Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
VINCE LA LINEA DI DE LUCA E COZZOLINO
Chi la dura la vince. E stavolta, salvo un assai improbabile ribaltone last minute, l’hanno vinta i due vecchi leoni del Pd campano, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino: le primarie per il candidato governatore dunque si faranno il primo marzo, nonostante tutto. E in effetti le primarie campane, ancor prima dell’apertura dei seggi, sono già in cima al podio delle primarie più folli nella breve storia del Pd.
Dovevano tenersi a metà dicembre, sono state rinviate cinque volte, e anche dopo averle fissate al primo marzo, circa una settimana fa, gran parte del partito locale (con robuste sponde a Roma, visto che Renzi non gradisce nessuna delle due candidature di De Luca e Cozzolino) ha tentato in ogni modo di farle saltare.
Riunioni su riunioni, pressing, telefonate, sono servite a poco o nulla.
I tentativi di Renzi di convincere il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone sono caduti nel vuoto, e anche l’ipotesi di schierare il ministro della Giustizia Andrea Orlando sono naufragati.
Per non parlare dei numerosi tentativi per indurre il sindaco di Salerno al ritiro, dopo la condanna per abuso d’ufficio e le clausole della legge Severino, che ne farebbero, in caso di vittoria alle regionali, un governatore più che dimezzato.
Ci ha provato Lorenzo Guerini, Luca Lotti ha ricevuto il sindaco a Palazzo Chigi.
Lo stesso Renzi ci ha messo del suo. Niente da fare.
Impermeabile a ogni pressing in queste settimane De Luca ha sparso veleno a piene mani sui vertici del Pd, definendo la telenovela primarie un “circo equestre”, dicendosi “disgustato” dal partito e spiegando che “per farmi ritirare mi devono sparare in testa”. Nel suo comitato, poi, le date delle primarie cancellate sono state giocate al lotto.
Più sobrio il rivale Andrea Cozzolino, che di passi indietro non ne ha fatti, ma si è mantenuto su binari più ordinari, senza assalti alla diligenza.
E comunque ha sempre continuato, come del resto De Luca, a fare campagna elettorale in tutta la regione con “il passo del montanaro”.
Il terzo candidato sarà Gennaro Migliore, ex capogruppo di Sel poi folgorato sulla via del renzismo.
Era proprio lui, qualche settimana fa, l’uomo proposto dai renziani in Campania come candidato unitario per superare le primarie.
Ma la proposta è naufragata, e così Migliore si è dovuto mettere in corsa per le primarie con lo slogan “Vai mò”.
Ma la sua campagna è iniziata pochi giorni fa, e sconta un ritardo pesantissimo, tanto che i bookmakers lo danno dietro Cozzolino e De Luca con ampi margini di distacco.
Alle primarie, che sono di coalizione e non del solo Pd, corrono anche il socialista Marco di Lello e Nello Di Nardo dell’Idv.
Nel fine settimana, e fino a domenica sera, il gruppone che voleva far saltare le primarie (che comprende renziani, parte dei bersaniani, uomini di Franceschini e Frioroni, ex lettiani) le ha provate praticamente tutte.
Prima una riunione fiume giovedì pomeriggio alla Camera sotto la regia di Guglielmo Epifani (capolista Pd in Campania alle ultime politiche), poi un altro vertice domenica sera in un hotel di Napoli.
E ancora questa mattina, un altro vertice fiume, mentre ormai il tempo era evidentemente scaduto.
Il gruppone, che sulla carta conta su più del 60% delegati (quota necessaria per indire una assemblea Pd e far saltare le primarie), alla fine non ha trovato la quadra tra chi voleva come candidato “unitario” il presidente del Cnr ed ex ministro Luigi Nicolais e che insisteva per Migliore.
Da Roma, poi, nel fine settimana è venuta meno la necessaria copertura politica per una operazione molto ardita, come sarebbe quella di cancellare le primarie a cinque giorni dalla convocazione dei gazebo e con Napoli già piena di enormi manifesti che invitano i cittadini alle urne.
Una situazione da teatro dell’assurdo, e infatti alla fine Renzi e Guerini hanno deciso di starne fuori.
“Sulle primarie in Campania deciderà il partito campano”, ha messo a verbale la vicesegretaria Debora Serracchiani.
“Servono regole chiare, che non debbano essere interpretate. Per il resto, a fronte di alcune criticità non è il caso di buttare l’acqua sporca con il bambino visto che abbiamo fatto un grande passo avanti con le primarie”.
E del resto sia De Luca che Cozzolino avevano fatto presente al premier segretario cosa sarebbe successo se la vecchia Ditta, pochi giorni prima delle primarie vinte dal rottamatore, avesse fatto saltare tutto con qualche escamotage regolamentare.
“Hanno capito che qui in Campania si rischiava di creare un precedente molto pericoloso”, spiega Cozzolino ad Huffpost. “Le primarie non sono superabili”.
In caso di cancellazione, sia lui che De Luca sarebbero pronti ad andare per le vie legali, statuto alla mano.
Per non parlare dello spettacolo di una assemblea regionale per lanciare un candidato unitario che rischierebbe di trasformarsi in una corrida, a beneficio delle telecamere.
E del resto, trattandosi di primarie di coalizione, difficilmente può bastare per annullarle un pronunciamento del solo Pd.
E così, ormai anche i pasdaran del no alle primarie, preoccupati dal rischio di replicare quanto successo a gennaio in Liguria, si sono rassegnati: “La speranza è l’ultima a morire. Io ho sempre auspicato una sintesi e il superamento delle primarie con l’accordo su un nome condiviso. Ma oggi è lunedì e mi sembra che la speranza sia quasi equivalente al periodo ipotetico del terzo tipo”, dice Umberto Del Basso De Caro, deputato Pd campano e sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti.
Così anche il segretario regionale Assunta Tartaglione: “Al momento non è pervenuta nè alla segreteria regionale nè all’ufficio di presidenza del partito alcuna richiesta di convocazione dell’Assemblea del Pd. La segreteria regionale sta lavorando per garantire lo svolgimento delle primarie, che restano fissate al primo marzo, dopo l’ultimo rinvio che è avvenuto per motivi tecnici”.
Con la conferma delle primarie, sembra sfumare l’ipotesi di un allargamento della coalizione a spezzoni di Ncd, che si erano detti pronti a convergere sulla candidatura di Nicolais.
Quanto ai pronostici, nello staff di Cozzolino si respira un certo ottimismo, visto che la vicenda della condanna ha comunque appannato l’immagine di De Luca.
Ma il sindaco di Salerno, secondo un sondaggio Digis commissionato dai socialisti, sarebbe in testa con il 47%.
Numeri giocoforza ballerini, visto che, a sei giorni, non c’è ancora la certezza ufficiale che le primarie si terranno.
E gli elettori Pd, più ancora che in Emilia, potrebbero reagire allo spettacolo di questi mesi disertando le urne.
Sullo sfondo, il fantasma delle primarie napoletane del 2011, vinte da Cozzolino e poi annullate per varie irregolarità dai vertici nazionali Pd.
In quel caso, nel mirino c’era anche il grande numero di immigrati ai seggi.
Un rischio che stavolta dovrebbe essere escluso, visto che per 16enni e immigrati si è scelta la pre-registrazione. E, in tutto, si sono iscritte non più di 50 persone.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
I DIPARTIMENTI DI GEOLOGIA PASSANO DA 38 A 27 E ORA A 8
Qual è il Paese europeo più colpito dai terremoti? L’Italia. 
Quello più colpito dalle frane? L’Italia.
Quello più colpito dall’emorragia di geologi? L’Italia.
È tutto in questo paradosso, insensato, uno dei grandi problemi che ci affliggon
Via via che il territorio si rivelava più a rischio, le opportunità per i giovani di studiare geologia sono diventate sempre meno, meno, meno..
Il colmo è stato toccato all’università di Chieti. Dove, a causa prima delle spaccature interne e poi della necessità di trovare una scappatoia alla rigidità della legge voluta nel 2009/2010 da Maria Stella Gelmini, decisa (con buone ragioni, anche) ad arginare l’eccesso di dipartimenti spesso mignon con la soppressione o l’accorpamento di quelli più piccoli, è nato il «Disputer».
Dipartimento di Scienze Psicologiche Umanistiche e del Territorio.
Che tiene insieme gli psicologi che indagano nel sottosuolo delle menti umane e geologi che studiano il suolo e il sottosuolo della terra.
Un capolavoro.
Come se, per sopravvivere a una spending review, si fondessero insieme una carpenteria navale e un quartetto di violini
Eppure quali siano le estreme fragilità geologiche del nostro territorio è sotto gli occhi di tutti.
Lo dice il sito ufficiale della Protezione civile: «L’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto, determinando un impatto sociale ed economico rilevante. La sismicità della Penisola italiana è legata alla sua particolare posizione geografica, perchè è situata nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica ed è sottoposta a forti spinte compressive… ».
Lo ripete l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ricordando che sul territorio Italiano (in Francia c’è solo il Puy-de-Dà’me che dorme da sei millenni, in Grecia solo Santorini) «esistono almeno dieci vulcani attivi» e cioè i Colli Albani, i Campi Flegrei, il Vesuvio, Ischia, lo Stromboli, Lipari, Vulcano, l’Etna, Pantelleria e l’Isola Ferdinandea. Più, se vogliamo, il Marsili che, adagiato nel mare tra il golfo di Napoli e le Eolie, è il più esteso del continente. La storia conferma: come scrivono nel volume «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni» Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «dal 1861 ad oggi nel nostro paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori» per un totale di almeno 200 mila morti e 1.560 comuni, tra cui 10 capoluoghi, bastonati più o meno duramente. Uno su cinque.
Non bastasse, la relazione al Parlamento della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico» ricorda che oltre ai terremoti c’è il resto: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 comuni italiani». Quasi il 69%.
Con un progressivo aggravarsi della situazione, denunciata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy»: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. E in parallelo crescevano morti, dispersi, sfollati…
A farla corta: avremmo bisogno di un esercito di geologi schierato sulle trincee della ricerca, dei piani urbanistici, delle mappe delle aree a rischio da aggiornare diluvio dopo diluvio.
E invece la geologia è sempre più ai margini dell’università italiana.
Una tabella del Cun (Consiglio universitario nazionale) dice tutto: dal 2000 al 2014 i professori ordinari di Scienze della Terra hanno avuto un crollo del 44,4%.
E i dipartimenti «puri» di geologia, senza gli accorpamenti con altre materie magari a capriccio, sono scesi in una mappa drammatica di confronto che pubblichiamo nel grafico sotto, da 27 (in origine erano 38) a 8. Con la prospettiva di ridursi fra tre anni, visti i numeri, a cinque: Milano, Padova, Firenze, Roma, Bari.
Un delitto.
Tanto più che, dopo essere precipitati tra il 2003 e il 2008 da 1490 a 1064, gli studenti a che hanno deciso di immatricolarsi nelle materie geologiche sono poi impetuosamente aumentati fino a sfondare nel 2012 il tetto di 1541.
Con un aumento del 46%. Prova provata che negli ultimi anni cresce una nuova consapevolezza di quanto il nostro Paese abbia bisogno di quei giovani da mandare al fronte contro il dissesto del territorio.
Sono anni che il Parlamento è stato chiamato a correggere le storture create dalla rigidità esagerata, in settori come questo, della riforma Gelmini.
Ed è dall’estate del 2013 che giace in Parlamento una proposta di legge, prima firmataria la pd Raffaella Mariani, per riscattare «la sostanziale scomparsa dei dipartimenti di scienze della terra».
La denuncia di «un grave degrado della qualità della vita e della tutela della pubblica incolumità » e di inaccettabili anomalie («a volte strutture pubbliche, quali scuole, ospedali e stazioni, vengono costruite in aree a rischio») è rimasta però, per ora, lettera morta.
«Oggi i 1.020 docenti e ricercatori dell’area delle scienze della terra risultano dispersi fra 50 atenei in 94 dipartimenti diversi con una media di meno di 11 unità per dipartimento», denunciava un anno e mezzo fa la Mariani, «Il caso più eclatante è quello dell’Emilia-Romagna, regione con grandissimi problemi geologici e con quattro università . In nessuna di queste è sopravvissuto un dipartimento di scienze della terra.
A Bologna, nell’università più antica del mondo dove nel 1603 Ulisse Aldrovandi coniò il termine “geologia”, oggi non esiste più un dipartimento… »
Sulle proposte tecniche lanciate per restituire nuova vita alla materia così essenziale per la salute del territorio e degli italiani non vi vogliamo annoiare.
Si va da una maggiore elasticità sul numero minimo di iscritti alla richiesta di una piccola quota del Fondo per la prevenzione del rischio sismico da destinare «al finanziamento di progetti di ricerca finalizzati alla previsione e prevenzione dei rischi geologici».
Possono bastare? Boh… Ma certo occorre una svolta.
O i lamenti che si leveranno davanti alle macerie e ai lutti del prossimo terremoto o della prossima frana suoneranno ancora più ipocriti…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
PIENA LIBERTA’ DI ASSEGNARE I DIPENDENTI A MANSIONI DI INQUADRAMENTO INFERIORE E ANCHE DI RIDURRE GLI STIPENDI
L’imprenditore avrà piena libertà di demansionare i propri dipendenti e ridurre gli stipendi con accordi individuali.
E grazie a un decreto del 2011, il lavoratore, in deroga alla legge, potrà perdere anche più di un livello di inquadramento.
Questi sono gli effetti del terzo decreto attuativo del Jobs act esaminato in via preliminare dal Consiglio dei ministri nell’analisi del professor Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna, sede di Ravenna.
Innanzitutto, premette il giuslavorista, la norma è di portata generale, quindi si applicherà a tutti i lavoratori subordinati, con vecchi e nuovi contratti: si parla di milioni di persone.
E anche in questo caso, come nel decreto sul contratto a tutele crescenti, si pone il problema dell’eventuale estensione delle norme al settore pubblico.
“È una questione che andrà chiarita, ora è un punto di domanda — spiega il docente -. È vero che esiste una disciplina speciale per gli statali, ma per i rapporti contrattualizzati ciò che avviene nel privato può avere un impatto anche nel pubblico”.
Andando a esaminare il testo, il cuore della norma recita così: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore“.
“La modifica degli assetti organizzativi vuol dire tutto e niente — sottolinea il professore — È un presupposto che è tutto nelle mani dell’azienda. Il disegno complessivo del Jobs act è questo, al centro c’è il potere unilaterale dell’imprenditore“
E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta invece il passaggio a un livello più alto.
“Prima l’assegnazione a una mansione superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività — spiega il giuslavorista -. Con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi”
Un altro passaggio importante del testo prevede che “possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione”.
Questo significa — spiega Lassandari — che il lavoratore può essere convinto o indotto ad accettare livelli inferiori di tutela, sul piano delle mansioni ma anche della retribuzione”.
È vero, precisa il professore, che un’operazione del genere deve avere il consenso del dipendente e che si svolge in sedi dove il lavoratore non è lasciato da solo di fronte all’imprenditore.
“Ma con il Jobs act — aggiunge — l’azienda può mettere il dipendente di fronte a un bivio, soprattutto nel caso dei neo assunti: o il lavoratore accetta le sue condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità ”.
La questione del demansionamento si inserisce, secondo Lassandari, nel contesto di una pratica già attuale.
Il riferimento è al decreto 138 del 2011, varato dal governo Berlusconi, secondo il quale i contratti aziendali e territoriali “operano anche in deroga alle disposizioni di legge” in materia di mansioni, orari di lavoro, assunzioni e licenziamenti, “ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. In sede aziendale si può fare un diritto del lavoro à la carte, costruito a proprio piacimento — ragiona -. Il Jobs act può essere derogato in peggio. Se la legge parla di un solo livello di demansionamento possibile, il contratto aziendale può fissarli a due, per esempio. Un combinato catastrofico”.
Il decreto, secondo il professore, prevede inoltre un “duplice declassamento“, che potrà avvenire non solo in senso verticale, ma anche orizzontale.
Il professore si riferisce a un semplice cambio di espressioni nell’articolo del codice civile modificato dal Jobs act.
Il testo prevede che il lavoratore debba essere adibito a “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, mentre prima si parlava di “mansioni equivalenti“.
Cosa cambia tra mansioni “equivalenti” e “dello stesso livello”? In apparenza nulla, ma in sostanza la differenza c’è.
“Ora sarà possibile declassare un lavoratore mantenendolo all’interno dello stesso livello”, spiega il professore che, per chiarire la questione, ricorre a un esempio. Si pensi a un’impresa che produce biciclette e motociclette e a un operaio che per tanti anni si è occupato di bici. A un certo punto, l’azienda decide di dismettere il comparto moto e di spostare il dipendente proprio in quel settore, destinato al declino, pur tenendolo all’interno dello stesso livello. “Prima l’operaio aveva un futuro, la sua carriera era assicurata — spiega il docente — Con il passaggio alle moto, è collocato su un binario morto. Prima del Jobs act, questa operazione era un declassamento, ora non lo sarà più”.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL SISTEMA-MOGLI ACCUSA IL SINDACO DI VERONA DI BOICOTTARE LA CANDIDATURA DI ZAIA… LA REPLICA: ” A VOLTE LE DISTANZE SI COLMANO, A VOLTE NO”
Dopo l’autocandidatura a leader del centrodestra lanciata da Matteo Salvini, è scontro aperto tra il
segretario della Lega e il sindaco di Verona Flavio Tosi, portavoce dell’anima più “moderata” del Carroccio è perciò bollato come “ribelle”.
Oggetto del braccio di ferro sono le prossime elezioni regionali in Veneto: il segretario della Lega sostiene la ricandidatura dell’attuale governatore Luca Zaia, mentre il sindaco della città scaligera si propone come candidato capace di guardare anche al centro.
La polemica va avanti a colpi di dichiarazioni.
Salvini accusa apertamente Tosi di voler boicottare Zaia.
“Ipotizzare di candidarsi contro di lui o di metterlo in difficoltà non mi sembra utile in questo momento”, ha ribadito l’eurodeputato a Radio Padania.
“Se ci sono litigi da fare – ha aggiunto Salvini- li si faccia nelle sedi opportune e poi si trovi un accordo e si vada a vincere. Io spero che Zaia e Tosi trovino l’intesa e poi andiamo a ragionare di temi concreti. Non è il momento di litigare”.
Non solo. L’ira del segretario si appunta anche sulla manifestazione del Carroccio sabato a Roma, che vede ancora in bilico la presenza di Tosi.
“Metto i puntini sulle i per i militanti – dice – non è possibile che Tosi dichiari in un’intervista che non ha ancora deciso. Mi girano le palle, soprattutto a nome dei militanti che pagano la benzina o i biglietti di pullman e treni di tasca loro. Perciò la presa in giro non va. Non è bello da un dirigente pagato. Vieni. Punto. Poi discutiamo della regione”.
“Con Salvini ci sono sicuramente delle distanze. Poi in politica certe volte le distanze si riescono a colmare, certe volte no”, ha risposto Tosi.
“Tutti vogliono vincere in Veneto – ha continuato – però ci vogliono linearità , coerenza e rispetto per le persone”.
“Nessuno favorisce nessuno” ha rilevato poi sulle ‘accuse’ del segretario leghista che una sua candidatura alla presidenza del Veneto favorirebbe la candidata del centro-sinistra, Alessandra Moretti.
Quanto alla manifestazione romana, Tosi si è difeso: “Ho già detto che la mia presenza dipenderà dai miei impegni di sindaco”.
E in risposta alle accuse del segretario: “Non credo che si riferisse a me, perchè io non sono pagato dalla Lega. Il mio unico stipendio è quello di sindaco”.
Le differenze tra i due sono evidenti soprattutto sulla questione delle alleanze per le prossime elezioni regionali.
Mentre Salvini oppone un “no” netto a Ncd, perchè sostiene il governo del “nemico numero uno” Matteo Renzi, ed è disposto a una collaborazione con Forza Italia purchè, però, “rimanga all’opposizione”, Tosi è più possibilista.
Il primo cittadino di Verona apre convintamente sia a Forza Italia che ad Angelino Alfano, convinto che occorra guardare anche al centro, oltre che a destra, per poter creare un’alternativa capace di sfidare il premier.
Una posizione condivisa anche da altri leader del partito, come lo stesso Zaia e Roberto Maroni, governatore della Lombardia.
Monica Rubino
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL “TANGO ASSASSINO” DEL DUO POLANCO-ESPINOSA FA TREMARE SILVIO
Per ora dalla procura escono “indizi”, spifferi sul “pentimento” delle olgettine. A breve si attende la “scossa”.
Quando si capirà il contenuto delle “confessioni”. Questione di giorni, non di settimane.
Silvio Berlusconi sente che il cerchio si stringe. Ecco perchè l’ansia pervade tutto il suo mondo.
Per la prima volta, pure una penna amica come Giuliano Ferrara, evoca sul Foglio l’eventualità più drammatica: “La gogna della galera ultima ipotesi di sfascio attorno a Silvio Berlusconi”.
Segno che è questo lo spettro che si aggira ad Arcore: il crollo giudiziario, addirittura l’arresto.
Sugli house organ, meno intellettuali del Foglio, verso i magistrati tornano toni ruvidi: “Toghe irresponsabili” titola il giornale sulla vicenda di Vittorio Emanuele.
Paura della “galera”, strali contro i giudici.
Il tribunale di Milano invaso dalle olgettine chiamate dalla procura per il Ruby bis. Pare di essere tornati indietro di anni. Indiscrezioni fuori controllo. Sospetti.
E soprattutto è la Polanco che fa davvero paura. Perchè nessuno, neanche tra i legali di Berlusconi, sa dire con certezza cosa sia successo tra il teste chiave e la procura.
La sensazione è che una deposizione già ci sia. E che la procura attorno a questo dato cruciale abbia alzato un meccanismo di sicurezza proprio per non far uscire notizie in questa fase.
Perchè è da tempo che la ragazza si è sottratta al controllo militare esercitato da Arcore sulle olgettine
Di certo c’è che a settembre 2014 la ragazza disse al suo avvocato Andrea Buondonno che voleva collaborare. Raccontare “la verità sulle cene ad Arcore”, sulle “minorenni che andavano in villa”, sul “sistema di pagamento”.
Anche sulla droga? “Ma quale droga” dice l’avvocato, “quella non c’entra”.
Sono dunque mesi che la Polanco pensa al “pentimento”, allo scambio tra salvezza e “confessione” su Berlusconi che attesti il nesso tra denaro e falsa testimonianza delle ragazze.
L’altra sensazione è che la Polanco non sarebbe l’unica ad aver iniziato il negoziato con la procura. Ad Arcore, in particolare, si seguono i movimenti di Aris Espinoza e delle sorelle De Vivo.
Ecco perchè il cerchio si stringe.
Sono questi i giorni decisivi per quello che Berlusconi vive come “l’assalto finale”. Lo dice anche Ferrara, senza tante perifrasi: “I tempi sono importanti. La Cassazione deve pronunciarsi a giorni sull’appello assolutorio (del Ruby 1, ndr)… Non si può mollare l’osso proprio ora. Serve una nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice, e serve assolutamente il “pentimento”, cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso”.
Ovvero a rispedire in Appello il Ruby 1. Dove a quel punto i tempi sarebbero molto rapidi, perchè si rifà solo l’Appello senza la fase dell’imbastimento delle prove. Tempi rapidi che incrociano i tempi, altrettanto rapidi del Ruby ter, dove proprio i “pentimenti” stanno consentendo alla procura di accelerare.
E lì non rischia il rinvio a giudizio per corruzione in atti giudiziari solo Berlusconi, ma anche il cerchio magico. Al momento della trasmissione degli atti, nel registro degli indagati figuravano Longo, Ghedini e Mariarosaria Rossi, braccio destro dell’ex premier.
È la prima volta che è un intero “sistema” a tremare, non solo Berlusconi. Ed è per questo che, dopo aver fatto uscire un gruppo di parlamentari, è possibile che nei prossimi giorni si assisterà a un escalation.
Affidando ai capigruppo di Camera e Senato la richiesta di intervento sulla procura di Milano al ministro Orlando. Per provare a “intimidire” i giudici e fermare la valanga di pentimenti.
Quello di Aris Espinosa sembra già scritto, visto il suo legame con la Polanco.
Le due stanno anche incidendo un disco assieme, dal titolo Tango assassino.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
“HO RINUNCIATO AL MANDATO PERCHE’ NON CONDIVIDO IL NUOVO CORSO”
È stato la sua “ombra” per quattro lunghi anni. 
L’ha seguita, assistita e consigliata dal giorno in cui il Rubygate è deflagrato con l’effetto di una bomba aiutandola ad ammortizzare i colpi mentre il terreno sotto ai suoi piedi cominciava a tremare.
Da quattro mesi, però, Marysthell Polanco, la “pentita” di Arcore che poche settimane fa avrebbe scritto di suo pugno una lettera al procuratore aggiunto Ilda Boccassini (che si è occupata del caso Ruby dalle indagini preliminari fino alla sentenza di primo grado), ha perso il suo avocato di fiducia.
Un giallo nel giallo, questo.
Perchè, chi avrebbe dovuto difenderla nel momento più delicato dell’inchiesta Rubyter – che la vede indagata per falsa testimonianza insieme ad altre 20 ragazze – ha deciso di abbandonarla proprio a un passo dalla fine delle indagini preliminari?
A rispondere, interpellato da HuffPost, è lo stesso (ormai ex) legale della bella dominicana, Andrea Buondonno, appartenente al Foro di La Spezia.
Che rivela: “Già da ottobre Marysthell mi aveva parlato delle sue intenzioni”.
Lei ha difeso la Polanco fin dall’inizio del Rubygate. Proprio ora che le indagini preliminari stanno finendo lei rinuncia a difenderla. Perchè?
Non dovrebbe chiedermi perchè, ma quando.
Quando è successo?
È successo quattro mesi fa. A ottobre. Ho rimesso il mandato il 20 ottobre, per la precisione.
Cos’è successo, quel 20 ottobre?
Marysthell già da un po’ di tempo aveva cominciato a parlarmi di questa sua intenzione di scrivere una lettera, andando così completamente contro la linea difensiva che avevamo scelto e portato avanti fino a quel momento. Una scelta dal mio punto di vista inspiegabile, visto che non aveva nulla da temere.
Quindi è da quattro mesi che la Polanco prepara il suo “pentimento”?
Io, materialmente, all’epoca, quella lettera non l’avevo letta. Però sì, era da ottobre che parlava di queste intenzioni. Ma non parlerei di pentimento. Io a questo punto non posso sapere se Marysthell sa qualcosa di diverso rispetto a quello detto in aula.
Dalle intercettazioni telefoniche emerge che la sua ex assistita aveva contatti frequentissimi con Berlusconi e che aveva ricevuto numerosi regali e buste di denaro. Inoltre nel suo vecchio appartamento di via Olgettina così come in quello di altre due ragazze la polizia trovò – ancora prima che la notizia di Karima El Mahroug diventasse di dominio pubblico – una copia del famoso verbale di Ruby redatto alla presenza di Lele Mora, l’avvocato Giuliante e “un emissario di lui” mai identificato…
Ma guardi, Marysthell poteva benissimo difendersi da tutte le accuse di falsa testimonianza, da quello che ho letto negli atti dell’inchiesta. Le sue deposizioni sono sempre state coerenti. Non è questo il punto.
E qual è il punto?
Che da un momento all’altro Marysthell ha deciso di invertire la rotta e io non potevo continuare a seguirla in questa sua nuova mossa. “Ti porterà solo del male quel gesto”, le ho detto. Ovviamente parlo da un punto di strategia difensiva. Ma lei non mi ha dato retta. Da un punto di vista difensivo è stata una scelta che non potevo appoggiare, da un punto di vista personale, visto che non ne capivo le vere ragioni, neppure.
Ma è stata una scelta autonoma, quella della Polanco, o lei crede che sia stato qualcuno a convincerla a scrivere quella lettera ?
Una scelta sicuramente autonoma. Ha fatto di testa sua. Io voglio bene a Marysthell ma con me non è stata trasparente e questa cosa davvero non l’ho capita.
Potrebbe averlo fatto perchè ha paura di un eventuale rinvio a giudizio e di una eventuale condanna, visto che ormai quelle feste sono un lontano ricordo ed ha appena avuto un bambino. O più semplicemente potrebbe aver deciso di collaborare perchè, così facendo, è stata l’unica per la quale non c’è stato mandato di perquisizione…
Non so se c’è una motivazione legata alla sua nuova vita. E comunque, lei è sicura che la perquisizione non c’è stata perchè Marysthell ha collaborato o piuttosto perchè ha la residenza in Svizzera e occorrerebbe una rogatoria?
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
“RESTA SOLO IL SUO TESORO PERCHE’ NEL MSI NON SI RUBAVA”… “LA MORTE DI TUTTO E’ STATA A FIUGGI, SI SONO VENDUTI IL PARTITO A FORZA ITALIA SENZA ASCOLTARE LA BASE”
“Ma di quale destra parliamo? Oggi per ritrovarla mi dovrebbe aiutare Federica Sciarelli del programma Chi l’ha visto? Basta guardarsi intorno, i compagni di strada di mio marito si sono rivelati poca cosa o si sono eclissati, e non c’è più nessuno che ne abbia raccolto l’eredità politica”.
Lo afferma al Giornale Assunta Almirante, vedova dell’ex leader dell’Msi, Giorgio.
“Nell’ Msi – ricorda Almirante – nessuno rubava, ecco perchè i nostri eredi politici hanno un patrimonio di 100 milioni”.
Sarà che la destra è finita, come dice donna Assunta, ma intanto tra gli ex An sono partite le grandi manovre per provare a riorganizzarsi.
Lo riporta un articolo su Repubblica firmato da Carmelo Lopapa.
I soldi ci sono, i 230 milioni chiusi a doppia mandata nella cassaforte della fondazione An e salvati per ora da litigi giudiziari e veti incrociati tra i “colonnelli”. Case e uffici per altrettante sedi di partito, pure, sparse in tutta Italia. Un lusso, in questi tempi di magra e di finanziamenti pubblici azzerati. “Ora si tratta di ricostruirla, quell’area, perchè An c’è ma sarebbe grave riesumare un’operazione nostalgia” ammette il pur volenteroso Ignazio La Russa.
La destra italiana, da anni ormai in piena diaspora, è tutta un cantiere, l’attività ferve sotto traccia, sveglia puntata all’indomani delle europee di maggio.
“Perchè qui il rischio è di essere risucchiati tutti da Salvini e dalla Lega e noi questo non lo possiamo accettare”, spiega Isabella Rauti, ispiratrice assieme al marito Gianni Alemanno della manifestazione che due settimane fa, al cinema Adriano di Roma, ha posto le basi per la “cosa” post An
Assunta Almirante invece, sempre sul Giornale, ripercorre la svolta di Fiuggi, spiegando che “è stato lo sbaglio peggiore, la morte di tutto”, “non fu un congresso vero, la nostra gente quel giorno non c’era e la decisione di sciogliere l’Msi e di trasformarlo in un partito di governo fu calata dall’alto. Vidi scene indegne,esponenti del partito che votavano con due mani”.
“I responsabili dell’operazione – rievoca la vedova dell’ex leader Msi – furono ovviamente Fini, ma anche Tatarella, che di fatto vendettero il partito a Forza Italia. L’errore, poi pagato a carissimo prezzo, fu di chiudere casa propria per andare a fare gli ospiti sgraditi in casa d’altri”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
SOLO A MILANO IN VENDITA IMMOBILI PER UNA SUPERFICIE UGUALE A CENTO CAMPI DI CALCIO
Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per una superficie fondiaria equivalente a
cento campi di calcio.
E tuttavia, a fronte di tanto patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803 fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno uno fra i più prestigiosi del centro storico.
Da 156 anni questo gioiello è il “Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la schioda.
A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo.
Città che vai, paradossi che trovi.
Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita e lo si incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati (scarica), il paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anzichè buttare i soldi in un affitto.
Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.
Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga.
Se un sindaco prova a sfrattare il prefetto fa subito notizia.
Succede a Grosseto, dove il primo cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli Rosselli.
Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto.
L’epilogo è tutto da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2 di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino, Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.
Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le città .
A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora alquanto modesti.
Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobili ritenuti non necessari dai quali prevede di incassare 220 milioni di euro quest’anno e 100 nel 2016.
L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese.
Da allora sono partite girandole di tavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà .
Ma quel che è certo è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città , ci si rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri e pubblici.
Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato premier ha premuto l’acceleratore.
Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa.
Ancora non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del Prefetto.
Eh sì, perchè la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876 l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini.
Per le due locazioni lo Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15 caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali perchè dichiarate di pregio storico e architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche certe dislocate nel cuore della città . Ma neppure questo basta a far scattare la scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.
Milano, si diceva.
A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica “Mameli” nell’area nord del capoluogo.
Insieme fanno una superficie fondiaria di 720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio.
Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura? Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato.
E così mentre la Difesa dismette, il Viminale spende.
Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato.
“Due mesi fa abbiamo dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede principale”, fanno sapere dalla Prefettura.
A conferma del fatto che di spazio, forse, ce n’era in abbondanza.
Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per quanti anni l’assegno è stato doppio.
Più paradossale ancora la situazione nella Capitale.
Il 7 agosto 2014 è stato sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente.
Ma sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni di euro l’anno.
A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal 1873. Una partita di giro tra amministrazioni.
Ma c’è anche l’Ufficio territoriale del governo di via Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e mezzo di euro.
Perchè non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia?
L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno.
Ma chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali? A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a 1,6 milioni.
Passiamo a Torino.
Nel paniere delle vendite sono finite le caserme Cesare di Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica.
A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi militari.
Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano oltre 400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via del Carmine.
Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il caso Napoli.
Nel capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno, lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica funzionale.
Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato.
Il Ministero dell’Interno, a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla.
Nel 2014 ha pagato 1,3 milioni di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissima Piazza del Plebiscito che è una delle più grandi e belle d’Italia.
Difficile, del resto, trovare una location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
L’EMENDAMENTO GATOR SUGLI APPARENTAMENTI AL BALLOTTAGGIO POTREBBE TORNARE DI ATTUALITA’
Chiudere la pratica della legge elettorale è il prossimo obiettivo di Matteo Renzi. «L’Italicum non cambierà di una virgola e alla Camera farà il suo ultimo passaggio. Per carità , davvero tutto è migliorabile. Ma abbiamo già raggiunto un’intesa e poi non voglio ricominciare sempre daccapo».
Sarà questo il terreno di scontro con la minoranza del Pd nelle prossime settimane e il banco di prova per vedere se la rottura con Berlusconi è momentanea o definitiva.
A Montecitorio la maggioranza ha numeri molto ampi anche senza Forza Italia, ma nello stesso ramo del Parlamento si annidano altre trappole per il premier.
Queste trappole hanno nomi e cognomi.
Sono quelli dei dissidenti del Pd, del capogruppo di Fi Renato Brunetta e della presidente della Camera Laura Boldrini.
A Palazzo Chigi sono convinti che la terza carica dello Stato, dopo le dure critiche al Jobs Act, tornerà a essere imparziale.
«Ha usato il ruolo del Parlamento per contestare Matteo. Ci può stare», dicono i renziani. Ma ciò non toglie che l’inedita uscita politica della Boldrini abbia allarmato i vertici del Pd e dell’esecutivo.
Si capisce che la presidente è decisa ad assumere un ruolo più visibile nel confronto quotidiano e c’è un pezzo della sinistra che pensa a lei come possibile contraltare a Renzi. Molto più che a Landini o a Cofferati.
Se la legislatura andrà avanti fino al 2018, Boldrini rimarrà nei ranghi del suo compito istituzionale.
Ma se dovessero esserci prima degli strappi, «se si apre una partita a sinistra», allora potrebbe decidere di esporsi di più.
E l’affondo sui decreti delegati della riforma del lavoro e l’accusa dell’uomo solo al comando potrebbe rivelarsi solo una prova generale di un maggioreimpegno.
I dissidenti del Pd si preparano all’arrivo del testo dell’Italicum a Montecitorio cercando un terreno comune con gli azzurri.
Un terreno impossibile da trovare sulle preferenze.
La scelta dei capolista bloccati resta il cuore del patto del Nazareno, una via obbligata per Berlusconi che punta a confermare i fedelissimi e può usare le liste anche per la battaglia interna, soprattutto contro Raffaele Fitto.
È su questo pilastro della legge che il premier confida di ritrovare un’asse con Arcore.
Ma c’è un altro punto su cui invece la minoranza dem e Forza Italia possono trovare un’intesa.
Già nell’emendamento Gotor, bocciato al Senato, era previsto l’apparentamento al ballottaggio. I due partiti vincenti al primo turno potevano fare alleanze al secondo con altre forze, sul modello della norma che vale per eleggere il sindaco e i consigli comunali. Un modo per resuscitare le coalizioni e attenuare gli effetti del premio alla lista, che sta a cuore a Renzi per affermare un sistema davvero bipolare.
A Palazzo Madama la maggioranza delle riforme si salvò in extremis sull’emendamento Gotor. Quasi trenta senatori Pd uscirono dall’aula e furono determinanti le mosse di Denis Verdini e Paolo Romani per bocciare la proposta di modifica.
Alla Camera il “soccorso azzurro” è molto più a rischio.
Per la presenza di Brunetta, per un buon numero di deputati fittiani e perchè il patto si è rotto.
La maggioranza, con Pd, centristi e Ncd ha lo stesso i numeri per vincere il match, proprio com’è successo per la riforma costituzionale.
Ma i dissidenti dem sono oggi più agguerriti. I licenziamenti collettivi varati nel Jobs Act hanno frantumato un tacito accordo che si era realizzato nel Partito democratico al momento in cui fu votata la legge delega.
Circa quaranta deputati firmarono un documento contro il provvedimento ma alla fine, partendo da Pier Luigi Bersani, votarono sì. Lo fecero anche Guglielmo Epidani e Cesare Damiano, ex Cgil, attirandosi la furia degli ex com- pagni di sindacato.
Ma avevano avuto garanzie, raccontano, che nei decreti sarebbero sparite le norme più controverse e sarebbe stato rispettato l’ordine del giorno della direzione democratica.
Non è andata così, tanto che Stefano Fassina ha detto: «Ha vinto Sacconi».
Questo precedente lascia immaginare che la minoranza, sull’Italicum, non farà sconti, anche perchè non ci sono prove di appello: se la Camera approva il testo del Senato, diventa legge.
Sono 80-90 i deputati Pd pronti a votare contro il governo.
Uniti ai 70 forzisti rischiano di mettere in crisi le certezze di Renzi.
Dopo il Jobs Act, il clima interno è peggiorato. I mediatori della riforma del lavoro (e tra loro lo stesso Damiano) sono adesso accusati di non aver ottenuto il risultato sperato.
E le mediazioni sulla legge elettorale sconteranno il passaggio sul lavoro, i pontieri avranno molto difficoltà a far accettare compromessi.
Per questo oggi ci sono le condizioni per far nascere un nuovo patto del Nazareno.
Che può rallentare l’Italicum, costringerlo a un altro rischioso iter al Senato. Esattamente quello che Renzi vuole evitare.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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