“I MIEI TRE GIORNI DA INCUBO CON LA PAURA DI ESSERE UCCISA†: ITALIA COME NEI REGIMI MILITARI ?
LE ARMI, GLI INSULTI, LA CELLA: LA VERGOGNOSA INCURSIONE DI 50 UOMINI ARMATI DELLA DIGOS PER PRELEVARE E CONSEGNARE IN OSTAGGIO ALLA DITTATURA KAZACA MOGLIE E FIGLIA DI UN DISSIDENTE… LA MAGISTRATURA ROMANA APRE UN’INCHIESTA “NON HO CAPITO SE ERANO DELINQUENTI O POLIZIOTTI IN ABITI CIVILI”
È da poco passata la mezzanotte di mercoledì 29 maggio. In una villetta a Casal Palocco, enclave dei ricchi di Roma, dormono tutti, anche i domestici che vivono nella dependance. Comincia così l’incubo di Alma Shalabayeva, 46 anni, e di sua figlia Adua, che ne ha sei. Colpevoli di essere la moglie e la figlia di Mukhtar Ablyazov, l’ex banchiere e l’ex ministro kazako nemico numero uno del presidente Nazarbajev.
Nel settembre 2012 Alma, che fuggiva da Londra, si era stabilita a Roma «perchè qui, diceva, mi sento tranquilla».
Fino a poche settimane fa, quando 50 agenti della polizia italiana fanno irruzione nella villa, la portano al Cie e la sera di venerdì 31 maggio la imbarcano su un volo per Astana, la capitale del Kazakhstan. La tana del lupo.
Questo – 18 pagine fitte – è il diario di tre giorni da incubo, tutti da chiarire.
L’IRRUZIONE
Nella villa dormono tutti, quando gente picchia alla porta e alle finestre svegliando Alma. «30, 35 sono entrati in casa, 20 sono rimasti fuori. Si trattava di un intero gruppo armato. Avevano un aspetto spaventoso, alcuni portavano l’orecchino, altri grosse catene d’oro, vestivano abiti neri consumati, tra loro c’era una donna ».
Non si presentano, non mostrano alcun mandato.
«Ero terrorizzata, ho pensato che erano venuti per ucciderci e che nessuno ne avrebbe mai saputo niente. Ho chiesto: chi siete, polizia? Quello che sembrava il capo mi ha sventolato davanti un qualche tesserino.
Mi hanno spinto fin quasi a cadere e mi hanno fatto sedere a forza.
Non riuscivo a capire: erano delinquenti o poliziotti in abiti civili? O li avevano ingaggiati i nemici di mio marito ed erano venuti per ucciderci?»
IN CENTRALE
Alma è terrorizzata, confusa. Quando le chiedono le sue generalità , dice solo «sono russa». «Gridavano in italiano, l’unica cosa che ho capito è stata “puttana russa”».
Alma decide di mostrare il suo passaporto centrafricano. La tensione cresce: qualcuno picchia Bolat, il cognato di Alma.
Alle domande su chi siano e cosa vogliano, quello con la catena d’oro risponde «sono la mafia». Sono quasi le tre di notte quando chiedono a prestito un computer per scrivere il verbale della perquisizione (porteranno via 50mila euro in contanti e la memory card della macchina fotografica).
Ma il MacfarmiBook non è configurato per scrivere in italiano e per mezza pagina si arriva fino alle quattro del mattino. «Mi hanno detto: vestiti, tu vieni con noi. Con me non avevo nè soldi, nè documenti, non avevo un avvocato nè un interprete».
A PONTE GALERIA
«Erano le sei passate, mi hanno detto che dovevano prendere le impronte e fare delle foto e che dopo mi avrebbero lasciato andare a casa. Invece mi hanno caricata in macchina per 40 minuti. Una signora si è messa a urlare, diceva che il mio passaporto era falso.
Chiedevo che chiamassero l’ambasciata centrafricana. Ripetevano mille volte le stesse domande: chi sei, cosa fai in Italia. Parlavano un inglese pessimo, faticavo a capire. Non mi hanno mai permesso di telefonare e dopo 15 ore sono crollata.
Ormai mi avevano vista in troppi perchè potessero uccidermi: ho detto chi ero e che il presidente kazako aveva ordinato l’assassinio di mio marito.
Dopo dieci minuti sono venuti a prendermi e hanno solo ripetuto: questo è un passaporto falso. Lì mi avevano tolto i lacci delle scarpe e la fede e mi avevano dato lenzuola usa e getta e un materasso di poliuretano.
In cella c’erano sei letti e tre donne. Io non ero vestita come loro. Mi hanno aiutato a fare il letto e mi hanno rimboccato le coperte ».
IL JET PRIVATO
«Ho dato la mia tessera del cibo a una compagna e lei mi ha permesso di usare il suo telefono. Da casa mi hanno detto che erano stati avvisati gli avvocati, poi li ho fugacemente incontrati all’udienza, tutto è durato meno di un’ora.
Mi hanno fatto telefonare a casa e chiedere di portarmi la mia bambina. All’improvviso c’era di nuovo agitazione. Dobbiamo andare, mi dicevano. Mi hanno caricata su mini-bus, c’erano molte macchine di scorta, e mi hanno portata all’aeroporto di Ciampino.
Hanno aperto una porta ed è comparsa Alua, la mia bambina.
Avevo capito che volevano mandarmi in Kazakhstan. Sapevo cosa avrebbe voluto dire per me, per mio marito, per i miei figli.
Allora ho detto a voce alta: chiedo asilo politico. L’ho detto in inglese, l’ho ripetuto, l’ho gridato. È troppo tardi, mi hanno risposto, tutto è già deciso».
Sulla pista rulla un jet privato, noleggiato da una compagnia austriaca.
A bordo ci sono due diplomatici kazaki. Aspettano le due donne per accompagnarle ad Astana. La missione è compiuta.
Cinzia Sasso
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