Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
NELLO STORICO PALAZZO, SIMBOLO E SEDE DEL PARTITO, HA APERTO UN PAM, DI QUEL PERIODO NON RESTA PIU’ NULLA
La domanda spiazza l’interlocutore alle prese con l’ardua scelta su quale succo di frutta acquistare: “Lo
sa che in questi locali di Botteghe Oscure, fino a poco tempo fa, c’era Rinascita, la libreria del Partito comunista, e che in questo palazzo Togliatti e compagni hanno scritto un lungo pezzo di storia? ”.
Silenzio, sguardo attonito, quasi preoccupato. “Ho fretta… devo andare”, risponde.
Ci mancherebbe, siamo in un supermercato, uno dei tanti, tantissimi, infiniti nel centro di Roma, piccoli, medi, giganteschi, ovunque, sono tra i pochi esercizi commerciali ancora in buona salute (i dati del settore confermano), quindi giusto conquistare spazi, il mercato comanda, a prescindere da luogo, cultura, storia, sentimenti; a prescindere dalle timide proteste di coloro i quali in quella via hanno vissuto, e versato, parte del proprio credo, e che ora possono manifestare lo stordimento solo sui social network; le sezioni non esistono più, si chiamano circoli, e sono mezzi vuoti. “Quanti ricordi in quella via”, scrive Maria su Facebook, “ora non c’è più nulla, che tristezza”.
Ci sono scaffali con l’offerta della settimana, quella del giorno, il precotto, qualche surgelato, la memoria no.
Nessuno dei passanti conosce la storia di Botteghe Oscure, nessuno, è un luogo qualunque, una via qualunque, un palazzo qualunque.
Ugo Sposetti, tesoriere dei Ds, togliattiano di fede, virtualmente alza le mani e sfodera un inedito pragmatismo: “La questione doveva essere posta nel 2000, quando l’allora Pds ha lasciato il palazzo e abbandonato un percorso, non oggi. Oggi la vita prosegue, inutile aggrapparsi a certi simboli”.
Sì, di simboli non resta alcuna eco.
Giusto l’androne del palazzo ha ancora parte della struttura studiata da Giò Pomodoro, ora ha gli uffici l’Abi (Associazione bancaria italiana), “ma per anni è stato chiuso — spiegano all’interno — costava troppo, o almeno così dicono, ma da un anno la società ha rilevato la struttura. Oh, bella, figo anche il terrazzo, dicono che si affacciavano da lì”. Chi si affacciava? “I capi”.
Vero, ma senza mani sui fianchi, specialmente dopo un successo elettorale.
L’ultima sera di (fu) vera gloria è datata 21 aprile 1996. Berlusconi battuto. Prodi e Ulivo vincenti.
Il centrosinistra era il centrosinistra, il centrodestra era il centrodestra, l’ex Cavaliere era ancora un avversario, Renzi aveva appena 22 anni.
Il Nazareno non esisteva, le tradizioni sì: D’Alema, acclamato dalla folla, si affaccia, appunto, da quel balcone e alza il pugnetto in segno di vittoria, non il pugno.
Dentro la sede c’era Veltroni, forse anche Napolitano, e tutti gli altri leader, sparsi nelle varie stanze del terzo piano, il piano riservato ai big con un grande corridoio centrale sul quale si aprivano gli uffici.
Qui c’era anche quello di Togliatti dopo la sua morte, gli altri segretari hanno scelto la stanza accanto, un tempo regno del suo braccio destro, meglio non paragonarsi direttamente al Migliore.
“Comunque qui è un mortorio — interviene un commesso del supermercato — c’è poco movimento”.
A dire il vero non c’è proprio, movimento. Strade semi-vuote, sia di macchine che di pedoni, serrande abbassate da ambo i lati del marciapiede, cartelli con “affittasi” e numeri di telefono scritti a caratteri enormi, meglio non rischiare di perdere un potenziale cliente. “Sono troppo cari gli affitti, e non è una via commerciale — spiega un’agenzia immobiliare — giusto un market può avere margini”.
Una libreria no, non è più il tempo, anche se si chiamava Rinascita, nome evocativo di un fine, di un programma, per alcuni di una speranza, ma i libri sono in crisi, pure in questo caso i dati sono chiari.
“Ma lo sa cosa c’era da quel lato, dietro le saracinesche? ”, ci domanda un signore anziano. No. “I servizi segreti, monitoravano i movimenti dentro il palazzo, ufficialmente controllavano la sicurezza, ma non so se era veramente così. E poi lì dietro, oltre l’angolo, c’era il bar di Vezio, con il busto di Lenin all’entrata, e dentro sembrava di superare il confine con l’Unione Sovietica, solo falce e martello, icone comuniste e pugni chiusi”.
Al posto del bar c’è uno studio di grafica. Anche Vezio non c’è più.
E di Botteghe Oscure è rimasto solo l’Abi e un bottegone, da supermercato con l’offerta a 3 euro.
Alessandro Ferrucci
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO IL PIZZINO DI LOTTI AL “FOGLIO”, LA PAURA CHE RENZI VOGLIA LA PROVA DELLO “SCATTO FEDELTà€”
Premiata ditta Denis & Luca. Il maestro e l’allievo.
Verdini e Lotti, il cuore nero del Nazareno.
Dopo l’inquietante e gigantesco pizzino (una pagina intera) che il biondo fedelissimo di Matteo Renzi avrebbe rigirato via mail alla redazione amica del Foglio sui parlamentari del Pd fedeli o meno al patto renzusconiano, in vista degli scrutini per il Quirinale, adesso la paura dei ribelli antinazareni si concentra sulla futura evoluzione dei metodi del premier.
Ossia, il controllo del voto nel catafalco che sarà montato a Montecitorio il 29 gennaio, quando nell’urna s’inizierà a scegliere il successore di Giorgio Napolitano.
Per il Capo dello Stato, il voto deve essere segreto ma i grandi elettori possono entrare nella cabina mobile con telefonino o smartphone per fotografare eventualmente la loro scheda.
È già accaduto nel 2013. Chiamato in causa per i 101 franchi tiratori che affossarono Romano Prodi, il democristiano Beppe Fioroni mostrò ai giornalisti la sua scheda immortalata con il cellulare: “Ecco qua, non posso essere sospettato, ho votato Prodi”.
La minaccia del premier e l’allarme della minoranza
I timori della minoranza del Pd vengono fuori da una conversazione tra due senatori di area bersaniana, nei giorni scorsi a Palazzo Madama.
Uno noto, l’altro di meno. Dice il secondo al primo: “Vedrai che imporranno il controllo del voto. Ci chiederanno di fotografare la scheda nel catafalco per essere sicuri”.
Il dialogo incrocia il pizzino lottiano in una dinamica micidiale, dal sapore verdiniano. Come spiega un deputato antirenziano del Pd: “Il premier scatenerà l’Armageddon minacciando le elezioni anticipate con il Consultellum se non votiamo il presidente del Nazareno. E a chi verrà comprato tra di noi, con la promessa di una ricandidatura, sarà chiesta la prova della fedeltà ”. Cioè la foto della scheda.
Luca, il Verdini 2.0 e il metodo Razzi
Ecco perchè sui divanetti del Transatlantico, Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, è stato soprannominato “Verdini 2.0”.
I metodi di “Denis” in politica sono senza scrupoli. Lo testimoniano processi e inchieste. Deputati o senatori acquisiti per compensare scissioni interne oppure per far cadere governi nemici.
I metodi sono questi, da Sergio De Gregorio ad Antonio Razzi, e giova ricordare che Verdini e Lotti sono amici.
Si scambiano mail, si telefonano quotidianamente. E adesso sono uniti nella madre di tutte le battaglie.
L’elezione di un capo dello Stato garante del Nazareno, non della Costituzione.
Così la lotta politica diviene ancora una volta la caccia all’incerto, all’opportunista o al pauroso da convincere con la fatidica frase evocata dal pizzino fogliante: “Ti farò un’offerta che non puoi rifiutare”.
Tutto questo potrebbe portare al controllo del voto con il selfie nel catafalco di Montecitorio.
Romanzo criminale o romanzo Quirinale?
Le regole per i cittadini non valgono a Montecitorio.
Recita la legge: “Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini”.
Perchè i mille e passa grandi elettori del presidente della Repubblica devono votare in modo differente dagli altri italiani?
Dice Pippo Civati: “Sarebbe bello votare come tutti i cittadini. Lo trovo giusto”. Il Fatto ha rigirato allo staff di Laura Boldrini, presidente della Camera, i timori che sinora serpeggiano sotterraneamente in una parte del Pd. Questa la risposta: “Per il momento nessuno ancora ha sollevato la questione. Qualora dovesse accadere, per la segretezza del voto è sufficiente il catafalco”.
Tradotto, vuol dire: telefonino libero nella cabina volante. La promessa di un seggio e i posti disponibili Ma a quanti parlamentari della minoranza del Pd, il clan renziano può promettere la ricandidatura con un seggio certo in cambio del voto quirinalizio? Oggi i deputati e senatori democratici sono 415.
Con la riforma del monocameralismo e l’Italicum in vigore dal 2016 ci saranno solamente 340 seggi alla Camera da assegnare (cento con i capilista nominati e 240 con le preferenze).
Sempre che il Pd vinca le elezioni.
Il rischio è che nei prossimi giorni vengano promessi posti immaginari.
Il Nazareno scriverà una delle sue pagine più oscure. E per assicurare il successo alla segretezza del patto indicibile sarà forse necessario il controllo del voto segreto.
È la Terza Repubblica dei costituenti renzusconiani con i metodi della ditta Lotti & Verdini. La campagna acquisti sta per iniziare.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
IL QUESTORE DAMBRUOSO: 73 EURO A PASTO… PER LA CAMERA SONO 17,50 EURO
Settantatrè euro. Per quanto sia davvero difficile immaginare che un singolo pasto in una mensa di un
ufficio pubblico, per quanto di livello extra, possa costare ai contribuenti una cifra simile, sarebbe questo uno dei sorprendenti effetti collaterali della rescissione dei contratti per i palazzi Marini da parte della Camera.
Parliamo di quei quattro stabili che una quindicina d’anni fa l’amministrazione di Montecitorio aveva preso in affitto dall’immobiliari
A un costo medio annuo di 547 euro al metro quadrato, più il prezzo dei servizi.
Per un totale sborsato, in tre lustri, di gran lunga superiore al mezzo miliardo: cifra che sarebbe stata più che sufficiente per acquistare tutti quegli immobili.
Finchè un bel giorno, grazie soprattutto alle denunce pubbliche sull’enormità di quella spesa e al pressing determinante del Movimento 5 Stelle, che l’anno scorso è riuscito non senza resistenze a far passare una legge per consentire allo Stato di interrompere gli affitti passivi prima della scadenza pur in assenza di clausole precise, la Camera ha deciso di rescindere i contratti risparmiando una montagna di quattrini.
E il 21 gennaio scorso sono state restituite le chiavi.
Ma con un piccola coda: uno strascico da un milioncino di euro.
Nel più grande dei palazzi Marini c’è anche la mensa per i dipendenti. Il servizio è curato da 45 dei 426 lavoratori della società Milano 90 di Scarpellini che potrebbero perdere il posto in seguito alla rescissione dei contratti.
Per questo da mesi stanno andando avanti le trattative con i sindacati e per cercare di tamponare la situazione è scesa in campo anche la Regione Lazio che sta esaminando la possibilità di metter in campo le procedure di mobilità .
Nel frattempo gli uffici dei deputati sono stati trasferiti in un altro stabile della Camera, a vicolo Valdina.
E in attesa di perfezionare l’operazione del trasloco con un nuovo appalto per i servizi, si è deciso di far funzionare ancora la mensa fino alla fine del mese di febbraio.
Qui però viene il bello.
Perchè per tenere aperta la mensa e assicurare l’agibilità dei locali la società di Scarpellini ha richiesto il pagamento dell’affitto per tutto l’immobile, che resterà comunque completamente inutilizzato.
O meglio, ci saranno i 45 addetti alla mensa più altri 45 lavoratori di solito impiegati nei servizi al piano.
I quali però, com’è facilmente intuibile, non avranno proprio nulla da fare.
«Uno spreco assolutamente insensato di denaro pubblico», per il questore di Scelta civica Stefano Dambruoso che ha votato contro la decisione presa dall’ufficio di presidenza della Camera.
Non prima di aver messo per iscritto il proprio dissenso in una lettera girata a tutti i suoi componenti. Nella quale ha anche fatto i conti.
Sommando all’onere del servizio mensa il canone per il palazzo vuoto, «l’operazione avrebbe un costo complessivo di 991.291,14 euro».
Siccome poi «la media giornaliera dei pasti presso la mensa di palazzo Marini 3 mi viene riferito essere di 399, è facile calcolare che il costo di un singolo pasto, attesa la durata contrattuale di 34 giorni, sarebbe di 73 euro, considerando anche l’apertura il sabato e la domenica».
Immediata la replica della Camera: «quei conti sono sbagliati, ogni pasto costa 17,50 euro».
E la saga continua…
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
INUTILE DELOCALIZZARE: “NELLE FILIERE ITALIANE POCHI SOLDI E TURNI ANCHE DI 12 ORE, SPESSO IN NERO”
L’itinerario nel settore della moda italiana inizia dalla Riviera del Brenta, in provincia di Venezia, famosa per il settore calzaturiero.
Ci sono più di 550 aziende, le grandi griffe hanno evitato che il distretto collassasse durante la crisi economica, ma hanno divorato le imprese artigianali.
I proprietari delle aziende locali sono stati assunti come operai specializzati.
Per sopravvivere si deve sottostare a ritmi massacranti: “Hanno installato la manovia elettrica per andare più veloci — raccontano — e poi hanno aumentato le ore perchè bisognava consegnare. Erano lì con il camion, pronti ad andare via. Non c’era più tranquillità . Ti dicevano: ‘Si devono fare 90 paia di scarpe per domani sera’. Si lavorava anche il sabato e fino a 12 ore al giorno nel momento del boom: le suole e i tacchi che non arrivano e devi fare tutto di fretta – prosegue – Invece di finire alle cinque e mezza finisci alle otto. E dovevi fare tutto molto bene perchè andavano in sfilata”.
In Riviera c’è poca rappresentatività sindacale e i rari iscritti sono stranieri che hanno bisogno di spiegazioni burocratiche.
“Tra le varie griffe – si legge nell’ultimo rapporto elaborato dalla campagna “Abiti Puliti” – sembra che Prada sia quella in cui i rapporti sindacali sono più complicati e le condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte, Prada è l’unica delle grandi case del lusso che applica il contratto di lavoro del cuoio sebbene la produzione sia calzaturiera”. Questo tipo di contratto è più basso come livello economico rispetto a quello tessile o calzaturiero.
L’azienda, contattata dal Fatto, non ha fornito, per ora, alcuna risposta. Ma altri nomi si ripetono spesso nello studio: Louis Vuitton, che contattata ha risposto di non “commentare questo genere di dati”.
Dior, che dopo aver richiesto l’invio di una mail con specifiche domande, non ha fornito risposta. Armani, stessa situazione. Fendi, il cui telefono ha squillato a vuoto. Ferragamo: anche in questo caso richieste di mail e poi nulla.
Il loro ruolo nelle vicende non è diretto. Spesso, però, le imprese che applicano condizioni disumane appartengono alla filiera di subappalti che ha origine proprio dalle grandi griffe.
Gli asiatici in Toscana producono per i big della moda
In Toscana, nel distretto tessile di Prato, l’80% delle imprese è a conduzione cinese.
Una “filiera nella filiera”, portata alla luce dopo l’incendio del dicembre 2013, senza permessi di soggiorno, con rapporti di lavoro irregolari, pagamenti in nero, evasione fiscale, orari di lavoro prolungati, luoghi insalubri.
Ma il dato che stupisce è che l’allarme del mondo imprenditoriale è stato lanciato solo quando le ditte cinesi sono uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per assumere il controllo di tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione.
Già nel 2003, uno studio di Antonella Ceccagno sul distretto tessile multietnico toscano sottolineava come, tra gli imprenditori cinesi subfornitori di aziende italiane, i nomi più citati fossero quello di Armani, Ferrè, Valentino, Versace e Max Mara.
Giovanna, che invece è italiana, racconta nel rapporto: “Cucivo le tomaie da casa a mano, con ago e filo. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia al giorno. Mi pagavano al paio. In nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Perchè devi fare questo movimento, così – racconta mimando il gesto – Per tutto il giorno, per prendere poi alla fine del mese 500, 600 euro”
Dalle finestre a livello strada delle cantine dei vicoli di Napoli si vedono spesso operai impegnati a cucire nei sottoscala.
Attraversando un ponte della zona industriale è facile notare laboratori con file di macchine per cucire attive a qualsiasi ora del giorno.
Sono imprese conto terzi che producono per le aziende locali e le grandi firme nazionali. Ambienti in cui prevale il ricorso al lavoro nero, che sfocia nel sommerso e nelle produzioni cosiddette “parallele” (a servizio anche delle distribuzioni legali).
A Napoli, il lavoro si tramanda, i laboratori sono casalinghi e familiari e si lavora anche in età scolare.
Marco, che è un tagliatore, addetto ai tessuti, racconta di aver iniziato a 14 anni.
“Ero impiegato nell’azienda di mio zio, una ventina di persone. Producevamo completi da donna per i grossisti. La maggior parte dei dipendenti era irregolare”.
Inutile andare all’estero, meglio importare lo sfruttamento del lavoro in Italia
Oggi, il problema è l’attribuzione di responsabilità .
È colpa dei grandi marchi a capo della filiera o di chi subappalta?
“Non esiste, a livello internazionale, una legge che obblighi le grandi case di moda ad avere il controllo su tutta la filiera di produzione. E così per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro in Italia le aziende possono alzare le spalle e dire ‘non ne sapevo nulla’” spiega al Fatto Francesco Gesualdi, che ha curato il rapporto “Abiti puliti”.
“Per salari più bassi e condizioni di lavoro infime, non c’è più bisogno di delocalizzare – continua – Si fa direttamente qui”.
Partendo dal paniere Istat, emerge che il salario degli operai dell’abbigliamento italiano è inferiore a quanto necessario per vivere dignitosamente.
“È assurdo se si considera quanto costa una borsa griffata o quanto spendono i grandi marchi solo in pubblicità . Si parla del 10% di tutti i ricavi”.
Così, cresce il fenomeno del backreshoring, ovvero del ritorno in patria delle aziende di moda che avevano inizialmente delocalizzato.
“Gli conviene – spiega Gesualdi – perchè importano lo stesso modello dell’Europa dell’Est, con la classe politica compiacente, col Jobs act che riduce le tutele. Le aziende hanno tutto dalla loro parte e il governo è compiacente. Che bisogno c’è di andare in Cina o Bangladesh se i lavoratori italiani sono trattati allo stesso modo? ”.
Intanto, Benetton rifiuta di risarcire le vittime del crollo di Rana Plaza, a Dacca in Bangladesh, che nel 2013 provocò 1.129 vittime e 2.515 feriti.
“Si ostina a respingere la sua responsabilità , nonostante tutte le prove della sua presenza in quella fabbrica — spiega Gesualdi —. Chiediamo che Benetton versi 5 milioni di dollari nel Fondo istituito, tramite l’Onu, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una cifra proporzionale all’entità dei profitti che il gruppo realizza e ha realizzato anche grazie al Rana Plaza”.
All’accusa, mossa a dicembre da “Abiti Puliti”, Benetton aveva risposto dicendo di star operando tramite un’organizzazione non governativa, con un sostegno finanziario e corsi di formazione per 280 vittime e le loro famiglie.
Un’iniziativa che, secondo “Abiti Puliti”, è “solo beneficenza”. E non ha nulla in comune con i diritti dei lavoratori.
Virginia Della Sala
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
IL PD CHE ATTACCO’ DE MAGISTRIS ORA NON INVOCA PIU’ LA SEVERINO…MA NON LO VUOLE ALLE PRIMARIE
La conferma che Vincenzo De Luca è l’uomo dei record — 75% al primo turno nel 2011, ben 11.000
firme per la candidatura alle primarie del Pd in Campania — arriva poco prima di pranzo, con il decreto prefettizio di sospensione dalla carica di sindaco di Salerno.
Sono trascorsi appena due giorni dalla condanna per abuso d’ufficio alla notifica del provvedimento. Un record anche questo.
Straccia i sette giorni impiegati per sospendere Luigi de Magistris a Napoli, poi reintegrato da un’ordinanza del Tar confermata dal Consiglio di Stato.
De Luca e De Magistris sono le due vittime più illustri della Severino.
Una legge che per il Pd è da applicare e rispettare quando riguarda un sindaco avversario, ma diventa — Piero Fassino dixit, a nome dell’Anci — una norma che “penalizza gli amministratori perbene” e va rivista, se colpisce un democrat.
Per fortuna c’è chi conserva i lanci di agenzia.
La condanna di De Magistris risale al 24 settembre e il giorno dopo il segretario del Pd campano Assunta Tartaglione già parla “di applicazione possibile della Severino” per un primo cittadino “che ha messo in ginocchio la città ” e lo invita “a pensare alle possibili dimissioni”.
Il 26 settembre, il responsabile Giustizia Pd, David Ermini, a proposito della Severino, è lapidario: “La legge è uguale per tutti. In Italia le sentenze si rispettano e le leggi si applicano. Funziona così”.
Il senatore pd, Rosaria Capacchione, rincara: “La legge c’è e va applicata. Berlusconi si è dovuto dimettere e, invece, De Magistris vuole fare le barricate… Se una condanna è ingiusta, la si impugna. Ma, nel frattempo, il sindaco dovrebbe farsi da parte”.
Il 27 settembre Antonio Bassolino, recentemente riappacificato con De Luca dopo decenni di lotte intestine, va oltre: “De Magistris ormai è finito, è il momento di ridare la parola ai cittadini”.
In quelle ore il presidente del Senato Grasso risponde così a una domanda: “De Magistris può scegliere se dare le dimissioni o aspettare l’applicazione di questa legge”.
Interviene anche il segretario generale campano Cgil, Franco Tavella: “De Magistris risparmi alla città una lunga agonia e restituisca con le sue dimissioni la parola agli elettori”.
Si tratta dello stesso Franco Tavella che l’altro ieri era a Salerno alla prima iniziativa politica di De Luca dopo la condanna.
Il 1° ottobre, a decreto di sospensione ormai pronto, il segretario napoletano del Pd Venanzio Carpentieri prevede per Napoli “una prospettiva di profonda incertezza e di grave instabilità politica, per le quali manifestiamo profonda preoccupazione” e aggiunge: “Riteniamo indispensabile scongiurare una simile eventualità e consentire alla città di tornare al voto”.
Il culmine, o il colmo, arriva il 4 ottobre, quando il senatore Pd Angelica Saggese invoca in un’interrogazione ad Alfano “il divieto di dimora a Napoli per De Magistris” per mettere fine “a uno spettacolo indecoroso di un ex primo cittadino che ha dimostrato un assoluto disprezzo per chi lo ha condannato e sospeso”.
Ora il Pd tace, anche se De Luca è stato condannato per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni, a differenza di De Magistris.
Nessuno invita il sindaco di Salerno a dimettersi, i Dem glissano sui suoi attacchi “a quella parte della magistratura che non sa cosa sia il diritto, e solo uno squinternato poteva pensare di trovare contro di me il peculato” (mentre fonti dalla Procura fanno filtrare l’ipotesi di un ricorso contro l’assoluzione per questo reato).
Dietro le quinte, tra Roma, Napoli e Salerno, si anima una trattativa impossibile da portare alla luce del sole: De Luca si ritiri dalle primarie in Campania e in cambio il Pd gli lascerà campo libero a Salerno fino alla fine del mandato (dando per scontato che il Tar applichi anche a lui il precedente di De Magistris).
Ma le primarie ci saranno? “Assolutamente sì” risponde De Luca pochi minuti dopo la sospensione.
E ora? “Mi sento persino inorgoglito della mia nuova veste di sindaco emerito. Affiancherò come volontario il sindaco facente funzione per supportarlo nella sua attività ”. Si tratta del suo capo staff, Enzo Napoli.
Nominato poche ore prima della condanna.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
COSI’ LA SINISTRA RADICALE HA COSTRUITO UN SISTEMA DI VOLONTARIATO CHE CREA CONSENSI
«Scusi la penombra, ma non abbiamo pagato le bollette della luce. Manca anche il riscaldamento, quindi tenga pure il cappotto».
Sulla credenza dove una volta c’era il servizio di porcellana e le bomboniere dei matrimoni ora sono allineate scatole di medicine.
In cucina lo stesso, in bagno anche, farmaci ovunque, fin nel frigorifero rotto.
«Per fortuna sono tante» sorride Dimitri Souliotis. «Questa è casa di mia cognata, ma ora lei vive con me e mia moglie e questa è diventata una farmacia per disoccupati, senza tetto e immigrati. Assistiamo anche tre italiani indigenti. È stato il Consolato a mandarceli».
Le medicine sono in ordine alfabetico come in una farmacia vera, ma dentro le confezioni ci sono pastiglie e bustine sfuse, blister usati a metà .
«Ormai qui in Grecia lo fanno tutti. Quando guarisci e qualche farmaco è avanzato, non lo lasci scadere nel cassetto, ma lo regali. Noi li raccogliamo e li distribuiamo».
Souliotis per trent’anni ha fatto il marconista sulle navi. Erano i tempi d’oro degli armatori greci, Onassis e non solo.
Poi, in pensione con 1.250 euro al mese, è finalmente tornato ad Atene, in tempo per scarrocciare sotto la furia della Grande Crisi.
«La pensione è affondata a poco più di 800 euro, ma comunque sto a galla. Gente più giovane e senza lavoro invece ha perso tutto: la casa che pagava col mutuo e l’assistenza sanitaria. In mare quando uno sta annegando lo si aiuta. Perchè a terra dovevo far finta di non vedere?».
L’impegno sociale è una riscoperta per tutta Europa, ma in Grecia, la disoccupazione ha colpito selvaggiamente, ha cambiato la società e la politica.
La Chiesa ortodossa ha attivato le chiese, una rete fittissima che riceve poche critiche e sfama ogni giorno almeno 200 mila persone.
Anche la destra neonazi di Alba Dorata ha proposto il suo volontariato con ronde antimmigrati, «aiuti» per sfrattare gli stranieri morosi e mense sociali per soli greci purosangue.
Chi ha azzeccato la formula è stata la sinistra di Syriza.
«Non abbiamo messo il cappello su nessuna iniziativa e questo ci ha dato grande credibilità » dice Argiris Panagopoulos, una sorta di ambasciatore della sinistra greca in Italia.
«La gente ha capito che non ci comportavamo come un partito qualsiasi, che noi eravamo come loro: la risposta della società ai nuovi bisogni».
Farmacie sociali, mense, reti di medici per visite gratuite, Syriza non è solo sfida al debito e all’euro, ma anche una sorta di Stato sociale sostitutivo di quello azzoppato dai tagli della Troika.
«Una delle idee migliori sono i mercatini senza intermediari – spiega Feano Fotiu responsabile della solidarietà di Syriza –. Guadagnano i contadini che non sono strozzati dalle catene dei supermercati e guadagnano i consumatori con prodotti di qualità a basso prezzo».
Come nei gruppi d’acquisto a km0, solo che qui non si pensa al bio, ma a sopravvivere.
Il 30% delle famiglie è sotto la soglia della povertà , i disoccupati 1,5 milioni, come i lavoratori e i pensionati.
«Gli avversari ridevano di noi chiamandoci il “partito delle lenticchie”. Ma erano loro a non capire che contro la fame, un piatto di lenticchie è benvenuto soprattutto se onesto e disinteressato».
Per ordinare le merci, chiedere farmaci, vestiti, aiuto è necessario lasciare un numero di telefono, un indirizzo mail.
In due anni di Grande crisi, Syriza ha costruito così un database che è diventato utilissimo per costruire anche una base politica.
«Sono 400 i centri di solidarietà in tutto il Paese che in vario modo fanno parte del nostro network – spiega Fotiu – e così siamo riusciti a diffondere una consapevolezza diversa».
Syriza è uscita dal «palazzo» per riportare la politica nell’agorà , in piazza.
Organizza assemblee di quartiere dove cercare soluzioni ai problemi pratici, un ritorno etimologico alla politica.
Così è nata, gramscianamente, l’egemonia di cui godono oggi le tesi del partito in Grecia. «La gente era paralizzata dal senso di colpa che gli era stato indotto dalla narrativa dominante della recessione. Il Nord Europa e la Destra ci descriveva come meridionali lazzaroni e corrotti, inferiori ai virtuosi tedeschi. I greci sentivano la responsabilità morale del fallimento nazionale fino a che Syriza non ha parlato del ruolo dei banchieri, del trucco dei prestiti che rendono schiavi, del neoliberismo rapace. E le teste si sono alzate».
Questo welfare solidale una volta lo si sarebbe chiamato «catena di trasmissione» tra partito e società , ma in Grecia si è dimostrato un antidoto per l’anti politica e la rassegnazione che dominano in tanta parte d’Europa.
Futiu è certa: «Con farmaci e lenticchie Syriza ha distribuito anche l’idea che un partito diverso, più pulito e umano, possa meritare fiducia».
Andrea Nicastro
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
LA GRECIA E GLI ALTRI FLOP… I TEDESCHI CONTESTANO LE MISURE
A prima vista il bazooka della Bce ha ottenuto tutti i risultati: la decisione di Mario Draghi e del consiglio
della Bce hanno annunciato un piano di acquisti di titoli pubblici per 1.140 miliardi di euro sta indebolendo il cambio dell’euro con il dollaro, spingendo le Borse e abbassando il costo del credito.
Piazza Affari cresce dello 0,35 per cento, l’euro scende fino a 1,12 dollari, ai minimi del 2003, il tasso di interesse fissato dal mercato per i buoni del Tesoro italiani a 10 anni scende sotto il minimo storico, all’1,5 per cento.
Tutto bello, bellissimo. Ma soltanto in superficie.
Ci sono almeno tre segnali che invitano a ridimensionare l’ottimismo.
INCOGNITA GRECA
Nel comunicato ufficiale della Bce, Mario Draghi ha fatto un’apertura, molto discreta ma chiara, alla Grecia: la Bce non può comprare titoli di Stato di Paesi dell’eurozona con un rating al livello spazzatura, cioè Grecia e Cipro, tranne nel caso in cui siano impegnati in programmi di riforme negoziati con l’Unione europea in cambio di assistenza finanziaria. Tradotto: caro Alexis Tsipras, se quando vincerai le elezioni domenica con Syriza non sgancerai la Grecia dal rapporto con la troika (Ue-Bce-Fmi), la Banca centrale europea comprerà anche titoli greci, sostenendo l’economia e alleggerendo i bilanci delle banche locali.
Che ne hanno parecchio bisogno, visto che nei giorni scorsi hanno dovuto richiedere l’utilizzo della linea di liquidità di emergenza (ELA) per evitare che la fuga di capitali pre-elettorale causasse disastri
Ieri è arrivata la risposta di Tsipras: un eventuale governo guidato dalla sinistra di Syriza “non rispetterà accordi firmati dal suo predecessore”, cioè dall’esecutivo di centrodestra di Antonis Samaras e Nuova Democrazia.
Spiegazione di Tsipras: “Il nostro partito rispetta gli obblighi che derivano dalla partecipazione della Grecia alle istituzioni europee. Ma l’austerità non fa parte dei trattati di fondazione dell’Ue”. La carota offerta da Draghi non ha funzionato.
È GIà€ ORA DEL BIS
A meno di 30 ore dall’annuncio del Quantitative easing, atteso per mesi, il membro francese del board della Bce, Benoit Coeurè, già dice: “Se vedremo che ci sono difficoltà nel raggiungere i nostri obiettivi, dovremo continuare”.
Ufficialmente il piano di acquisti straordinari di bond dura “almeno” fino al settembre 2016.
Quindi è già noto che potrebbe continuare, ma che uno dei vertici della Bce lo dica esplicitamente così presto ha trasmesso ai trader un senso di insicurezza.
La Bce sta dicendo che è pronta a fare di tutto contro la deflazione o che non è sicura che le misure adottate funzionino?
Nel suo discorso al convegno americano di Jackson Hole, in agosto, Mario Draghi aveva invitato gli economisti a non guardare soltanto il dato dell’inflazione, ma anche un indicatore noto solo ai tecnici, lo swap quinquennale sull’inflazione che in pratica è una stima di come andranno i prezzi fra cinque anni.
Perchè la Bce prende le sue decisioni ragionando sul futuro e non sul passato. Dopo le parole di Coeurè di ieri l’indicatore ha oscillato, come se sui mercati non sapessero se prevedere una perdurante deflazione, più forte della Bce, o sentirsi rassicurati dall’ipotesi di nuovi interventi.
IL FRENO TEDESCO
A Berlino, e soprattutto nella capitale finanziaria di Francoforte, le resistenze al Quantitative easing sono state fortissime.
Draghi ha spiegato che alla fine tutti, nel consiglio della Bce, erano d’accordo sul fatto che comprare titoli di Stato non violasse lo statuto della Banca centrale.
Ma c’erano alcuni che contestavano la decisione di intervenire adesso (anche se l’inflazione è lontanissima dall’obiettivo della Bce, -0,2 per cento invece che +2). “L’acquisto di titoli di Stato nella zona euro non è strumento come gli altri. Comporta dei rischi”.
Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, attacca senza riserve il Qe annunciato ieri dalla Bce.
Weidmann, ieri, ha spiegato in un’intervista alla Bild le ragioni della sua contrarietà : “Con il nuovo programma le Banche centrali del sistema Bce diventeranno tra i principali creditori della zona euro. Questo comporta il rischio che le politiche di consolidamento fiscale vengano messe da parte”.
L’attacco è diretto a Italia e Francia. L’obiezione è fondata: finora la Bce faceva operazioni di pronti contro termine, cioè caricava sul suo bilancio titoli soltanto come garanzia di prestiti a breve termine, alla scadenza recuperava i soldi e restituiva i titoli. Ora invece li compra e acquista anche titoli a rendimento negativo (quelli tedeschi, per esempio), che cioè non portano guadagni a Francoforte e alle Banche centrali nazionali che gestiscono il grosso dell’operazione, ma perdite.
E i governi si troveranno a pagare meno interessi sul debito e quindi avranno meno incentivo a rispettare gli impegni sull’austerità .
“Non è vero”, risponde il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
Idem il presidente francese Franà§ois Hollande: “Anzi, ci obbliga a essere più audaci”. Polemiche che Draghi sperava di evitare perchè riducono la fiducia del mercato nell’operazione.
Stefano Feltri
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
ACQUISTI CONSISTENTI PRIMA DELLA RIFORMA, CHI HA PASSATO INFORMAZIONI?
Voci, segnali, indiscrezioni, indizi, generici nei contenuti, più precisi nel luogo geografico: Londra.
Qui si sarebbe concentrata un’intensa attività sui titoli di alcune banche popolari quotate in Borsa nei giorni precedenti l’annuncio e il varo della riforma.
Dieci gli istituti che dovranno trasformarsi in spa, sette sono sul listino di Piazza Affari tra cui i due big Banco Popolare e Ubi Banca, e tutti hanno preso il volo alle prime notizie sulla riforma.
Londra, dunque, una delle piazze finanziarie più importanti del mondo, con il London Stock Exchange che sette anni facomprò la Borsa Italiana.
Attività anomala sulle Popolari? Movimenti che potrebbero perfino far sospettare un caso di insider trading?
Si sa, sulla base di convergenti fonti di mercato, che alcuni soggetti con base a Londra avrebbero creato posizioni anche rilevanti in azioni delle banche popolari nei giorni e nelle ore precedenti le prime circostanziate indiscrezioni (quindi prima delle 17.30 di venerdì 16 gennaio) sul decreto di riforma che abolisce il voto capitario nelle Popolari, ossia il principio di «una testa un voto» per cui tutti i soci sono uguali a prescindere dalle azioni possedute
Considerando l’effetto dirompente che la notizia ha avuto sul mercato a partire da lunedì 19 gennaio, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte, è evidente quanto siano stati abili gli «accumulatori» di pacchetti.
A fine settimana, nonostante le prese di profitto di ieri, il Banco Popolare, per esempio, registra un balzo del 21%, Ubi del 15%, la Popolare Emilia del 24% e Banca Popolare di Milano del 21%. E non sono titoli sottili che si muovono con un paio di ordini fuori prezzo.
Ma lo scatto più spettacolare è quello della Popolare Etruria e Lazio di cui è vicepresidente Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi: +65%.
È plausibile, dunque, che quelle posizioni «londinesi» siano state prontamente smontate con i titoli scaricati sul mercato approfittando da una parte dei rialzi e dall’altra dagli enormi volumi di scambio che garantiscono maggior copertura.
È la tempistica delle operazioni, comunque, l’aspetto più delicato se davvero si riuscirà mai ad accertarne la consistenza e individuare intermediari e beneficiari.
Si sa che l’utilizzo di schermi e lo schema delle sponde in paradisi fiscali spesso frena le verifiche, anche quelle della Consob.
La quale per adesso è impegnata negli accertamenti preliminari sull’operatività dei titoli delle Popolari, sia a monte sia a valle delle notizie sulla riforma.
Di più le fonti della Commissione non aggiungono. Ma il famoso «faro» della Consob è acceso. La luce potrebbe «tirare» fino a Londra e più che a valle potrebbe guardare a monte.
«Brillano le Popolari», si leggeva nei resoconti di Borsa del 15 gennaio; «salgono i bancari a cominciare dalle Popolari», scrivevano le agenzie il 16 mattina.
Poi poco prima delle 18, a Borsa chiusa, i flash: «In arrivo norme per riforma Popolari».
Il provvedimento entra il 20 gennaio nel decreto battezzato «Investment compact». Provvedimento che era originariamente contenuto nel disegno di legge Concorrenza, in fase di messa punto al ministero per lo Sviluppo economico, e dunque destinato a seguire il normale, e lungo, iter parlamentare.
Il premier Matteo Renzi ha però giocato a sorpresa d’anticipo prelevando un articolo del ddl, sull’abolizione del voto capitario, per trasferirlo nel decreto Investment compact, in cui ha preso la forma di un lungo articolato.
Prima delle 18 di venerdì chi e quanti ne erano a conoscenza? Come si è sviluppato l’iter tecnico che ha portato al varo di quel testo?
Il contenuto era altamente price sensitive con l’addio al voto capitario e l’obbligo di trasformazione in società per azioni.
Per quante mani è passato il testo? Raramente un provvedimento legislativo ha avuto un impatto così immediato e violento su una parte del listino.
E mentre la norma prendeva forma, a Londra qualcuno preparava le munizioni per la grande speculazione. Si vedrà se c’è un nesso.
Di sicuro chi si è mosso l’ha fatto con grande accortezza o anticipo, visto che non si sono visti strappi significativi di volumi (tranne Banca Popolare di Milano, parzialmente) e prezzi nella settimana precedente l’annuncio.
Poi da lunedì 19 il grande rialzo e scambi in alcuni casi decuplicati.
Mario Gerevini
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
PER RICHIAMARE TURISTI DALL’ESTERO FRANCESCHINI INAUGURA IL SITO, MA SI DIMENTICA CHE ALL’ESTERO NON PARLANO ITALIANO
L’Expo è una grande opportunità per valorizzare il patrimonio culturale del nostro Paese. 
Il ministro della Cultura Dario Franceschini si concentra sull’esposizione universale perchè l’obiettivo è “quello di rendere più competitiva possibile l’offerta culturale italiana”.
Come? Anche con la tecnologia. Perchè no, con un sito.
Che è stato inaugurato oggi e si chiama verybello.it: niente di più di un aggregatore che riunisce oltre 1300 eventi che si svolgeranno in Italia da Nord a Sud, dalle grandi città ai piccoli borghi, da maggio a ottobre 2015.
La piattaforma è stata presentata a Palazzo Chigi dal ministro per i Beni culturali, quello delle Politiche agricole Maurizio Martina, e dal commissario per Expo 2015, Giuseppe Sala.
Perchè l’esposizione di Milano “sarà l’occasione in cui ci ritroverà a vedere l’Italia con occhi stupiti e ammirati, gli stessi con cui la vedono i turisti“.
Visto che è stata creata per un evento internazionale, in quante lingue è consultabile la piattaforma? In una: italiano.
Niente inglese, spagnolo, cinese o arabo e l’annotazione “beta version” in fondo alla pagina (alla quale non si arriva mai, perchè il sito ricarica una lista interminabile di eventi) non giustifica la totale inutilità da parte di chi non conosce la nostra lingua.
Ad esempio da parte dei turisti di cui parla Franceschini.
Il design? Sciatto e anonimo, come se fosse un blog qualsiasi.
Andiamo oltre: l’interattività sbandierata alla presentazione a Palazzo Chigi rimane pura teoria. (A meno che per “interattivo” non intendessero “semplicemente online”). L’immagine di apertura — nel caso in cui si riesca ad accedere al sito, lentissimo — è un’Italia vista dal satellite che, però, taglia mezza Calabria e tutta la Sicilia.
Un Belpaese a tre quarti o quasi, attraversato dalla scritta in bianco “VeryBello!”.
Nomen omen? Per niente.
Per verificarlo, oltre che ad affidarsi al proprio gusto estetico, basta scorrere i messaggi su Twitter che hanno portato l’hashtag #verybello in cima ai trending topic nazionali.
“La frase d’un coatto di paese mi par, nell’approcciare una straniera sfoggiando maccheronico il suo inglese”, commenta l’utente Dante Alighieri.
Quella di oggi è un’iniziativa del ministero che ad alcuni fa rimpiangere il Francesco Rutelli ex ministro, lo stesso che in inglese ostentato chiedeva con voce sincopata agli stranieri: “Please, visit Italy“.
Erano i tempi di Italia.it, il sito sul quale si erano concentrate le aspettative per rilanciare il turismo Made in Italy e che, dopo una sequela di decolli mai avvenuti e per il quale erano stati stanziati 45 milioni di euro, aveva cessato di essere operativo nel 2008. P
oi è ripartito, nel saliscendi di vicissitudini governative da Berlusconi a Renzi.
Tornando al debutto online di oggi, molti utenti si limitano a scrivere “ma che davvero?”, o “non ci posso credere”.
Tra chi invece riesce ad andare oltre lo sconcerto, nessuno che apprezzi la scelta linguistica per il nuovo portale: “Verybello comunque fa rima con sfracello”, “Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Leopardi, Montale, Ungaretti sono vissuti inutilmente. #Verybello ha ucciso la lingua italiana”.
E ancora: “Ma un nome meno truzzo di #VeryBello il ministero dei Beni culturali non poteva trovarlo?”, “Non capisco perchè #verybello e non #CiccioBello o #CoccoBello?”, “più che il nome di un portale, pare il titolo di un film featuring Costantino Vitagliano e Daniele Interrante #verybello“.
Poi, c’è chi spera ancora: “Si, è un fake non c’è dubbio. Non può essere”.E invece no, è tutto vero.
Ma ci sono due utenti in netta controtendenza su Twitter: Martina e Franceschini. Entusiasti della piattaforma.
Per il ministro dell’agricoltura, addirittura, il sito sarà il “volano dell’economia”. Peccato, perchè per gli utenti di verybello in tutto questo non c’è niente.
Eleonora Bianchini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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