Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
SONO 10 ANNI CHE GLI AGENTI DELLA POLIZIA MUNICIPALE NON RINNOVANO IL GUARDAROBA PER MANCANZA DI FONDI…GLI INDUSTRIALI CAMPANI SI OFFRONO DI PAGARE LORO SEI MILIONI DI EURO PER NON SFIGURARE ALLA PROSSIMA AMERICA’S CUP
Confindustria regalerà le divise ai vigili urbani di Napoli. Con la benedizione della Cgil e degli altri sindacati.
E’ stato sottoscritto un protocollo di intesa tra la giunta de Magistris e l’Unione industriali partenopea, con cui l’organizzazione di Emma Marcegaglia si impegna a rifornire la polizia municipale dei vestiti di ordinanza, dei berretti e persino delle armi.
E’ dal 2002 che i vigili urbani di Napoli non acquistano nuove divise.
La maggior parte degli agenti è ormai costretta a farne a meno. In servizio si sta in jeans, maglioncino e pettorina plastificata.
I più fortunati hanno anche un cappellino con la scritta polizia municipale. Spesso, però, scolorita e illeggibile.
“Non siamo riconoscibili per strada e quindi perdiamo autorevolezza, molta gente mi scambia per elettricista o fattorino, è difficile fare una multa a qualcuno in queste condizioni”, si lamenta l’agente Carlo Giordano.
È stato assunto nel 2011 e la divisa lui non l’ha mai neppure vista, “in compenso però mi hanno preso le misure”, aggiunge ironico.
Il problema riguarda anche gli agenti più anziani. “Siamo costretti a scambiarci gli abiti tra di noi. Chi finisce il turno — racconta Angelo Adamo, vigile da quasi vent’anni — passa i vestiti a quelli che vengono dopo”.
La cifra che andrebbe investita per rifare il guardaroba alla polizia municipale di Napoli non è, però, così irrisoria.
L’intero equipaggiamento di un agente di polizia municipale costa poco meno di tremila euro.
Tenendo presente che i vigili napoletani sono in tutto duemila, si comprende che l’investimento ammonterebbe a circa 6 milioni di euro.
Una cifra che al momento non è nella disponibilità della giunta de Magistris. Lo dice chiaramente l’assessore alla sicurezza Giuseppe Narducci: “L’attuale situazione finanziaria del Comune di Napoli, con il deficit di bilancio che abbiamo trovato e i pesanti tagli del governo agli enti locali, non ci consente di poter fare questo investimento”.
Perciò è scesa in campo Confindustria Campania, attraverso il suo presidente Paolo Graziano, che ha sottoscritto il protocollo di intesa con il Comune.
Gli industriali faranno una colletta e pagheranno tutte le spese.
Nel nuovo preventivo, che sarà presentato dall’assessore Narducci, il prezzo del singolo equipaggiamento scenderà da tremila a cinquecento euro.
Un atto di generosità dovuto (come si legge nel documento) alla consapevolezza che “maggiori livelli di legalità e sicurezza permettano di intraprendere iniziative economiche che rivestono valore decisivo per lo sviluppo della città ”.
In realtà a motivare gli industriali napoletani ha molto inciso anche l’America’s Cup di vela, che non a caso è citata nel protocollo di intesa.
Grande è la paura di fare una figuraccia di fronte agli occhi del mondo con i vigili in jeans e pettorina.
Giorgio Mottola
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
IL TUTTO UNITO A CONDONI VARI, DISMISSIONI, BLOCCO CONTRATTI… TREMONTI HA CONSIGLIATO A BERLUSCONI DI FARE UN PASSO INDIETRO, LA MAGGIORANZA SI STA SFALDANDO
L’unica certezza di Berlusconi è che «al Quirinale non c’è un capo dello Stato intento a
ordire trappole».
Tuttavia la fiducia che ancora gli accorda Napolitano è a tempo, e di tempo il Cavaliere non ne ha più.
Indebolito dalle piazze finanziarie internazionali, accerchiato dalle manovre nei palazzi romani, e senza un accordo nel vertice d’emergenza convocato in serata, il premier ha trascorso la giornata meditando il varo di «misure choc» per salvare il Paese e il suo governo, entrambi a rischio default.
Non c’è dubbio che gli «interventi straordinari» sui quali sta ragionando «mi fanno venire l’orticaria solo a pronunciarli».
Dalla patrimoniale al prelievo forzoso, da un piano di dismissioni doloroso fino a una lunga teoria di condoni, Berlusconi valuta i provvedimenti da porre come sacchetti di sabbia sull’argine del fiume che ha già iniziato a tracimare.
«Mi hanno detto di fare come Amato», spiega il Cavaliere, che evoca così un’altra stagione economica drammatica, quella del ’92, e le misure draconiane che vennero allora adottate per salvare la lira: guarda caso una patrimoniale sulla casa, un prelievo sui conti correnti e i depositi bancari, il blocco per un anno dei contratti del pubblico impiego e il blocco delle pensioni di anzianità .
Tanto basta per far spuntare sul volto del premier una smorfia di disgusto mista a disappunto, perchè ognuno di questi provvedimenti sarebbe «contrario ai miei capisaldi», al credo che ha divulgato per venti anni e che in parte ha già dovuto abbandonare con la manovra estiva.
Mentre i Btp continuano a cedere terreno sui listini, Berlusconi spiega alla Merkel che «farò quanto è necessario per difendere fino in fondo la credibilità dell’Italia», e con essa anche ciò che resta della sua credibilità nel consesso mondiale.
Nel corso del colloquio il premier ribadisce che «il mio governo intende rispettare gli impegni», ma intanto si chiede e chiede «cosa posso fare più di quanto ho fatto».
La risposta della cancelliera tedesca non si fa attendere, è un suggerimento che somiglia tanto a una perentoria richiesta: far validare intanto da un voto del Parlamento le linee guida del piano di risanamento presentato in Europa, una sorta di imprimatur preventivo in attesa dell’approvazione dei provvedimenti.
La piena ha superato ampiamente i livelli di guardia quando Berlusconi accenna a Napolitano le «misure choc», prospettate ancora come ipotesi, segno della confusione che regna nella maggioranza e che viene indirettamente confermata dall’assenza di Bossi al vertice serale di Palazzo Chigi.
E se è vero che la conversazione con il presidente della Repubblica convince il premier che «al Quirinale non si ordiscono trappole», è altrettanto vero che il Colle è risoluto nel chiedere atti di governo che tolgano l’Italia dal mirino della speculazione finanziaria.
Il punto però non è stabilire quale sia il mezzo con cui varare i provvedimenti, poco importa se si tratti di decreti e di emendamenti da inserire nella legge di Stabilità : il nodo è il contenuto.
Ed è su questo che scoppia l’ennesimo scontro tra Berlusconi e Tremonti, considerato dal premier non più solo un «problema politico», ma un «fattore» dell’attacco speculativo all’Italia per via dell’atteggiamento assunto in questa fase: «Se un ministro dell’Economia si mostra scettico sulle misure che vengono adottate, che segnale trasmette ai mercati»?
L’accusa che Berlusconi rivolge all’inquilino di via XX settembre di «tradimento». Per tutta risposta anche ieri sera, al culmine dell’ennesimo alterco al vertice, Tremonti ha invitato il Cavaliere a fare «un passo indietro», in nome «dell’interesse nazionale», delle «aste dei titoli di Stato sul mercato».
Ma il premier non ha intenzione di dimettersi, e ieri mattina aveva studiato una road map per resistere a Palazzo Chigi.
Sul fronte istituzionale era (e al momento resta) sua intenzione convocare un Consiglio dei ministri con cui varare una prima parte di misure da presentare già ai partner internazionali del G20.
Epperò sarà difficile realizzare questa parte del piano, visto che ieri sera non era stato ancora raggiunto un accordo.
Sul fronte politico resta convocato l’Ufficio di presidenza del Pdl, pronto a chiedere – con un documento – che «tutte le decisioni in materia economica vengano accentrate a Palazzo Chigi».
È un modo per mettere in mora Tremonti, e al tempo stesso per tenere saldo l’asse con la Lega, dato che «le misure – questo sarà scritto nella risoluzione del partito – dovranno essere coerenti con il piano preparato per l’Europa», quella sorta di programma di governo di fine legislatura firmato da Bossi, e che pertanto dovrebbe vincolare il Carroccio.
Dovrebbe, visto che il Senatur con la sua assenza pare volersi tenere le mani libere. Ma non è questo il pericolo maggiore per Berlusconi, sono piuttosto le crepe nelle file parlamentari a destare allarme, l’ipotesi – fondata – che altri deputati lascino la maggioranza e lascino di conseguenza il governo senza fiducia a Montecitorio.
Per questo nella sua road map il Cavaliere ha previsto di presentarsi davanti alle Camere dopo il G20, non prima, come gli hanno chiesto ieri i leader del terzo polo.
È evidente il motivo: il premier ha intuito il rischio dell’agguato e non intende andare al vertice di Cannes da «dimissionato».
Dopo, invece, potrebbe farsi scudo dei provvedimenti per sfidare il Parlamento ad accettare il piano di risanamento «nell’interesse del Paese» o staccare la spina all’esecutivo.
A quel punto – come spiegava in questi giorni il segretario del Pdl Alfano – «tutti dovranno sapere che dopo il governo Berlusconi non potrà esserci il governo dei congiurati, ma solo il voto anticipato».
Francesco Verderami
(da “Il Corriere della Sera“)
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Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
ASSEGNATE GRATIS O A CANONI IRRISORI PER “MOTIVI DI SICUREZZA”… NELLA LISTA NERA DEL SINDACATO ANCHE EX QUESTORI E IL CAPO DELLA SEGRETERIA DI MANGANELLI
Appartamenti da duecento metri quadrati nelle zone più chic di Roma occupati da dirigenti della polizia di Stato in pensione, da parenti di alti funzionari, da figli di prefetti in carica.
Alloggi di servizio trasformati in abitazioni di lusso grazie a maxi-ristrutturazioni pagate con denaro pubblico.
E ancora: una procedura di assegnazione fumosa, sulla quale il Viminale rivendica “criteri arbitrari legati a motivi di sicurezza” nascondendoli ai sindacati di polizia, da anni senza spiegazioni.
Eccola l’affittopoli romana della polizia di Stato.
Un caotico giro di case del ministero dell’Interno assegnate gratuitamente o affittate a canoni irrisori a chi non ne avrebbe più diritto, perchè in pensione, o perchè quel diritto non l’ha mai avuto.
Emblematico il caso dell’ex questore di Roma Marcello Fulvi. Nonostante sia in pensione da oltre un anno, e nonostante sia stato nominato commissario prefettizio a Quarto in provincia di Napoli, occupa ancora un appartamento di 150 metri quadrati in un bel palazzo di via Simeto, quartiere Pinciano Parioli.
Locale peraltro ristrutturato per tre volte in sette anni.
C’è poi chi, per la carica ricoperta o perchè già proprietario di case a Roma, non dovrebbe rientrare nelle assegnazioni.
Il romano Maurizio Billi, ad esempio. Il direttore della banda musicale della polizia che ha un alloggio di servizio vicino alla stazione Termini, alle spalle della scuola tecnica, ex reparto mobile Castro Pretorio.
“È tutto regolare – sostiene – l’ho ottenuto anni fa direttamente dal capo della polizia”. In base a criteri, appunto, discrezionali, tra i quali però non si intravedono esigenze di sicurezza.
Altro caso, il primo dirigente Tiziana Terribile. Ha ottenuto un alloggio di 200 mq nella centralissima piazza del Collegio Romano quando è diventata segretaria del capo della polizia Antonio Manganelli.
A tutt’oggi, lasciato quell’ incarico per un altro non operativo al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, vive lì.
Conosciuta dai piantoni dello stabile come la “segretaria del capo”. “La segretaria di Manganelli? – dicono – sì abita qui, potete entrare anche dal retro del palazzo”.
La fotografia dell’affittopoli della polizia è contenuta in un dossier del sindacato di polizia Silp di Roma, realizzato dopo un monitoraggio svolto sui 230 appartamenti (dai 100 ai 250 metri quadrati) assegnati a funzionari e prefetti distribuiti nei quartieri della Roma bene, dai Parioli, all’Ara Pacis, dal Colosseo a Prati.
“Ci risulta – dice Gianni Ciotti, segretario provinciale del sindacato di polizia Silp – che almeno il 20 per cento di questi, una cinquantina di case, sia occupato abusivamente da pensionati della polizia e anche da ex mogli e figli di aventi diritto. Soggetti che nella giungla legislativa delle assegnazioni non hanno proprio nè titoli nè requisiti per poter usufruire dell’agevolazione”.
Sacche di privilegio in un’ amministrazione, quella della Polizia di Stato, che soffre di una cronica mancanza di fondi per la benzina delle volanti e i commissariati.
Nella “lista nera” del sindacato sono finiti altri nomi.
L’attuale questore di Arezzo, Felice Addonizio, oltre ad avere una casa di proprietà nella capitale e l’alloggio di servizio ad Arezzo, risulta ancora residente in un appartamento, vista Colosseo, all’ultimo piano di un palazzo nei pressi di via Marco Aurelio.
Suo dirimpettaio il questore Aldo Nardiello, ex vicario di Roma, attualmente in servizio all’Ufficio centrale ispettivo, un incarico che non prevede il “benefit” alloggio.
C’è pure il nome di Antonio Tomassetti che in pratica si è assegnato un alloggio da solo.
Quando ha ricevuto in uso un enorme locale sulla Portuense infatti ricopriva l’incarico di gestire le pratiche per le assegnazioni delle case ai colleghi, in qualità di dirigente dell’ufficio tecnico logistico della Questura.
Poi è stato spostato ad altro ufficio al Viminale, ma quell’appartamento è ancora suo. Così come risulta aver usufruito di un loft nel cuore di Roma (via del Teatro Marcello) il prefetto Mario Esposito, ottenuto quando era direttore della V divisione della Polaria, mantenuto malgrado il trasferimento alla direzione dell’istituto superiore di polizia, e abitato nei dodici mesi successivi alla pensione.
Anche chi ha cariche minori, per i soliti oscuri motivi “discrezionali” è riuscito ad avere gli alloggi di servizio.
Ci sono 33, tra ispettori, agenti e assistenti, che abitano un intero palazzo dell’ amministrazione, senza alcun titolo.
Qualche giorno fa (mercoledì 12 ottobre), qualcuno si è accorto dell’abuso che durava da 35 anni e a più di un poliziotto è stata recapitata la notifica di sfratto esecutivo. “Stranamente – dice Ciotti – qualcuno sta cominciando a mettere a posto le cose, ma come sempre si comincia dal “basso”. Mi sta bene che le irregolarità vengano sanate, ma adesso voglio proprio vedere se gli sfratti arrivano anche a chi sta in alto”.
In quello stesso palazzo di via Trionfale, un alloggio della polizia, da anni, è stato addirittura trasformato in uno studio legale dove esercita la figlia di un ispettore in pensione.
Dove sono le esigenze di sicurezza? E quale logica segue la “discrezionalità ” del Viminale?
“Ci sono dei criteri di massima che tengono conto, ovviamente, della qualifica e dell’incarico del beneficiario – spiegano dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza – il margine di discrezionalità è legato a motivi di opportunità e sicurezza che, come intuibile, non è sempre possibile far conoscere a terzi”.
Da un lato quindi l’esigenza di mantenere la riservatezza su situazioni delicate. Dall’altro però lo stesso Dipartimento riconosce l’esistenza di occupazioni “abusive”. Tanto che proprio negli ultimi tempi sono state riviste alcune posizioni e ordinati gli sfratti.
Come nel caso del palazzo degli ispettori.
Federica Angeli e Fabio Tonacci
(da “La Repubblica”)
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Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
L’ITALIA HA PERSO LA FIDUCIA DEI MERCATI E LA CRISI FINANZIARIA TRAVOLGE I NOSTRI ISTITUTI DI CREDITO…OGNI 100 PUNTI DI SPREAD IL COSTO PER LE BANCHE E’ DI 9 MILIARDI IN TERMINI PATRIMONIALI E DI 1,2 MILIARDI DI RIDUZIONE DEI PROFITTI
L’entusiasmo dei mercati per la lettera di intenti del governo Berlusconi è durata l’espace
d’un matin, come la rosa del poeta.
Venerdì il tasso sui titoli italiani a 10 anni ha oltrepassato la soglia del 6 per cento e le ultime due giornate sono state la degna cornice della notte delle streghe.
Il differenziale di tasso rispetto a quello tedesco è balzato a 452 punti (4,52 punti percentuali).
Per rinnovare i nostri debiti paghiamo il triplo della Germania e il doppio della Francia. È la prova definitiva del fatto che l’Italia ha perso la fiducia dei mercati.
L’Italia è così costretta a ricevere ultimatum tanto pressanti quanto umilianti. Dai problemi di oggi si esce o innestando la marcia dello sviluppo economico o tagliando senza pietà le spese pubbliche per ridurre il debito. Se non riusciamo ad imboccare la prima strada, ci spingono sulla seconda e comunque in Italia qualcuno apprezza che ciò comporti anche una bella botta ai diritti sindacali.
L’abolizione dell’articolo 18 è come un diamante per una fanciulla: un regalo per sempre . Aquesto bivio siamo arrivati con un progressivo smottamento da inizio anno scandito dai downgrading del Paese e dall’aumento degli spread: quello a due anni, già prima delle ultime giornate di fuoco era aumentato di 183 punti base rispetto a dicembre scorso; per la Spagna l’aumento è stato di soli 70 punti base.
È la misura più lampante della differenza con cui oggi i mercati guardano al nostro Paese: è quello che ci costa l’agonia del governo.
Fra le vittime di questa situazione ci sono anche le banche, cui l’autorità bancaria europea (Eba) oggi chiede di aumentare i capitali (per le prime 5 italiane si tratta di 15 miliardi su un totale di 106 per le principali 70 dell’Unione).
Un importo indispensabile per garantire un flusso adeguato di crediti all’economia.
Lunedì i principali banchieri italiani hanno chiesto una sostanziale riduzione degli obblighi di capitale imposti dall’Europa, ma è difficile che le loro richieste arrivino a Bruxelles, perchè nessuno oggi è disposto a fare sconti all’Italia.
Ma soprattutto dovrebbero capire che stanno chiedendo soccorso a chi è la causa dei loro principali problemi, che derivano in larga misura proprio dalla spirale perversa degli spread.
Per le banche infatti questi aumenti di tassi sono dannosi quanto per le casse statali.
Da un lato devono accantonare più patrimonio per fronteggiare le perdite potenziali sul debito pubblico e su quello privato che subisce gli effetti dei downgrading.
Dall’altro, vedono aumentare i costi della raccolta sul mercato obbligazionario e interbancario, perchè gli spread bancari si muovono parallelamente a quelli del debito pubblico.
In termini pugilistici, un uno-due micidiale. S
olo per le banche oggetto della richiesta dell’Eba, il primo effetto comporta maggiori esigenze di capitale per quasi 9 miliardi per ogni 100 punti base di spread.
Basterebbe cioè oggi essere fra 300 e 350 punti (che sarebbe comunque il doppio di dicembre) per ridurre di due terzi l’onere che viene imposto dall’Europa e renderlo ben più tollerabile.
E poi ci sono i maggiori costi di raccolta: le 5 banche hanno rinnovato titoli per 94 miliardi nel corso del 2011: ogni punto percentuale di maggior tasso è dunque costato quasi un miliardo.
Per la raccolta interbancaria, 65 miliardi, l’incremento dei costi è attenuato dalle condizioni di favore della Bce, ma vale comunque qualche centinaio di milioni.
In totale, un aumento dei costi di 1,2 miliardi significherebbe il 14% dei profitti lordi prima delle tasse del 2010 e dunque una sostanziale riduzione della capacità di aumentare i capitali accantonando utili futuri.
E ci meravigliamo se in borsa i titoli bancari scendono?
Insomma: ogni 100 punti base di spread comportano per le banche un salasso di 9 miliardi in termini patrimoniali e 1,2 di riduzione dei profitti lordi. Ed è ragionevole ipotizzare che la debolezza delle risposte italiane alla crisi vale almeno tanto, che è comunque meno del differenziale che si è aperto rispetto alla Spagna.
Ma cosa è questa se non la misura della “tassa Berlusconi”, la nuova versione della “Robin tax” che all’inizio del suo mandato il ministro Tremonti, quello che aveva previsto la crisi, proponeva di far pagare alle banche?
Altro che chiedere al governo di essere protette a Bruxelles; le banche dovrebbero limitarsi ad una sola parola: vattene.
Marco Onado
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
LA CAUSA DEL DECLINO NON STA TANTO NELLE DIVERSE POSIZIONI TRA BOSSI E MARONI O NELLE DIATRIBE TRA CERCHIO MAGICO E MARONIANI, MA NELLA POLVERIZZAZIONE DELLE IDEE LEGHISTE IN ALMENO QUATTRO CORRENTI DI PENSIERO
Il vistoso arretramento della Lega, accreditata per la prima volta dall’inizio della legislatura di un peso elettorale inferiore all’8%, è probabilmente il dato più interessante della rilevazione di questo mese.
E’ impossibile, quindi, non scorgere nell’arretramento un indice specifico, relativo alle precarie condizioni in cui versa un partito attraversato da crisi di identità e lotte intestine giunte ben oltre il livello di guardia.
La frattura è stata finora giornalisticamente sintetizzata dal conflitto tra Bossi e Maroni, ma nella realtà la Lega attualmente appare divisa in quattro diverse correnti di opinione con specifici valori di consenso e probabilmente con un futuro prossimo diviso.
Gli estremisti, i barricaderi, il popolo padano dei prati verdi estivi, quelli che tifano senza se e senza ma per la secessione, quelli che di tanto in tanto possono apparire come dei gravi deragliamenti dal sentiero della responsabilità istituzionale e di governo.
Riflettono il sentimento genuino di una quota non irrilevante di elettori leghisti.
Questa è la corrente di opinione riferibile a Borghezio che traduce in formule semplici e di impatto una vocazione riottosa e reazionaria che nella base appare caratterizzata da una discreta consistenza.
Si tratta di una componente sottostimata dalla rappresentazione giornalistica in quanto è più presente nell’elettorato che non nel ceto politico leghista.
La consistenza elettorale: 1,5%.
Gli autentici, i sempreverdi.
All’interno del ri-posizionamento delle varie componenti si colloca un’area grigia che pur conservando e coltivando le parole d’ordine delle origini assume un profilo più misurato, riuscendo a coniugare buona parte del verbo leghista tradizionale – solo leggermente e opportunamente depurato – con le responsabilità di governo.
L’area di riferimento è quella di Salvini: mixa esternazioni anti italiane, fortemente nordiste, con un codice di comunicazione che svolge una funzione di decompressione delle pulsioni della base.
Pur nutrendo una forte insofferenza verso la gestione berlusconiana del potere riconosce nella guida di Umberto Bossi un punto di riferimento difficilmente prescindibile. La consistenza elettorale: 1,5%.
I progressisti, i malpancisti verdi.
L’esperienza di governo ha favorito nel corso degli anni la maturazione all’interno dell’elettorato leghista di una componente che si potrebbe definire “progressista”.
In quest’area la metamorfosi lessicale del messaggio tradizionale è stata il sintomo di una revisione dei contenuti e si è accompagnata a una ridefinizione della stessa ragion d’essere del movimento.
L’intento secessionista ha fatto spazio al disegno federalista senza mettere in discussione l’Unità d’Italia, la politica nordista è diventata più un modello da esportare al Sud che non un modo per delineare un confine con il Meridione.
Nè con Berlusconi nè con Bossi, sembra essere lo slogan politico, addirittura lasciando intendere che sono possibili anche aperture ed alleanze con il PD.
Quest’area si riconosce nel ministro Maroni ed in una significativa squadra di sindaci. La consistenza elettorale: 3%.
I devoti, gli adepti del cerchio magico.
Se per i maroniani la diarchia Bossi-Berlusconi è vissuta come un retaggio del passato, per questa area il binomio Bossi-Lega possiede un carattere imprescindibile.
Bossi for ever, che sia il padre o il figlio poco importa.
Le sorti del movimento sono vincolate agli attuali equilibri della coalizione di maggioranza, e solo dal leader riconosciuto può arrivare un’eventuale indicazione di svolta.
La guida berlusconiana e il costante e progressivo ampliamento delle vicissitudini del premier è tollerata, ma si continua a ritenere che la presenza al governo giustifichi il senso di disagio. Questo segmento confida nel fatto che il raggiungimento del fine ultimo, l’approvazione del federalismo fiscale, saprà compensare i sacrifici fatti in questi anni e riscattare i magri risultati riscossi dagli enti locali nel corso della legislatura.
La consistenza elettorale: 1,7%.
Uno scenario così frammentato pone evidentemente qualche interrogativo sulle prospettive del movimento leghista, innanzitutto rispetto ai margini di vitalità di una profilo identitario incerto, in larga parte ancorato a una leadership e a un orizzonte politico in fase di esaurimento.
In questo senso, la divisione della base del partito tra bossiani e maroniani si dimostra artificiosa e fin troppo generosa: la stessa idea di leghismo si nutre oggi di ragioni e suggestioni estremamente composite, sulla cui compatibilità solo il tempo e la rimozione di feticci ormai logori consentirà di esprimersi.
Il leghismo osservato senza le lenti del passato appare oggi qualcosa di polverizzato e incerto. In definitiva, qualcosa da re-inventare.
Antonio Noto
(direttore IPR Marketing)
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Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
AGITA IL PERICOLO TERRORISMO E NUCLEI PRONTI ALLA RIVOLTA: NEL MIRINO I SINDACATI E CHI NON LA PENSA COME LUI
Il mercato del lavoro, l’articolo 18 e i licenziamenti facili non c’entrano niente. 
L’ossessione del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi sono i sindacati.
La Cgil, prima di tutto, com’è tradizione della cultura craxiana in cerca di rivincite dai tempi di Mani pulite.
Ma adesso anche gli altri, la Cisl soprattutto, dopo che il leader Raffaele Bonanni si è trasformato da alleato in avversario del governo, contro il quale minaccia lo sciopero se solo Sacconi si azzarda a toccare le leggi sui licenziamenti.
Per essere più chiaro, e conoscendo bene il ministro del Lavoro, con il quale aveva vagheggiato nei mesi scorsi la costituzione di un nuovo partito cattolico, Bonanni lo ha così fulminato: “Il governo agita i licenziamenti solo per ragioni ideologiche”.
E allora contro i sindacati Sacconi sfodera l’arma di sempre, l’accusa di alimentare il terrorismo.
Un diversivo sempre utile a cambiare argomento quando si trova in un vicolo cieco, e che stavolta potrebbe addirittura mettere in imbarazzo Palazzo Chigi, alla ricerca di una via silenziosa per guadagnarsi la benedizione dell’Europa e prolungare il regno di B.
Domenica scorsa Sacconi ha detto: “Vedo una sequenza dalla violenza verbale, alla violenza spontanea, alla violenza organizzata che mi auguro non arrivi ancora una volta anche all’omicidio”.
Poi ha specificato: “Ho paura ma non per me perchè sono protetto. Ho paura per persone che potrebbero non essere protette”.
E chi sono? L’ha già spiegato due anni fa in un’intervista al Quotidiano Nazionale, a conferma che il disco rotto del pericolo rosso non lo toglie mai dal piatto del giradischi: “Persone che hanno incarichi pubblici non di primo piano, magari a livello locale, e che conducono una vita normale senza particolari accortezze”.
Olga D’Antona, deputata Pd e vedova del giuslavorista Massimo D’Antona, ucciso dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1999, lo ha zittito con tutti i titoli per farlo: “Il rischio terrorismo in Italia purtroppo c’è. Ciò non toglie che il ministro Sacconi farebbe bene a non evocarlo”.
A confermare che l’intervento a gamba tesa di Sacconi è un po’ frutto di ossessione e un po’ il tentativo di rovesciare il tavolo di una discussione nata male, sono altre prese di distanza di persone a lui tradizionalmente vicine.
Come Giuliano Cazzola, altro ex socialista confluito nelle file berlusconiane ed ex dirigente della Cgil abbastanza avvelenato con l’organizzazione in cui ha trascorso una vita: “Bisogna evitare di criminalizzare il dissenso. Non necessariamente dietro a un dissenso anche violento si nasconde una P38”.
Per non parlare di Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, che da sempre si batte per la riforma del mercato del lavoro anche con maggior “flessibilità in uscita”, come suol dirsi. Quando le Br uccisero Marco Biagi, il 19 marzo 2002, Ichino era nella lista degli obiettivi.
Vive da allora sotto scorta.
E ha liquidato così Sacconi : “Il rischio di atti di violenza minacciati da terroristi non può essere utilizzato per comprimere il dibattito, o peggio per accollare a chi dissente la responsabilità oggettiva di eventuali aggressioni commesse da altri”.
Come altre volte in passato, ci troviamo di fronte al tentativo di alzare un polverone misto di allarmismo e propaganda per coprire il fallimento dell’ennesimo tentativo di dare una spallata non tanto ai diritti dei lavoratori, che a Sacconi interessano a giorni alterni, quanto ai loro difensori di professione, i sindacati.
È lo stesso Ichino a definire “improvvisato” il modo in cui il governo ha affrontato la questione del mercato del lavoro.
E i fatti danno ragione al giuslavorista milanese. Basti ricordare che da due anni giace in Parlamento il disegno di legge 1873, presentato da Ichino, con una riforma organica del mercato del lavoro, comprendente anche una riduzione delle tutele dell’articolo 18.
Il Pd infatti non ha fatto propria la battaglia di Ichino, che è rimasta solitaria perchè neppure Sacconi se l’è mai filato.
Tre giorni fa Il Sole 24 Ore ha ricordato che un anno fa è stata approvata in Parlamento una mozione di Francesco Rutelli che impegnava il governo a procedere nell’esame del 1873, e un fedelissmo di Sacconi come Maurizio Castro ha votato contro.
Del resto, due anni fa il ministro del Lavoro aveva altri problemi.
Di fronte all’esplosione della crisi economica, si offriva come scudo umano contro i licenziamenti.
Erano i tempi in cui rivolgeva alle imprese l’appello “per una vera e propria libera e responsabile moratoria ai licenziamenti”.
E respingeva le proposte del Pd per rafforzare i sussidi di disoccupazione spiegando che “gli ammortizzatori sociali automatici nelle fasi di crisi sono un incentivo a spezzare il rapporto di lavoro”.
Erano anche i tempi in cui dichiarava che “l’appello del Santo Padre a conservare quanto più possibile i posti di lavoro deve essere accolto dalle istituzioni e dalle imprese”.
Dunque i licenziamenti vanno e vengono, il terrorismo no.
È sempre in agguato, perchè serve a mettere alla frusta sinistra e sindacati.
E infatti ieri il ministro ha reagito alle critiche insistendo: “Sono al lavoro nuclei organizza-ti che operano clandestinamente per trasformare il disagio in rivolta”.
Quello che colpisce è che i decenni passano e Sacconi ripete le stesse parole ogni volta che va in difficoltà .
Nel 2002 , appena fu ucciso il giuslavorista Marco Biagi, spiegò a caldo che la manifestazione di Sergio Cofferati al Circo Massimo, che avrebbe segnato la definitiva sconfitta dell’attacco all’articolo 18, era “contro Marco Biagi”.
E che in giro c’erano “cattivi maestri che hanno trasformato una normale, fisiologica dialettica politica e sindacale in una scelta di civiltà ”.
Ieri ha detto, in perfetta continuità , che il clima omicidiario va fatto risalire ai “maledetti e bastardi anni ’70”, e all’omicidio Calabresi (17 maggio 1972), perchè i terroristi “non sono venuti da Marte: li abbiamo allevati nelle nostre scuole, nelle nostre università , nelle nostre case”.
Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: economia, emergenza, governo, la casta, Lavoro, PdL, Politica, radici e valori | Commenta »
Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
IN SETTE SI SONO TOLTI LA VITA NEL 2011…IL DAP ORA PROMETTE UNA COMMISSIONE…LE 2000 ASSUNZIONI PROMESSE DA ALFANO E MAI REALIZZATE
“Quando hanno aperto la cella era già tardi perchè con una corda al collo freddo pendeva Michè”. Nel 1961 una ballata di Fabrizio De Andrè raccontava in musica il suicidio in carcere di un detenuto, condannato a 20 anni per l’omicidio di chi “voleva rubargli Marì”.
A cinquant’anni di distanza, sono rimasti in pochi a occuparsi di chi si ammazza dietro le sbarre.
E quasi nessuno ricorda che a farla finita sono anche quelle persone che negli istituti lavorano.
Luigi è l’ultimo dei sette poliziotti penitenziari che si sono suicidati nel 2011.
Lavorava nel reparto colloqui del carcere di Avellino, si è impiccato ieri mattina nella sua casa di Battipaglia.
Aveva 46 anni, una moglie e un figlio piccolo. Immune da provvedimenti disciplinari, da qualche giorno era in congedo ordinario.
Ne hanno dato notizia i sindacati della polizia penitenziaria. Altrimenti il nome di Luigi sarebbe rimasto sconosciuto anche alle agenzie di stampa.
Il primo a togliersi la vita, il 9 aprile di quest’anno, è stato un assistente capo in servizio nel carcere di Mamone Lodè, nel nuorese.
Si è ucciso con la pistola d’ordinanza nella sua casa di campagna.
Il 12 aprile un assistente del penitenziario di Caltagirone, 38 anni, si è impiccato in contrada Stizza. Il 15 maggio si è sparato nel suo alloggio in caserma un ispettore viterbese.
Giuseppe, assistente capo in servizio a Parma, si è impiccato il primo luglio dopo aver fatto rientro nella sua Cirò Marina, in Calabria.
Il 7 settembre è stata la volta di un assistente delle Vallette di Torino, che ha premuto il grilletto all’interno del cimitero di Foglizzo. Stessa modalità , ma in casa, per un ispettore romano, che si è suicidato il 18 ottobre.
E poi Luigi.
Nessuno può giudicare, entrare nel privato o additare questo o quel motivo per scelte così drammatiche.
Ma forse sarebbe il caso di provare a capire se esiste un filo che lega questo alto numero di suicidi (si rischia di andare verso il pessimo record dei 10 nel ’97 e ’98).
Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che si è detto “addolorato”, ha “immediatamente istituito una commissione che ha il mandato di studiare il fenomeno del suicidio tra il personale di Polizia Penitenziaria sia dal punto di vista quantitativo, con un esame comparato del fenomeno presso le altre Forze di Polizia, sia dal punto di vista qualitativo, per l’individuazione delle possibili cause dell’atto di suicidarsi”. Un’ipotesi di aiuto, in realtà , era nata già qualche anno fa, nel 2008, quando l’allora capo del Dap Ettore Ferrara pensò, anche su richiesta dei sindacati, di creare degli sportelli di ascolto all’interno delle carceri.
Buoni propositi mai messi in pratica (eppure, per esempio, basterebbe affidare il servizio alle Asl, che già si occupano della salute dei detenuti).
“L’amministrazione ha fatto orecchie da mercante — denuncia il segretario del Sappe, Donato Capece —. Non vorrei che anche le ultime affermazioni fossero di facciata. Invece è un allarme da non sottovalutare”.
Secondo il sindacato, dal 2000 ad oggi i suicidi sono stati 100 (oltre a un direttore d’istituto e a un dirigente regionale).
Cifra che l’amministrazione abbassa a 65, ma comunque un numero elevato.
I poliziotti penitenziari vivono in condizioni molto difficili.
Le 2000 assunzioni previste dall’ex ministro Alfano nel Piano carceri non sono mai state fatte (le 1400 che si stanno pianificando erano già previste dal turn-over).
Gli agenti sono costretti a turni pesanti e sono sempre a contatto con le libertà private (e con la disperazione) dei detenuti.
“Non c’è un nesso diretto tra suicidio e lavoro — spiega il segretario della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno —, molto più probabilmente la consapevolezza di non poter assolvere al proprio mandato indebolisce chi è sulla border line della depressione. C’è una manifestazione di disagio legata alla non qualità del proprio lavoro”.
Silvia D’Onghia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia, economia, Giustizia, governo, Lavoro, Politica, radici e valori, Sicurezza | Commenta »
Novembre 2nd, 2011 Riccardo Fucile
FENOMENOLOGIA DI UN LEADER: BARICCO COME PADRE NOBILE, ECHI VELTRONIANI, RITMO TELEVISIVO E ANIMAZIONE DA VILLAGGIO TURISTICO, PROVATA FEDE IN MARCHIONNE
Comunque vada, i giorni della Leopolda sono stati un terremoto. 
Una riscrittura della lingua mediatica del centrosinistra, soprattutto del Pd. Uno sparigliamento da riassumere in un nuovo vocabolario, quello che Matteo Renzi (nel bene o nel male) sta imponendo alla politica.
BIG BANG. E’ il momento primo, il principio di un nuovo inizio. Ma anche il turbine che sconquassa il vecchio equilibrio.
Il Big Bang di Renzi ha acquisito una forza motrice imponente, anche perchè colma un vuoto. Non esisteva, dentro il Pd, un punto di forza protagonista che si stagliasse oltre le correnti. Renzi spara sul quartier generale e non solo: su Bersani, e anche sul suo primo sfidante, Vendola.
Ma, soprattutto, Renzi rompe la regola dei “Compagni di scuola” (copyright Andrea Romano) cresciuti a Botteghe Oscure.
La regola per cui cane non mangia mai cane, e i peggiori dissidi vanno composti con il patteggiamento fra nemici.
Renzi aveva rotto questa regola fin dalle primarie a sindaco. Ora, ripetendo lo schema a livello nazionale, rompe l’unanimismo ipocrita con cui le correnti non hanno mai messo in discussione Bersani pur facendogli la guerra tutti i giorni.
Il big bang del Pd rompe il dogma da Politburo per cui può esserci un solo candidato del partito, ed è quello deciso dal partito.
FORMAT. Fa una certa impressione notare che la scenografia di un congresso era costruita come quella di un programma televisivo.
Accattivante e calda, come quella di un buon programma, “diversa” dall’iconografia tipica della convention di partito, ma terribilmente simile a quella di “Kalispera” di Alfonso Signorini, o di “Cotto e Mangiato” di Benedetta Parodi.
La finta casa accogliente è un nuovo prodigio della politica, ma un vecchio trucco del piccolo schermo.
MAGNOLIA. Se c’è un format, c’è anche un produttore. Anzi, ce ne sono tre, fra i più creativi e brillanti: Lorenzo Mieli, numero uno di Freemental, e Giorgio Gori, il guru di Magnolia.
E poi c’è l’autore regista di “Notte prima degli esami”, Fausto Brizzi, che ha condotto una intera sessione di dibattito.
Ieri il sito Termometropolitico.it  , su segnalazione del lettore Gianluca Morganti, ha prodotto un piccolo ma significativo scoop.
Nel Pdf delle 100 proposte di Renzi, è rimasta la traccia dell’estensore materiale del file, che incredibilmente è proprio Gori.
Un tempo la politica forniva contenuti, adesso deve interpretare dei format.
Renzi ha esordito in televisione alla “Ruota della Fortuna”. Un grande salto epocale è stato compiuto: dall’immaginazione al potere, alla fiction al potere.
RAP. Uno degli interventi più brillanti della convention non aveva parole. L’editore Alberto Castelvecchi, infatti, ha usato i suoi cinque minuti per animare la platea suggerendole di battere le mani in modo ritmato, per costruire il ritmo ideale che dovrebbe avere un dibattito. Un ritmo musicale.
Un ritmo televisivo, una animazione da villaggio turistico?
Tutte queste cose insieme.
GORMITI. Chi mai avrebbe pensato di invitare l’inventore dei Gormiti, Leonardo Cosumi? Renzi lo ha fatto. I Gormiti sono un doppio modello: il simbolo della creatività italiana che si impone nel mondo.
Ma anche la futura madeleine della generazione dei figli dei trenta-quarantenni di oggi.
Il renzismo ha capito un caposaldo della nuova animazione Disney: per portare al cinema i figli devi piacere ai papà .
VELTRUSCONINISMO Nella lingua della Leopolda c’è qualcosa di Veltroni, e persino di Berlusconi. L’idea del contenitore Omnibus, che Renzi aveva già immaginato nel suo primo libro “Da De Gasperi agli U2”.
Rispetto al veltronismo, però, il renzismo non cammina con il freno a mano tirato del ma-anche.
Non attenua tutto nella sincreticità delle differenze unite dal sentimento.
Non è buonista, anzi. Quando può, un calcio negli stinchi lo rifila volentieri.
Veltroni leggeva con il leggìo e con i gobbi elettronici di vetro, Renzi cammina con il microfono in mano appoggiato sul cuore, come Silvio quando imita Frank Sinatra.
Ma perchè quando si mette una libreria in scena, ci sono i libri finti?
Costano più di quelli veri, e fanno molto “L’Italia è il paese che amo”. Il renzismo, dunque, è un upgrade: migliora i difetti, ma ricicla software già sul mercato.
BARICCATE. Se si fa la rivoluzione bisogna andare sulle barricate, o — meglio — sulle Bariccate.
L’intervento che non si scorda, è quello di Alessandro Baricco. Anche il giovane Holden sublima un genere antico: l’autocritica.
L’incipit è folgorante: “Sono uno dei responsabili del mondo che è là fuori”.
Svolgimento perfetto: “Con l’alibi di tutelare i deboli, abbiamo allestito un sistema di tutele e di difesa di una rete dirette e di diritti ben stabile. Mentre i poveri avevano bisogno di un sistema dinamico: un paese bloccato in cui il ricco patisce l’asfissia ma non tanto. Mentre il povero ne muore”.
Se il renzismo cercava un padre nobile lo ha trovato. Ed è uno che fa share.
Battuta folgorante: “Io ho passato una vita a cercare di non morire democristiano, e l’altra a cercare di non morire berlusconiano. Ma vi pare una vita?”.
MARCHIONNE. Nello spirito era ovunque. Uno dei postulati del renzismo è: “Io sto con Marchionne senza se e senza ma”. Sul palco si parlava moltissimo di giovani precari.
Ma in prima fila si notavano molti giovani confindustriali.
DIRIGENTI. Quella di Renzi è la prima corrente formata (per ora) da un dirigente solo. Il primo caso di casting posticipato.
DEMOCRISTIANI. Renzi si presenta la quintessenza del nuovo, ma è anche il più antico dei giovani politici italiani.
Nel 1994, nel movimento dei giovani Popolari c’erano due leader locali: il responsabile dei giovani di Firenze (il nostro Matteo) e quello dei giovani siciliani (Angelino Alfano). Il nuovismo in Italia ha radici antiche (e sempre democristiane). Ricordatelo a Baricco.
Luca Telese blog
argomento: PD, Politica, radici e valori | Commenta »