUBBLICITARIO DELLA TELEVISIONE PUBBLICA NEL 2025, A SPESE DI MEDIASET
L’ammissione dello stallo spetta al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani. «L’emendamento sul canone Rai non è chiuso, è una questione di cui stanno discutendo i vertici della maggioranza», rivela davanti alla porta della commissione Bilancio del Senato chiamata a votare le modifiche al decreto fiscale, il provvedimento che accompagna la legge di bilancio.
Doveva. La seduta salta. Rinviata a lunedì pomeriggio. Agganciata all’esito del vertice tra Giorgia Meloni e i due vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini
Il riferimento di Ciriani ai contatti tra i leader non è casuale. Senza un accordo politico, il collegato alla manovra non può andare avanti. Eppure il ministro ci prova per tre ore a convincere i senatori di Forza Italia che siedono nella quinta commissione di Palazzo Madama, Dario Damiani e Claudio Lotito, a dare il loro assenso all’emendamento della Lega che chiede di prorogare la riduzione del prelievo in bolletta per la tv di Stato, da 90 a 70 euro, anche l’anno prossimo.
Ma alla prova del voto, Forza Italia punta i piedi. I due parlamentari chiedono a Ciriani il parere favorevole del governo sui loro emendamenti. Solo così, ragionano, la spartizione delle modifiche concesse alla maggioranza può risultare equilibrata.
Il timore è restare indietro rispetto al Carroccio, che oltre al taglio del canone Rai ha buone possibilità di portare a casa anche un segnale importante per le partite Iva con un volume d’affari fino a 170 mila euro: il rinvio e la rateizzazione del maxi acconto di novembre, includendo anche i contributi previdenziali e assistenziali
Ma è sul canone Rai che si consuma la sfida più agguerrita. Anche Damiani rimanda al vertice dei leader. Di fronte alla messa in discussione della misura, la Lega tiene il punto sull’emendamento che prevede anche un rimborso di 430 milioni a Viale Mazzini per i mancati introiti che deriverebbero dal canone ridotto.
La contesa impone lo slittamento del decreto fiscale. E prepara il vertice a tre che dovrà sciogliere anche altri nodi. Il leader di FI, Antonio Tajani, spinge per inserire il taglio dell’Irpef del ceto medio nella manovra, insieme all’aumento delle pensioni minime. I leghisti non stanno a guardare. Giocano d’anticipo con gli emendamenti “super segnalati”: flat tax per i dipendenti, più soldi per il Ponte sullo Stretto e meno tasse sulle criptovalute. Il percorso della manovra in Parlamento è ancora tutto da tracciare.
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
ENTRA NELLA MAGGIORANZA URSULA CON MACRON E SCHOLZ E MANDA AVANTI CIRIANI AD ANNUNCIARE LA RIMOZIONE DELLA FIAMMA DAL SIMBOLO DI FRATELLI D’ITALIA. UN BALLON D’ESSAI PER TASTARE IL TERRENO CON LA RIDOTTA DI NOSTALGICI (CHE “PESANO” PER UN 3-4% DI VOTI)… GIOCA UN RUOLO ANCHE IL CALO DI CONSENSI: FDI E’ CALATA ALLE REGIONALI E NON INCASSA PIU’ I VOTI IN USCITA DALLA LEGA (CHE ORA FINISCONO NELL’ASTENSIONE)
Con l’ok a Raffaele Fitto nella nuova Commissione europea, Ursula Von Der Leyen vede pian piano trasformarsi la sua maggioranza all’Europarlamento.
I Verdi, che l’avevano sostenuta già nel primo mandato ed erano disponibili a farlo anche nel secondo, sembrano scivolare pian piano alla periferia dei giochi che contano, scontando forse il marchio “infame” di essere i sostenitori del dannosissimo Green Deal.
Al loro posto, tomo tomo cacchio cacchio, avanza la delegazione di Fratelli d’Italia, che ha già annunciato il voto a favore della commissione Von der Leyen, lasciando, come annunciato dal meloniano Procaccini, libertà di coscienza e di voto ai compari di Ecr. Della serie: noi ci intruppiamo, voi fate come ve pare.
L’avvicinamento alle stanze del potere di Bruxelles è l’ultima camaleontica mossa di Giorgia Meloni. La Ducetta vuole farsi finalmente accettare in Europa, anche nelle cancellerie che l’hanno sempre ostracizzata, come Parigi o Berlino.
A favorire questo suo piano ci sono da un lato la debolezza di Macron e Scholz, dall’altro la vittoria alle presidenziali americane di Donald Trump.
Il tycoon, ideologicamente, non è lontano dal populismo sovranista di Fratelli d’Italia, ma rappresenta una minaccia reale per l’economia europea tra dazi, aumento delle spese militari, disimpegno americano e altre fregature che il ciuffo arancione si prepara a rifilarci.
Con un presidente alla Casa Bianca che non le bacia la capoccia, e che non la elogia per le sue professioni di atlantismo, ma le chiede di spendere soldi (e non chiacchiere) per arrivare al 2% del Pil in difesa, la Ducetta preferisce rintanarsi nella comoda congrega europea, dove ci si detesta un po’ tutti, ma almeno ci si conosce.
A conferma di questo suo rinnovato, paraculissimo, “europeismo”, c’è la sua tiepida reazione di fronte alla “Lega dei conservatori” proposta da Milei.
Una sorta di asse mal-destro che dovrebbe includere il puzzone-in-chief Donald Trump. Un progetto molto utile per il governo di Buenos Aires, che ha l’economia in coma e un disperato bisogno di aiuto da Washington, ma non così utile per l’Italia, che dalle future mosse della Casa Bianca potrebbe avere solo guai.
Il desiderio della Sora Giorgia di non essere più la reietta nell’UE è dettato anche da fattori “domestici”. La Ducetta della Garbatella vede pian piano affievolirsi la spinta propulsiva di entusiasmo e consensi che l’ha issata a palazzo Chigi due anni fa. L’ultima tornata elettorale in Liguria, Umbria ed Emilia Romagna, ha certificato una flessione di Fratelli d’Italia.
Lo sciopero nazionale di medici e infermieri, nonostante i dati discordanti sull’adesione (i sindacati parlano dell’85% di partecipanti, il Governo dell’1%), ha messo in difficoltà la Ducetta, che sa bene quanto il tema della sanità sia cruciale per gli italiani, ben più di immigrati e cancel culture.
E assistere a una sollevazione dei camici bianchi, che certifica lo stato disastroso degli ospedali italiani, è un pessimo segnale per i consensi di domani. I cittadini s’innamorano facilmente di slogan e proclami ma quando scoprono che per una tac devono aspettare un anno, s’incazzano e si sfogano nelle urne.
Anche se a Palazzo Chigi hanno provato a minimizzare le recenti scoppole elettorali, addebitandole a candidati sbagliati (nello specifico la scelta, in Umbria, di Donatella Tesei, imposta da Salvini), è anche vero che i numeri parlano chiaro: si è arrestato il meccanismo di travaso e “compensazione” di voti che finora aveva pian piano indebolito la Lega e irrobustito Fdi
Ora, chi non vota più per il Carroccio o per Forza Italia non sceglie la Meloni ma l’astensione. Anche questo è un pessimo segnale per la maggioranza di Governo.
Nel tortuoso processo di “sbianchettamento ideologico” (per essere accettata da popolari, socialisti e liberali in Europa), rientra anche la sparata, meno casuale di quanto non appaia, del fedelissimo della premier, Luca Ciriani, sull’opportunità di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia.
L’intervista con cui il ministro per i rapporti con il Parlamento ha ipotizzato la rimozione del simbolo caro ai post fascisti è un ballon d’essai, per vedere l’effetto che fa.
Cioè tastare il terreno verso quello zoccolo duro di sostenitori del partito (3-4%) composto da veri nostalgici.
Tra l’altro, “spegnere la fiamma” sarebbe un vero ritorno alle origini di Fratelli d’Italia: quando Meloni, Crosetto e La Russa lanciarono il partito, c’era un nodo non la fiamma. Quella comparve solo più tardi, insieme al nome Meloni…
(da Dagoreport)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
LO PSICODRAMMA NEL CARROCCIO È INIZIATO DOPO CHE LUCA ZAIA È USCITO ALLO SCOPERTO (“SE PERDIAMO QUI VA TUTTO A ROTOLI”)… A VENEZIA SI PREPARA LA SCISSIONE, CON UNA “LISTA ZAIA”
Le parole di Luca Zaia (“Se perdiamo il Veneto va tutto a rotoli. L’autonomia non vogliono farcela fare ed è per quello che non si prendono i voti…”) hanno messo ufficialmente in discussione la linea politica di Salvini.
Pur essendo l’unico a essersi esposto in maniera chiara, il Governatore del Veneto si è fatto portavoce di un crescente malumore nel partito.
Persino i fedelissimi del “Capitone”, come Claudio Durigon, e il vicesegretario Andrea Crippa, sono in imbarazzo per le difficoltà nel Carroccio. Al punto che lo stesso sottosegretario al Lavoro va ripetendo in Transatlantico che “qualcosa va fatto”. Il timore all’interno della Lega è che, dopo aver perso l’Umbria con la sconfitta di Donatella Tesei, si possa arrivare, nel 2025, allo smacco più grande: la perdita del fortino-cassaforte del Veneto.
Su questo argomento sarà cruciale per il destino di Salvini, e probabilmente del suo stesso partito, il vertice, a cui il ministro dei Trasporti parteciperà insieme a Giorgia Meloni e Antonio Tajani, prima del 12 dicembre. Al centro dell’incontro le candidature alle Regionali in Veneto del prossimo anno.
È facile immaginare che la discussione tra la premier e i suoi due vice prenda subito una piega spicciola: Salvini potrebbe accusare Tajani di avere in saccoccia un bottino fin troppo ricco.
Della serie: Forza Italia ha qualche punto in più di noi nei sondaggi, eppure governa quattro regioni (Piemonte, Calabria, Sicilia e Basilicata). A questa sparata la Meloni avrebbe gioco facile nel ribattere: e che dire di voi della Lega, che con l’8% amministrate Veneto, Friuli e Lombardia, mentre io, a capo del partito di maggioranza relativa, mi ritrovo solo Lazio, Abruzzo e Marche?
La Liguria, agli occhi di Giorgia Meloni, non è di nessuno. Anzi, è di Marco Bucci, che è stato sì scelto da lei, ma che ha preteso, nel momento dell’accettazione della candidatura, di avere carta bianca su tutto. Infatti, è stato l’ex sindaco di Genova a scegliere tutti i nomi della sua giunta, senza prendere ordini da Roma.
La Ducetta farà anche presente che il suo principale competitor, cioè il Pd, governa ben quattro regioni importanti (Puglia, Campania, Toscana ed Emilia Romagna), e che quindi il prossimo candidato in Veneto dovrà essere a tutti i costi di Fratelli d’Italia.
Salvini ha capito che la successione a Zaia diventa esiziale per la sua sopravvivenza politica. E oggi, in un’intervista al “Messaggero” ha provato ad alzare un po’ la cresta: “Chiaro, chiederemo il Veneto e anche il terzo mandato”.
E poi ha ribadito il concetto: “Proporremo che continui a essere la lega a guidare il Veneto”. Ma il segretario leghista sa che una cosa è chiedere, un’altra è ottenere. Il vero problema, per lui, sarà spiegarlo ai suoi compagni di partito…
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
DIMINUISCONO DELL’8,4% LE SEPARAZIONI E DEL 3,3 I DIVORZI… CRESCE IL NUMERO DI SECONDE NOZZE, CELEBRATE QUASI TUTTE CON RITO CIVILE
Nei primi otto mesi del 2024 c’è stata una diminuzione dei matrimoni rispetto allo stesso periodo del 2023, con un calo del 6,7%. Lo afferma l’Istat sottolineando che si tratta di un dato che conferma il calo già registrato nel 2023, quando si sono celebrati in Italia 184.207 matrimoni, il 2,6% in meno rispetto al 2022.
I matrimoni religiosi presentano un calo consistente rispetto all’anno precedente (-8,2%), accentuando una tendenza alla diminuzione già in atto da tempo. Sono in aumento, invece, le unioni tra partner dello stesso sesso: +7,3% rispetto all’anno precedente. Di queste, il 56,1% riguarda unioni tra uomini.
Calano divorzi e separazioni nel 2023: sono 82.392 le separazioni (-8,4%) e 79.875, -3,3% i divorzi, ben il 19,4% in meno nel confronto con il 2016, anno in cui sono stati finora i più numerosi (99.071). Lo rende noto l’Istat. Il trend dei divorzi è stato sempre crescente dal 1970 (anno di introduzione del divorzio) fino al 2015.
In questo anno il numero di divorzi subì una forte impennata (+57,5%) in relazione all’entrata in vigore di due provvedimenti: il Decreto legge 132/2014, che ha introdotto le procedure consensuali extragiudiziali senza più il ricorso ai Tribunali e soprattutto la Legge 55/2015 (il “divorzio breve”).
Nel 2023 il 58,9% dei matrimoni è stato celebrato con rito civile, in continuità con il valore dell’anno precedente (56,4%) e in linea con l’aumento tendenziale osservato nel periodo pre-pandemico (52,6% nel 2019). La quota particolarmente elevata di matrimoni civili osservata nel 2020 (71,1%) ha costituito quindi un’eccezione, determinata dalle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria che hanno colpito soprattutto le celebrazioni con rito religioso.
Lo rileva l’Istat. Il rito civile è chiaramente più diffuso nelle seconde nozze (95%), essendo spesso una scelta obbligata, e nei matrimoni con almeno uno sposo straniero (91,2% contro 52,7% dei matrimoni di sposi entrambi italiani). La scelta del rito civile va però diffondendosi sempre di più anche tra i primi matrimoni (47,5% nel 2023). Considerando i primi matrimoni tra sposi entrambi italiani (86,1% del totale dei primi matrimoni) l’incidenza di quelli celebrati con rito civile è del 41,0% nel 2023 (33,4% nel 2019 e 20,0% nel 2008).
La variabilità territoriale per tale tipologia di coppia è spiccata: si riscontrano incidenze di celebrazioni con rito civile più basse nel Mezzogiorno (23,9%) e più alte nel Nord (56,1%). La scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni (74,3%) si conferma tendenzialmente in crescita rispetto al passato (40,9% nel 1995, 62,7% nel 2008 e 73,4% nel 2022).
Aumentano le seconde o successive nozze: nel 2023 sono state 44.320, finora il valore più alto mai registrato (la quota sul totale dei matrimoni è del 24,1%). Questa percentuale solo nel 2020 era stata più elevata (28%) ma la circostanza si verificò in realtà come conseguenza di una congiuntura sfavorevole che fece contrarre in modo più deciso i primi matrimoni e, tra questi ultimi, quelli religiosi.
L’aumento delle seconde nozze per almeno uno degli sposi è del 3,3% rispetto al 2022; se entrambi gli sposi hanno un matrimonio precedente alle spalle l’aumento è più consistente (+7,2%). Lo rileva l’Istat nel report matrimoni, unioni civili, separazioni, divorzi. Il 15,8% degli sposi e il 14,8% delle spose ha alle spalle un divorzio, ma tali percentuali mostrano un andamento crescente di pari passo all’aumentare dell’età dei nubendi; il 52,2% degli sposi e il 52,8% delle spose dai 50 anni in poi ha sciolto il proprio vincolo coniugale tramite il divorzio.
Solo l’1,5% degli sposi e lo 0,9% delle spose prima del matrimonio era vedovo; le percentuali salgono, rispettivamente, al 6,3% e al 4,6% se si considerano sposi e spose dai 50 anni in poi. L’aumento delle seconde nozze, registrato soprattutto nel biennio 2015-2016 come conseguenza dell’introduzione nel 2015 del “divorzio breve”, ha fatto seguito una progressiva stabilizzazione che si è protratta fino al 2019.
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
L’IPOTESI PIÙ ACCREDITATA: MANTENERE LE DELEGHE AL PNRR A PALAZZO CHIGI (AFFIDANDOLE A MANTOVANO O FAZZOLARI) E AFFIDARE GLI AFFARI COMUNITARI A ELISABETTA BELLONI
Per Giorgia Meloni la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione europea è una vittoria personale. E però di qui in poi la premier ha davanti a sé tre grossi problemi politici.
Il primo: la successione ad un ministro che assommava più deleghe di chiunque altro: Pnrr, Sud, politiche di coesione e Affari comunitari. Con tutta probabilità Fitto rassegnerà le dimissioni fra il due e il tre di dicembre, subito dopo il voto del Parlamento di Strasburgo al bis di Von der Leyen
«Giorgia risolve le questioni una alla volta, quando le si parano addosso», dice un ministro che la conosce bene. Qui però di tempo a disposizione la premier ne ha poco. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza marcia lento. Secondo un’elaborazione degli ultimi dati presentati dallo stesso Fitto nella seconda metà di luglio l’Italia ha speso una media di 65 milioni al giorno. Per raggiungere l’obiettivo di spendere tutte le risorse entro il 30 giugno del 2026 occorrerebbe procedere ad una velocità più che tripla.
Fitto – che di qui in poi sovrintenderà al piano italiano da Bruxelles – ha detto esplicitamente a Meloni di ritenere un errore lo spacchettamento delle sue deleghe, alle quali sono candidati alcuni colleghi di Fratelli d’Italia, da Edmondo Cirielli a Marco Osnato.
A Palazzo Chigi l’argomento è oggetto di discussione. L’ipotesi al momento più forte è quella di mantenere le deleghe a Palazzo Chigi, affidandole a uno dei due vice di Meloni, Giovanbattista Fazzolari o Alfredo Mantovano. Per la delega agli Affari comunitari, che in un primo momento Meloni sembrava intenzionata ad assumere ad interim, crescono le quotazioni dell’ex ambasciatrice e direttrice del Dis Elisabetta Belloni.
La faccenda della successione a Fitto è complicata dall’inchiesta giudiziaria che coinvolge la ministra del Turismo Daniela Santanché. La settimana prossima è prevista l’udienza a Milano che potrebbe portare al rinvio al giudizio per falso in bilancio sul caso Visibilia.
Se così fosse, Santanché potrebbe essere spinta alle dimissioni e Meloni si troverebbe costretta a sostituire due ministri e a salire al Colle per discutere con il capo dello Stato il rimpasto di governo, cosa che la premier ha fin qui cercato di evitare.
Il secondo problema che apre la nomina di Fitto è la rottura della premier in Europa con l’alleato leghista il quale – come annunciato – non voterà il sì al bis di Von der Leyen. Diceva ieri in aula alla Camera dei deputati Stefano Candiani: «Ci congratuliamo per Fitto, ma votiamo no a Von der Leyen».
Il capogruppo leghista a Strasburgo Paolo Borchia parla quasi come se fosse all’opposizione: «Nel centrodestra ci sono sensibilità diversa e noi non siamo la stampella di nessuno».
Di recente Meloni ha chiesto in maniera esplicita, e spesso polemica, al Partito Democratico di sostenere Fitto. Ora le opposizioni hanno buon gioco a mettere il dito nella piaga delle contraddizioni della maggioranza: «Immagino che la presidente Meloni stia scrivendo un tweet sulla condotta anti italiana della Lega a proposito del voto sulla Commissione», ironizza Andrea Orlando del Pd.
Sulla carta la rottura fra i due alleati è un bizantisimo all’italiana, nei fatti una faccenda delicata da gestire. Se ne stanno accorgendo i dirigenti di Fratelli d’Italia impegnati nel tentativo di convincere le altre delegazioni dei Conservatori a votare a favore di Von der Leyen.
Difficile, se non impossibile, contare sui polacchi del Pis . Le attenzioni ora sono rivolte ai Democratici svedesi. I conservatori di Ecr puntano sul fatto che il partito della destra scandinava, pur senza farne parte, sostiene il governo di Stoccolma e dunque non avrebbe motivo di dire no alla nuova Commissione. Ma l’argomento non sembra scalfire gli svedesi, i quali avrebbero fatto notare la contraddizione: «La Lega governa con voi, ma questo non gli impedisce di votare no».
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
L’ECONOMISTA: E’ IL CAPITALISMO SENZA FRENI A CREARE TERRENO FERTILE PER L’AUTORITARISMO
Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz nel suo nuovo libro La strada verso la libertà (Einaudi) ribalta la visione di Friedrich von Hayek. L’economista austriaco nel suo La strada verso la schiavitù sosteneva che l’intervento pubblico in economia fosse la tomba delle libertà. Stiglitz dice che è il capitalismo senza freni a creare terreno fertile per l’autoritarismo. Domani interverrà all’assemblea costituente del Movimento 5 Stelle. Oggi spiega al Fatto Quotidiano che il capitalismo neoliberista «allarga le disuguaglianze, porta alla stagnazione economica e consente alle aziende di abusare del proprio potere di mercato. Larghe fasce di popolazione non se la passano bene. Ne deriva un senso di alienazione che si traduce in consenso per demagoghi come Trump».
Il capitalismo progressista
Al suo posto nel colloquio con Chiara Brusini Stiglitz propone il capitalismo progressista: «Manterrebbe elementi di economia di mercato, ma con più regolamentazione per correggere i fallimenti del mercato stesso a partire dall’inquinamento, per garantire la concorrenza e per limitare le forme di sfruttamento che sono state al centro di larga parte del capitalismo. Con un maggior ruolo dei governi nella ricerca di base, nei servizi sanitari, nell’assistenza agli anziani, nell’istruzione superiore. E più spazio per tutte le forme di organizzazione che stanno tra il privato e lo Stato: società civile, Ong, cooperative, sindacati». Alla fatidica domanda “Cosa sta sbagliando la sinistra” risponde che «c’è stato un enorme fallimento nella comunicazione. Un esempio? Molti non sanno che Medicare e Social security sono programmi governativi. Lo stesso vale per Obamacare».
Il sistema truccato
Ma non è solo un problema di comunicazione: «I Dem, appoggiati a loro volta dalle istituzioni finanziarie e dai ricchi, hanno esitato ad adottare politiche che rispondessero davvero alle preoccupazioni dell’americano medio. Trump è stato bravo a dar voce al risentimento, a dire che il sistema è “truccato”, anche se non ha mai offerto soluzioni e nel suo primo mandato si è limitato a tagliare le tasse ai miliardari e alle corporation». Sulle grandi ricchezze da tassare, Stiglitz dice che «credo che l’Europa potrebbe imporre una wealth tax continentale: ci sono molti modi per evitare il rischio di elusione. Si può per esempio imporre una tassa di uscita a chi si trasferisce altrove».
Il Patto di Stabilità
Mentre le conseguenze della firma del Patto di Stabilità europeo per l’Italia saranno «pessime. È la solita austerità neoliberista vecchio stile. Gli europei dovrebbero essere preoccupati, soprattutto perché se Trump gonfierà il deficit statunitense e la Fed risponderà aumentando i tassi (per controbilanciare la spinta inflazionistica, ndr) la Bce potrebbe reagire alzandoli a sua volta per mantenere in equilibrio il cambio. In quel caso avreste una politica fiscale e una politica monetaria entrambe restrittive e l’economia rallenterebbe molto, di nuovo».
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2024 Riccardo Fucile
A RISCHIO IL RAGGIUNGIMENTO DI QUOTA 361 MERCOLEDI ALL’ASSEMBLEA PLENARIA
«Qualche voto Ursula ora se lo deve conquistare». Mercoledì sera il capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, il tedesco Manfred Weber, con alcuni eurodeputati del suo gruppo – tra cui alcuni italiani – lasciava cadere questa esortazione. «Qualche voto se lo deve conquistare».
Il riferimento era alla “fiducia” che l’“Ursula bis” chiederà mercoledì prossimo nel corso dell’assemblea plenaria di Strasburgo. Perché lo scontro di questi giorni su Raffaele Fitto e Teresa Ribera ha lasciato sul terreno più di un detrito, diversi malumori e molte intenzioni di non confermare il voto positivo
La maggioranza di von der Leyen, sebbene potenzialmente ampia, rischia dunque di essere adesso sul filo del rasoio. E i più malmostosi si trovano proprio nel campo socialista di S&D. Consapevoli che il loro ruolo in questa legislatura sarà secondario e che i Popolari lasceranno comunque attivo il “doppio forno” con le destre.
Facendo un po’ di conto, allora, si vede che la coalizione Ppe-S&D-Renew conta su 401 potenziali sostenitori e la maggioranza è fissata a quota 361. I Popolari sono 188, i socialisti 136 e i liberali 77.
Dentro questo schieramento si notano, appunto, già molte defezioni. I socialisti francesi (tredici deputati) hanno già annunciato che non voteranno a favore di Ursula. Per loro, la presenza di Fitto è un ostacolo, e lo scontro domestico con Marine Le Pen ha un peso decisivo.
Nell’assemblea di gruppo di mercoledì scorso anche i tedeschi (quattordici parlamentari) hanno riservatamente fatto sapere che non possono appoggiare von der Leyen.
Pure in questo caso le vicende interne e la campagna elettorale già avviata in Germania sono determinanti. Con loro hanno comunicato seri dubbi anche le delegazioni belga (4 membri) e olandese (4). Persino nel Pd emergono contrarietà come quella dell’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. A questi potrebbero aggiungersi altri “oppositori” isolati.
La conta porta allora a prevedere una quarantina di potenziali “no”.
Anche tra i Popolari stanno emergendo dei distinguo. In particolare tutti sono convinti che i 22 rappresentanti spagnoli, per niente soddisfatti del via libera alla loro connazionale socialista Teresa Ribera, non accenderanno il disco verde. Infine, nonostante il pressing del presidente francese Emmanuel Macron, pure dentro Renew sono attese una decina di defezioni.
I franchi tiratori quindi vengono calcolati tra 70 e 80. I 401 di partenza, allora, potrebbero scendere intorno a 330. Il gruppo Verde (53), contrariamente a quanto accaduto a luglio scorso, stavolta non verrà in soccorso.
Le destre dei Patrioti (solo da Orbán potrebbe esserci un colpo di scena sebbene sia irritato per la riduzione delle deleghe al suo commissario Varhelyi) e dei neonazisti di Afd non sono interessate a cambiare linea. Però ci sarà di certo una parte dei Conservatori dell’Ecr. I 24 di Fratelli d’Italia e altri sostenitori di varie nazionalità. Gli esponenti di Fdi ne calcolano più di quaranta.
In questo caso Ursula si ritroverebbe a superare quota 370. Quindi con una maggioranza certa, ma con il contributo determinante di Ecr. Si tratta però di un margine molto ristretto che espone la Commissione a più di un rischio. Va detto che il voto sarà a scrutinio palese e richiede una maggioranza semplice, ossia la maggioranza dei votanti e non degli aventi diritto. L’eventuale non partecipazione al voto, dunque, avrà solo l’effetto di abbassare il quorum. E molti potrebbero scegliere questa soluzione per esprimere la loro protesta senza eccessive conseguenze.
Resta il fatto che von der Leyen non vuole correre questo rischio e sta cercando di raggiungere una quota non inferiore a quella conquistata a luglio scorso. Da ieri, allora, l’inquilina di Palazzo Berlaymont si è messa al telefono per contattare tutti i perplessi. E ha cominciato dai Verdi. Ribadendo la promessa già fatta in estate: nessun passo indietro sul Green Deal. Basterà? Il pallottoliere di Ursula attende nuove adesioni. Partire azzoppata non sarebbe certo un buon viatico per l’”Ursula bis”.
(da La Repubblica)
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