Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
LA DEMAGOGIA LEGHISTA (IL SOLITO GIOCO DELLE TRE CARTE) DA UNA PARTE E LA TUTELA DELLA PUBBLICITA’ MEDIASET DALL’ALTRA
Al momento tutti i tentativi di trovare una mediazione in maggioranza sono falliti: sulla conferma del taglio del canone Rai da 90 a 70 euro, battaglia portata avanti dalla Lega sulla quale si registra l’opposizione di Forza Italia, non c’è intesa.
Le proposte di trovare un compromesso sono state rigettate da azzurri e leghisti che ormai sul tema hanno intrapreso un vero e proprio braccio di ferro.
Fratelli d’Italia voterà sì alla conferma del taglio, riferiscono fonti parlamentari. La posizione non cambia per FI. «Io so che già c’è stata un’interlocuzione tra i leader ma al momento – spiega una fonte azzurra – le posizioni restano invariate». Anche il presidente della Commissione Bilancio Dario Damiani ribadisce: «Noi siamo irremovibili. La nostra è una posizione storica, sul resto siamo tutti d’accordo ma la responsabilità», se si spacca la maggioranza, «non è nostra ma di chi porta avanti temi divisivi».
La Lega avrebbe respinto l’idea di stralciare il dossier per poi trovare una soluzione nella legge di bilancio alla Camera, i forzisti avrebbero detto no all’ipotesi di riformulare l’emendamento.
Da qui l’impasse, con i leader della coalizione Giorgia Meloni, Matteo Salvini ed Antonio Tajani deputati alla ricerca della fumata bianca. In commissione Bilancio al Senato si è cominciato a votare, ma l’articolo 1 – quello più spinoso – è stato accantonato, se ne parlerà questa sera dopo le ore 20.
Al momento il rischio per la maggioranza di andare alla conta c’è: qualora i due esponenti in Commissione non partecipassero al voto, finirebbe 10 a 10 e l’emendamento non passerebbe. Anzi, un esponente dell’opposizione riferisce che dagli azzurri sarebbe arrivato l’invito alle forze politiche che non sostengono l’esecutivo di uniformarsi alla posizione di FI. Ma il tentativo in atto è quello di scongiurare il muro contro muro, anche se gli appelli arrivati da FdI e dalla premier di abbassare i toni di litigiosità al momento non hanno portato i frutti sperati.
Il nodo sul canone Rai «è stato accantonato per ulteriori verifiche, lo trattiamo per ultimo, vediamo in serata» ha detto il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, a margine dei lavori della Commissione Bilancio. Intanto è impasse anche sulla questione della presidenza della Rai: domani la maggioranza diserterà ancora la riunione della Commissione di Vigilanza.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
L’ATTUALE TETTO E’ DI 25 MILIONI, PD E AVS AVEVANO PROPOSTO UN PICCOLO AUMENTO DI 3 MILIONI, IL GOVERNO LO VUOLE PORTARE A 42,3 MILIONI
Un avviso al Parlamento sarebbe arrivato dal Quirinale dopo che è stato depositato un emendamento al dl fiscale che riforma la ripartizione del 2 per mille ai partiti.
Tre sono i profili su cui si sarebbero registrati i rilievi del Colle, come scrive anche il Sole24 ore: le modifiche alla normativa vigente contenute nell’emendamento sono disomogenee rispetto al testo del decreto che deve avere le caratteristiche di necessità e urgenza, una riforma necessiterebbe di un provvedimento ad hoc più articolato e l’emendamento ha un impatto sulle finanze pubbliche.
Per questo dopo aver studiato la formulazione del testo, il capo dello Stato ha fatto sapere alla presidenza del Senato che in caso di via libera all’emendamento potrebbero esserci difficoltà al momento della firma.
Ma a cosa punta l’emendamento? Riscrive due proposte sulla stessa materia inizialmente presentati dal Pd e Avs (che aumentavano il fondo di 3 milioni rispetto alla dotazione precedente), e che dovrebbe essere messo ai voti in commissione Bilancio in Senato.
Il testo cambia il meccanismo, che diventa simile a quello dell’8 per mille, e prevede di fatto un finanziamento ai partiti con un aumento dei fondi, fino a 42,3 milioni nel 2025, rispetto all’attuale tetto di 25 milioni. Si passa dal 2 per mille dell’Irpef dei contribuenti che decidevano di destinare la loro quota ai partiti, allo 0,2 per mille totale: verrà assegnata anche la quota «inoptata», divisa in proporzione ai partiti in base alle scelte effettuate dai contribuenti.
«Per ciascun esercizio finanziario – si legge nell’emendamento – con riferimento alle dichiarazioni dei redditi relative al periodo d’imposta precedente, una quota pari al 0,2 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è destinata a favore di un partito politico iscritto nella seconda sezione del registro di cui all’articolo 4. Inoltre, in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse». Gli oneri vengono stimati valutati in 42,3 milioni di euro a decorrere dall’anno 2025.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
L’ARRIVO DI MARA CARFAGNA HA SCONQUASSATO I FRAGILI EQUILIBRI INTERNI E TRE SENATORI VOGLIONO LASCIARE
Gli “addetti ai livori” mormorano: il commento velenosetto su Facebook della signora Lupi, Emanuela Dalmiglio, all’ipotesi che il marito possa diventare sindaco di Milano (“Speriamo proprio di no, metta l’uomo prima della ideologia? L’egoismo prima di cosa? È proprio una sua caratteristica, parola di chi lo conosce veramente!”) non è un inciampo casuale.
Si vocifera infatti che l’ex ministro dei Trasporti ciellino si veda sempre meno a casa: un po’ per gli impegni di partito, molto perché in altre faccende affaccendato. I malevoli ricamano sulla sua nuova amicizia con una ricca imprenditrice di Biella.
E se a casa c’è maretta, anche nel piccolo partito di Lupi, “Noi moderati”, qualcosa non va. L’arrivo di Mara Carfagna da “Azione” di Calenda ha sconquassato gli equilibri interni della micro-formazione: lo spazio crescente riservato all’ex showgirl ha creato malumori, tanto che almeno tre parlamentari starebbero pensando di cambiare casacca, mettendo a rischio l’esistenza del gruppo al Senato.
L’inciampo arriva proprio nel momento in cui Maurizio Lupi, su mandato di Giorgia Meloni, sta provando a estendere la sua “egemonia” sui parlamentari del gruppo misto afferenti al centro-destra. L’obiettivo è razionalizzare il centro facendo affluire in Noi Moderati tutte le sigle, come già sta facendo con Centro popolare (restano Civici d’Italia, Udc e Maie)
Nei veleni di queste ore si aggiunge il sospetto che la premier stia volutamente dando più peso a Noi moderati di Maurizio Lupi, proprio per arginare i movimenti di Tajani e soprattutto quelli più impercettibili, ma insidiosi dei fratelli Berlusconi. Il nuovo protagonismo di Mara Carfagna nella formazione centrista alimenta i timori forzisti.
«Vedrete che si troverà un ministero per Lupi», si ripete da giorni in Forza Italia, forse per scongiurare questa eventualità. A Palazzo Chigi si spera che le tensioni con gli azzurri si affievoliscano nei prossimi giorni.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
VITTORIANA ABATE, GIORNALISTA IN FORZA A “PORTA A PORTA”, E MOGLIE DEL DEPUTATO DELLA LEGA SIMONE BILLI, HA PRESENTATO NEL MEZZOGIORNO DOMENICALE DI RAI3 LO SPECIALE “LE VOCI DELLE DONNE. NON CHIAMATELO AMORE”, RACIMOLANDO UN MISERO 1.96% DI SHARE CON UNA MEDIA DI 262.000 SPETTATORI
Ennesimo floppone di ascolti per TeleMeloni. Vittoriana Abate, giornalista in forza a Porta a Porta e moglie del deputato della Lega Simone Billi, ha presentato nel mezzogiorno domenicale lo speciale Le voci delle donne. Non chiamatelo amore, racimolando la fantasmagorica percentuale dell’1.96% di share con una media di 262.000 spettatori.
Leggendo i suoi social, però, Abate commenta questo risultato sotto il 2% (povera Rai3!) con un solenne: «Il successo della tv servizio pubblico è garantire un prodotto che assicuri un supporto al telespettatore. Grazie al pubblico che ha compreso il valore di questo racconto». E ancora: «Le voci delle donne è entrato nel cuore del pubblico di Rai3». Pensa se non ci fosse entrato…
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
TRADOTTO: DAL 2026 I PARTITI POTRANNO CONTARE SU 40 MILIONI DI EURO L’ANNO. QUASI IL DOPPIO DI QUANTO INCASSANO ORA, IL NUOVO MECCANISMO PREMIA LE FORZE MAGGIORI COME FDI E PD
I partiti si raddoppiano il finanziamento pubblico. Tutto parte da una coppia di emendamenti presentati da Pd e Avs al decreto fiscale, volti ad incrementare le risorse del due per mille destinate ai partiti. Le proposte prevedevano un contributo di 3 milioni in più per assicurare una copertura integrale delle scelte effettuate dai contribuenti. Scelte che quest’anno, raggiungendo i 28 milioni di euro, rischiavano di superare i 25,1 milioni di tetto previsto dalla legge.
La riformulazione definitiva del governo delle proposte modifica però in maniera sostanziale e molto più decisa le modalità di ripartizione delle risorse. A cambiare è quindi il meccanismo stesso del due per mille, attualmente in vigore da fine 2013: con gli emendamenti si fissa ora una soglia garantita dello 0,2 per mille sull’intero gettito Irpef, da ripartire tra le forze politiche, anche se il contribuente non esprime preferenze, con un tetto massimo da distribuire a 25,1 milioni.
I partiti a regime, dal 2026, potranno contare su circa 40 milioni di euro all’anno. Quasi il doppio di quanto incassano ora, se si pensa che con le ultime dichiarazioni Irpef hanno ricevuto circa 24 milioni. Di fatto è un contributo forzoso perché il contribuente che non destina lo 0,2 per mille a un partito si trova comunque a sostenere le forze politiche. Oggi invece il meccanismo del due per mille prevede che le somme non espressamente indicate dai contribuenti, il cosiddetto inoptato, finisca nelle casse dell’erario.
Il nuovo meccanismo “premia” i partiti più grandi, cioè farà crescere maggiormente i loro incassi, perché prevede che lo 0,2 per mille sull’intera Irpef sia destinato in proporzione alle scelte effettuate dai contribuenti. Il Partito democratico lo scorso anno ha ricevuto il 30,45% delle preferenze, con 8,1 milioni incassati.
Con l’attuale ripartizione salirebbe oltre i 12. Il Movimento 5 Stelle, da 1,8 milioni di euro passerebbe a 4, Fratelli d’Italia da 4,8 a 8, la Lega da 1,1 a 2 milioni.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
I DATI SMENTISCONO LE BALLE DEI SOVRANISTI: IL PROBLEMA PRINCIPALE RIMANE FRA LE MURE DOMESTICHE
“C’è un’incidenza maggiore, purtroppo, nei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate”. Non un passo indietro. Nella giornata dedicata al contrasto alla violenza sulle donne – mentre a Milano veniva condannato all’ergastolo Alessandro Impagnatiello, la stessa pena veniva chiesta per Filippo Turetta a Venezia e dalla Sicilia arrivava la storia del medagliato olimpico Antonino Pizzolato a processo per stupro di gruppo – la premier Giorgia Meloni, dopo aver chiesto a tutte le forze politiche unità di intenti e sforzi, ha riproposto la tesi che lega l’aumento dei casi di violenza alla presenza di migranti sul territorio italiano. Il primo a avanzarla era stato il ministro dell’Istruzione Valditara, seguito da Matteo Salvini, mentre l’opposizione insorgeva ricordando: “Il femminicida e lo stupratore spesso hanno le chiavi di casa”. E i numeri lo confermano.
I numeri della violenza sulle donne in Italia
Secondo i dati che lo stesso Viminale ha fornito sono 97 i femminicidi commessi durante l’ultimo anno (100 secondo le associazioni), con un decremento pari al 9 per cento.
Nel 75 per cento dei casi gli autori sono italiani e per lo più – 84 per cento dei casi – a uccidere è il partner o l’ex. Ed è una percentuale in crescita: se nel 2022 le donne uccise dai propri compagni, presenti o passati, erano il 58 per cento delle vittime di omicidio, un anno dopo sono il 67 per cento. E’ vero, nei primi sei mesi del 2024 c’è stata una lieve flessione, ma il dato non è consolidato.
Situazione simile si registra per i cosiddetti “reati spia”, come stalking o molestie in famiglia, per altro aumentati nel corso dell’ultimo anno rispettivamente del 6 e del 15 per cento.
Anche in questo caso a commetterli sono per lo più italiani adulti, 82 per cento dei casi di stalking, 71 per cento nel caso di maltrattamenti familiari.
Unico dato anomalo, quello relativo alle violenze sessuali, reato dall’ombrello ampio che punisce dal contatto non richiesto allo stupro. Stando ai dati ministeriali, nel 56 per cento dei casi a commetterli sarebbero italiani e nel 44 per cento stranieri.
Questione di platea
“Giova precisare – si preoccupa di sottolineare il Viminale nella sua nota – che la popolazione residente in Italia è costituita per il 9% da cittadini stranieri”.
Quello che non si precisa però è quanti degli autori stranieri accusati di violenza sessuale siano regolarmente residenti in Italia, dunque se la platea da considerare sia effettivamente quel 9 per cento.
E poi, sottolinea Patrizio Gonella di Antigone, “ridurre il tema della violenza sessuale o dei femminicidi a questione di nazionalità non tiene conto della complessità di un fenomeno dalle radici antiche. In ogni caso i detenuti stranieri sono in calo rispetto a quindici anni fa, sia in termini relativi che assoluti. E sono tendenzialmente condannati per reati meno gravi rispetto agli autoctoni ma non per questo diremmo mai che gli italiani sono tutti tendenzialmente potenziali criminali”.
Stando all’ultimo rapporto sulla popolazione carceraria, i detenuti stranieri non sono la maggioranza, in generale sono condannati a reati meno gravi e negli anni si è registrato un calo verticale della presenza in detenzione di quelle comunità straniere che più hanno avuto accesso a ricongiungimenti familiari.
“Rumeni, filippini e albanesi sono in forte calo nelle carceri. Questa sarebbe una politica criminale saggia: non separare le famiglie – sottolinea Gonella – Tutto il resto è indimostrato anche perché la raccolta dei dati statistici non è adeguata alla complessità del fenomeno”
Lo iato fra violenze e denunce
Non è l’unico dato che rischia di deformare la rappresentazione della realtà affidata solo ai numeri. “Solo una parte minima delle violenze sessuali emerge dall’invisibilità – si legge nell’ultimo rapporto Eidos – giacché molte, consumate nel nascosto delle mura domestiche, perpetrate da partner in gran parte italiani, restano appunto sommerse”.
L’ultima indagine statistica al riguardo risale al 2014, è stata messa insieme dall’Istat, ma secondo operatori e psicologi dei centri antiviolenza non è poi molto distante dalla realtà attuale. All’epoca l’Istituto aveva rilevato che in Italia solo il 16 per cento delle donne che ha subito una violenza sessuale l’ha denunciata.
Paura di non essere creduta o di ritorsioni da parte dell’autore della violenza, vergogna, voglia di dimenticare, impossibilità economica di affrontare un processo, mancanza o mancata conoscenza di reti di supporto: sono tante le ragioni che spesso convincono le donne a sopportare e dimenticare. Il risultato è lo stesso: il silenzio. E l’aumento delle chiamate al numero di emergenza 1522 non può far cantare vittoria.
I numeri delle (poche) donne che chiedono aiuto
A confermarlo è stato non più tardi di un anno fa il Viminale. Secondo la ricerca “La criminalità fra realtà e percezione” in caso di violenze il 31,6% delle vittime si è difesa da sola; il 24,2% delle vittime non ha fatto nulla; il 19,5% ha chiesto aiuto a parenti, amici o colleghi. L’8,2% ha sporto denuncia presso un ufficio di Polizia o Carabinieri, il 6,1% ha contattato il numero di pubblica utilità 1522, il 5,6% si è rivolto invece a un centro antiviolenza, mentre il 4,8% delle vittime ha richiesto un intervento tramite il 112.
Traduzione, fra l’episodio e la sua formalizzazione che lo trasforma in dato statistico ci sono diversi passaggi intermedi e solo l’8,2 per cento dei casi approda certamente a denuncia. Un dato sconfortante confermato anche dai numeri messi in fila dall’Istat – questi sì aggiornati – sul percorso di emersione dalla violenza: il 40% delle donne si è rivolta ai parenti, il 30% alle forze dell’ordine, il 19,3% ha fatto ricorso al pronto soccorso e all’ospedale. Solo il 28,6 per cento ha chiesto autonomamente aiuto ad un Centro antiviolenza.
Più facile puntare il dito contro gli stranieri
E se le denunce restituiscono un quadro di certo sottodimensionato rispetto al reale, non è assolutamente detto che non sia distorto. Al contrario.
In caso di violenze fuori dalla coppia – afferma l’Istat – è molto più facile che si punti il dito verso gli stranieri. “La quota di vittime di stupro da un autore straniero che dichiara di aver sporto denuncia è infatti oltre 6 volte più alta rispetto al caso in cui l’autore è italiano – ha spiegato nel 2017 alla commissione bicamerale sul femminicidio l’allora direttore Giorgio Alleva – Per il tentato stupro, la differenza è ancora più marcata: la quota di donne che denunciano, nel caso di un autore straniero, è 10 volte più alta
Se dunque le violenze – confermano gli stessi dati del Viminale – avvengono per lo più in contesto familiare, da partner o ex spesso italiani, diversa è la percezione diffusa.
E al ministero dell’Interno se è vero che in un report del maggio 2023 si legge: “un’ampia fetta del campione (47%) ritiene che i crimini siano commessi in egual misura da italiani e stranieri; circa un rispondente su cinque pensa che gli autori siano principalmente stranieri (20,7%) e solo il 6,1% attribuisce le colpe prevalentemente agli italiani”. E paradossalmente secondo la maggior parte degli intervistati il reato commesso in misura inferiore principalmente da italiani sarebbe la violenza sessuale (5,2%), seguito dalle lesioni (5,8%).
“I valori occidentali”
Secondo il ministro Salvini l’aumento delle violenze sarebbe legato “all’immigrazione incontrollata da Paesi che non condividono i valori occidentali”. Secondo un’indagine Istat condotta tra i giovani fra i 18 e i 29 anni, il 16,1% ritiene accettabile che “un uomo controlli abitualmente il cellulare o l’attività sui social network della propria moglie o compagna”, quasi il 4% sostiene che un ragazzo possa schiaffeggiare la sua fidanzata perché “ha civettato o flirtato con un altro uomo” e circa il 5% crede sia normale che “in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto”. Dati simili sono emersi anche dall’indagine condotta da Fondazione Libellula nel 2023, secondo cui circa un giovane su tre non riconosce gli atteggiamenti di controllo come una forma di violenza, considerandoli piuttosto sfaccettature di una relazione amorosa.
(da La Repubblica)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
TRA QUELLI CHE PUNTANO ALLE POLITICHE 2027 CI SONO ANCHE VITO CRIMI E PAOLA TAVERNA… E LUIGI DI MAIO? SI STAREBBE AVVICINANDO A FORZA ITALIA. DI SICURO, HA IN SCADENZA (A FINE FEBBRAIO) IL MANDATO EUROPEO COME RAPPRESENTANTE NEL GOLFO PERSICO
A volte ritornano. Dolce è il profumo di terzo mandato. Una fragranza, improvvisa, tra i corridoi del Palazzo dei congressi di Roma. Non sabato, quando l’esito della costituente dei Cinquestelle era ancora un poco incerto. Ma dopo l’annuncio di Giuseppe Conte, «abbiamo raggiunto il quorum», s’è diffuso un balsamo antico e inebriante
Volti che il giorno prima erano rimasti lontani, in attesa, domenica si sono spinti fino all’Eur. Elargivano sorrisi e selfie. Gli ex ministri Alfonso Bonafede e Fabiana Dadone. Il fu presidente della Camera Roberto Fico. Gli ex parlamentari Gianluca Castaldo, Massimo De Rosa, Michela Montevecchi, Andrea Cioffi, Luigi Gallo, Giulia Sarti, Stefano Buffagni, Giuseppe Brescia, che uscito da Montecitorio si era dato alla ristorazione. Tutti con due mandati alle spalle.
Pensionati, secondo il verbo di Grillo. Ora, nell’era contiana fatta di «onestà» ma anche «competenza», sono resuscitati. Ricandidabili. Uno valeva uno. L’ex senatore Alberto Airola, due legislature a palazzo Madama, la dice dritta: «I parlamentari inizino a tremare, noi ex siamo pronti al ritorno». Tanto pronto che ieri si aggirava per i corridoi del Senato. Nostalgia canaglia? «Seguo la Rai, do consigli ai vertici dei Cinquestelle». È una competenza, no?
Domenica mattina, in un corridoio del palazzo dei Congressi, davanti allo stand europeo del M5S, c’è la fila per salutare l’ex ministro Bonafede.
Evviva, si riaprono le porte del Paradiso. Cioè la possibilità, con l’abolizione del divieto del terzo mandato parlamentare per i 5 stelle, di rientrare nella casta a suo tempo tanto odiata ma poi tanto amata e assai rimpianta quando non più frequentabile a causa di quella tagliola maledetta voluta da Grillo e Casaleggio.
Insomma si erano comodamente adagiati i grillini nel Palazzo, doverlo lasciare è stata una tragedia, ma ora il dramma è rimediabile. Il nuovo slogan dei ex vogliosi di diventare neo parlamentari, ma anche consiglieri regionali o comunali, è semplice: «Fateci largo che ci risiamo noi». Sono i rieccoli a caccia di un angolo nel giardino dell’Eden di Montecitorio e Palazzo Madama tornato alla loro portata.
E infatti i più felici l’altro giorno, mentre Conte dava il grande annuncio nell’assemblea all’Eur in un delirio di gioia dei presenti, erano gli ex onorevoli pronti al tris. «Devi tornare, solo tu hai fatto una legge tanto bella come la Spazzacorrotti!»: l’ex Guardasigilli, Bonafede, ora avvocato a Firenze e colui che consigliò a Di Maio di caricarsi Conte che era stato suo prof all’università, si è sentito esaltare così nel salone. E lui è prontissimo al super-tris.
«Ma tornano tutti», si sente dire a Campo Marzio, quartier generale di Conte, e non è detto che tutti verranno accolti a braccia aperte dei pretoriani del leader che si sentono padroni di casa e del cuore di Giuseppe.
In pole position per il rientro c’è Roberto Fico. Così voglioso di riesserci che lui, forse il più stimato da Grillo, è stato molto favorevole alla fine del divieto del terzo mandato. L’ex presidente della Camera senza poltrona, pur essendo lui un francescano nei modi e nell’ispirazione, era un’immagine un po’ strana.
Ha avuto Fico la bravura di non mollare il movimento, di restare sempre lì dalle parti di Conte e non da quelle del sui maestro Beppe, e come vanno dicendo i due capigruppo alla Camera e al Senato, l’abolizione del tetto dei due mandati è di fatto il via libera per Fico come candidato del campo largo o come si chiama, insomma di M5S e Pd, a presidente della Regione Campania.
E che cosa dire di Vito Crimi e Paola Taverna che fu vicepresidente del Senato? Sono rimasti in questi due anni post-elettorali a lavorare nel movimento, lui come responsabile dati e votazioni (era con il notaio l’altra sera a certificare i suffragi sulle proposte della svolta contiana) e lei come responsabile dei territori.
Spicca questa magica coppia, in grande spolvero, tra i rieccoli che puntano alle Politiche 2027. Al prossimo giro – perché sono nel giro di Conte – Vito e Paola avranno una candidatura che significa stipendio da onorevoli. E come loro, tanti altri. «Io», dice l’avvocato Gianluca Perilli, che è stato un ottimo senatore, «a ricandidarmi non ci penso». Ma magari per lui, e per altri, ci penserà direttamente Conte.
La carica dei “fatece largo che torniamo noi” è impetuosa e massiccia.
E c’erano tutti alla convention stellata quelli vogliosi di tornare in Paradiso. Molti di loro saranno riammessi perché Conte non è riuscito a formare fior di statisti al suo fianco, e insomma la lista è lunga: Fabiana Dadone (ex ministro dello sport), Massimo De Rosa, Alberto Airola (che in questi anni è tornato a Torino a fare il fotografo), Gianluca Castaldi, Mauro Coltorti, Giulia Sarti («Sì, siamo tornati!»), Laura Bottici («Mi ricandideranno? Questo si vedrà. Io intanto ho continuato a fare l’attivista»).
E ancora: l’ex senatrice Angela Piarulli, Luigi Gallo, Sabrina Ricciardi, Grazia D’Angelo, Michela Montevecchi, Angela Salafia, Manuel Tuzzi, Gabriele Lenzi, Felicia Gaudiano, Rossella Accoto.
Ex peones che potrebbero, in certi casi, perfino diventare sottosegretari se Schlein e Conte pur pestandosi i piedi dovessero vincere le elezioni, e potrebbero insidiare gli attuali membri della corte del leader che forse non aspettano a braccia aperte i rieccoli.
Comunque tutto è possibile ora che è saltato il tappo del terzo mandato. Tutto, tranne una cosa: il ritorno di Di Maio (con Conte si detestano, come si sa) e dei dimaiani. D’Uva ha fatto un concorso in Marina e lo ha vinto. Battelli doveva aprire un ciringuito a Barcellona, non lo ha fatto, ma si gode la sua Genova e altri amici sono felicemente o infelicemente out finché ci sarà Conte.
Quanto a Luigi, inteso come Di Maio, il più bravo di tutti, i maligni dicono che si starebbe avvicinando a Forza Italia. Di sicuro, ha in scadenza (a fine febbraio) il mandato europeo come rappresentante nel Golfo Persico. E’ un incarico rinnovabile, ma nel Pd c’è chi pensa che Ursula possa preferirgli Enrico Letta.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
“CHRISTILLIN CI DETESTA E CI HA SEMPRE ATTACCATO”… I DUE MINISTRI SI SONO SCAMBIATI MESSAGGI DI FUOCO E POI HANNO AVUTO UNA TELEFONATA DAI TONI MOLTI ACCESI, TANTO CHE SONO DOVUTE INTERVENIRE ARIANNA E GIORGIA MELONI
Insulti, urla e parole grosse, molto grosse. La lite clamorosa vede coinvolti il ministro della Cultura Alessandro Giuli e quello della Difesa Guido Crosetto, entrambi di Fratelli d’Italia, seppur con sfumature diverse. Il primo è un intellettuale d’area, il secondo ne è il cofondatore. Tutto accade lo scorso mercoledì mattina. Giuli è appena atterrato a Torino per celebrare i duecento anni del museo Egizio alla presenza del capo dello stato Sergio Mattarella.
La sera prima con un decreto ha confermato per altri 4 anni Evelina Christillin alla guida della Fondazione del museo. Il problema è questo: Crosetto è contrario a questo rinnovo. In maniera netta. Perché, sostiene, che la presidente della fondazione abbia sempre attaccato Fratelli d’Italia e che in questi anni non abbia perso occasione di prendere le distanze dal partito di Via della Scrofa.
A proposito del museo Egizio c’è chi ricorda il faccia a faccia, nel 2018, fra Giorgia Meloni e Christian Greco, direttore del museo (in scadenza) reo all’epoca di promuovere biglietti scontati per chi parlava arabo.
Il titolare della Difesa scambia messaggi di fuoco con Giuli e poi seguirà un confronto telefonico che dire aspro è un eufemismo. Il ministro della Cultura spiega a Crosetto che la nomina di Christillin è stata condivisa con il sottosegretario, un altro piemontese, Andrea Delmastro
Giorgia Meloni, in visita in Argentina, viene travolta da questo baruffa interna. Anche la sorella della premier, Arianna, numero del due partito, entra in azione per placare gli animi. Si cerca di non far uscire questa notizia all’esterno.
D’altronde, dopo il caso del capo di gabinetto Francesco Spano, nominato da Giuli e poi costretto alle dimissioni per via delle rivelazioni di Report e soprattutto del fuoco amico, l’idea che ogni nomina della Cultura abbia questo percorso è imbarazzante per il ministro e danneggia il governo. Soprattutto perché riporta a un racconto mai tanto arato che riguarda le lotte intestine nel partito di Meloni. Ieri il Consiglio dei ministri con i duellanti che non si sono nemmeno scambiati uno sguardo.
Se ne sono accorti tutti, dentro Fratelli d’Italia, del gelo calato da alcuni giorni tra il ministro della Cultura Alessandro Giuli e il ministro della Difesa Guido Crosetto. I due non si parlano più e il motivo è lo scontro durissimo avuto sul museo Egizio di Torino la scorsa settimana. Tanto feroce da rendere necessario l’intervento di Arianna e Giorgia Meloni.
A scatenare le ire di Crosetto è la nomina di Evelina Christillin a presidente della Fondazione del museo Egizio di Torino. Lo ha fatto senza consultarsi con Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia e storico punto di riferimento del partito in Piemonte, che protesta con Giuli: «Christillin ci detesta», gli fa notare.
La nomina è nei poteri di Giuli, è lui titolato a firmare la conferma dei presidenti delle fondazioni museali italiane e difende la sua scelta, sottolineando che non è legata ad alcun rapporto tra i dueA Crosetto, poi, fa sapere di aver comunque concordato il nome con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, piemontese anche lui e fedelissimo della premier. Insomma, il partito è stato informato e l’accordo prevede da una parte la conferma di Christillin, mentre dall’altra si apre una riflessione sul direttore Cristian Greco, il cui mandato andrà in scadenza a giugno.
Ecco, è noto che Crosetto e Delmastro non siano mai stati – per usare un eufemismo – particolarmente affiatati. La risposta di Giuli si trasforma quindi in benzina sul fuoco. Il ministro della Difesa reagisce rabbioso, facendo capire che il peso politico in Regione ce lo ha lui, non Delmastro. E finisce per mandare entrambi – Giuli e Delmastro – a quel paese.
Partono quindi da Giuli una serie di telefonate di fuoco, prima ad Arianna Meloni, poi gli sms alla premier, che in quel momento è in Argentina per incontrare il primo ministro Javier Milei. Per Giuli lo scontro sulla nomina è nulla rispetto a quella sorta di intimidazione che sente di aver subito da parte del ministro della Difesa
È «gravissimo», ripete a tutti. E solo i messaggi di rassicurazione che Meloni gli invia in serata riescono a tenere, per ora, lo scontro sotto la cenere.
(da La Stampa)
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Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile
PER LA “FIAMMA MAGICA” SAREBBE UN MODO PER MANDARLO DI NUOVO A SBATTERE, VISTO CHE IL BIS DI GUALTIERI È CONSIDERATO QUASI SCONTATO… IL RAMOSCELLO D’ULIVO A RAMPELLI SERVE ANCHE A CONTRASTARE LA “TERZA CORRENTE”, QUELLA DI LOLLOBRIGIDA
Sostanzialmente certa la ricandidatura di Roberto Gualtieri a sindaco di Roma, a destra hanno pensato come sfidante a Fabio Rampelli. «Le sorelle Meloni sono d’accordo e a lui non dispiace», assicurano autorevoli fonti sia di FdI che di Forza Italia.
Rimasto fuori dal Governo prima e costretto a farsi da parte poi come aspirante governatore del Lazio, il capo dei Gabbiani di Colle Oppio si preparerebbe così alla sfida per il Campidoglio.
Tanto a destra quanto a sinistra i più considerano quasi scontato il bis di Gualtieri. «Non c’è partita», ripetono sottovoce anche dal fronte sovranista.
L’ex mentore di Giorgia Meloni sacrificato nuovamente per il partito? Probabile. E lui da buon soldato non si sottrae. Ma nell’ipotesi della candidatura a sindaco c’è qualcosa di più della sola partita per la guida della Capitale.
Alla premier e alla sorella Arianna da tempo pesa la figura del vice presidente della Camera, leader di quella che, seppur negata, è stata di fatto sinora l’unica vera corrente in FdI, il partito che la presidente del consiglio vuole resti un monolite.
Negli ultimi mesi però, si sta pian piano facendo largo una terza corrente, quella di “Lollo”. Non più solo meloniani e rampelliani. Come dicono diversi esponenti di FdI, ci sono ormai anche «quelli di Lollo».
Per contenere e allo stesso tempo smontare una terza corrente, tanto la premier quanto la sorella stanno così aprendo sempre più all’ex mentore. E se da una parte c’è l’ipotesi della candidatura a sindaco di Roma, dall’altra ci sono concessioni in vista anche sul fronte della sanità del Lazio.
Rampelli non condivide molto alcune scelte della direzione Salute e vorrebbe un suo uomo al posto di Andrea Urbani, manager legatissimo a Francesco Rocca e componente fondamentale del cerchio magico del governatore. Un cambio alla guida della Direzione sarebbe inoltre condiviso anche da parte del Ministero della salute e, fallito un primo tentativo con un manager rimasto poi alla guida di un’azienda sanitaria, ora c’è chi sta lavorando di nuovo all’obiettivo.
(da la Repubblica)
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