Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
“HO SMESSO DI CANTARE SENZA PATEMI, BOLOGNA NON SO PIU’ COSA SIA”
L’addio che l’ha fatto più soffrire l’ha dato alla sigaretta: “Ho smesso di cantare in maniera naturale, senza patemi: sentivo che con la musica non avevo più niente da dire e l’ho piantata. Finirla con il fumo, invece, mi sta facendo penare: è da un mese e dieci giorni che non ne accendo più una e mi manca, accidenti se mi manca”.
Da sedici anni e nove mesi Francesco Guccini ha lasciato Bologna e vive a Pà vana, un borgo a quattrocento novantuno metri sopra il livello del mare, in pieno Appennino tosco-emiliano, vicino a quello che alla fine della Seconda Guerra Mondiale era il confine che separava l’Italia liberata dall’Italia occupata dai nazisti, la linea gotica.
Guccini ha scritto canzoni che si vorrebbero far studiare a scuola, o forse si studiano già .
Quando capita che le passino alla radio — scriveva Edmondo Berselli — può venir voglia di cambiare stazione: si ha l’impressione di averle ascoltate abbastanza, di conoscerle tutte, di conoscerle troppo, con quell’erre moscia, i ritornelli brevi e le strofe lunghissime, le locomotive, gli eskimo, gli incontri, le incazzature, le bottiglie di vino. Poi, però, le si ascolta ancora e non suonano come ci si aspettava. Stupiscono, come se avessero il potere di rinascere.
“Ho scoperto — dice Guccini — che i montanari possono assomigliare ai marinai: fanno un lungo giro per il mondo e poi tornano a casa. A me è successo. Qui a Pà vana sono cresciuto con i miei nonni quando non c’era l’acqua corrente, era da poco arrivata l’elettricità e alla sera ci scaldavamo al fuoco del camino. La vita mi ha riportato nello stesso posto quando a scuola hanno accettato la richiesta di trasferimento di mia moglie, nel 2001. Non abbiamo pensato: ‘Adesso cambiamo vita’. È successo. Ho lasciato Bologna e oggi non so più cosa sia. La città che ho abitato è scomparsa. Non ci vado più volentieri. Non sopporto il traffico, le distanze da percorrere. Una volta uscivo di casa a mezzanotte e mezza. Oggi a quell’ora sono a letto da un pezzo. È cambiata Bologna. Sono cambiato io”.
Qualcosa è rimasto uguale?
Il desiderio di scrivere. L’unico periodo della mia via in cui non ho scritto è stato durante il servizio militare. Per il resto, ho sempre scarabocchiato ovunque. Quando facevo il giornalista alla ‘Gazzetta di Modena’ mi precipitavo alla macchina da scrivere ogni volta che avevo un attimo libero. Abbozzavo racconti, cominciavo romanzi, anche storie di fantascienza — poi, perdevo i fogli per strada. Il computer è stato la svolta. Da quando l’hanno inventato, ho iniziato a scrivere e a sapere dove ritrovare quel che avevo scritto
Lo fa ogni giorno?
Scrivo solo quando mi vien voglia. Un’ora, un’ora e mezza. A volte niente. Appena mi stanco, smetto. Era così anche con le canzoni. Quando volevano uscire, venivan fuori da sole. Non mi sono mai obbligato a comporle.
Era quello che voleva fare da piccolo?
Da ragazzino, non mi è mai passato per la mente di fare il cantautore. Non sentivo di appartenere al mondo delle canzoni. Ero convinto che avrei fatto lo scrittore. Leggevo così tanto che mi veniva naturale crederlo.
Cosa leggeva?
Tutto quello che mi capitava per le mani. Alla fine dell’estate, quando i villeggianti se ne andavano dalle case che avevano affittato, andavo e razzolavo quello che avevano lasciato dentro. Spesso erano gialli. E in quelle settimane che precedevano il ritorno a scuola, al pomeriggio, li leggevo uno dopo l’altro.
L’altra letteratura quando è arrivata?
Più tardi conobbi gli americani. Era una moda leggere gli scrittori statunitensi del secondo dopoguerra. Lo facevano tutti, l’ho fatto anch’io. Poi all’università conobbi Dickens e più in là gli italiani: Calvino, Pavese, Fenoglio, Pratolini e Manzoni.
I russi?
Li ho letti con gran fatica, mi confondevo con i nomi, quei nomi incredibili che avevano, Andrej, Sergey, Anatole, Petja, alcuni mi sembravano cambiassero tre o quattro volte durante il romanzo. Mi disorientavano.
Ha appena scritto, con Loriano Macchiavelli, “Il tempo degli elfi” (Giunti): il titolo è un tributo a Tolkien?
Una ragazza americana, intorno al sessantanove, mi regalò “Lo Hobbit” in un’edizione paperback. Entrai in quel mondo magico e poi in quello de “Il Signore degli anelli”. Mi travolse.
Era considerata una lettura di destra, allora. Provava imbarazzo?
Tolkien era ambivalente: in Italia lo avevano adottato i gruppi di destra, ma in America erano gli studenti americani di sinistra e gli hippie a ispirarsi a lui. Vedevano dentro i suoi libri un inno al ritorno alla natura, a un’idea di vita essenziale, lontana dalla società . Lo stesso principio che ha mosso i primi ripopolatori dei nostri Appennini, per lo più anarchici che — dopo gli anni di piombo, per paura di finire nei guai — salirono su queste montagne a fondare le loro comunità . Quelle degli elfi, appunto: che sono dei personaggi del romanzo mio e di Loriano.
(Un giallo ambientato nei boschi, tra ispettori della forestale, lupi, un omicidio, capre tibetane e una certa caducità dell’idealismo)
Lei coltiva la stessa utopia della natura?
Io non coltivo alcuna utopia, non l’ho fatto mai: sopravvivo abbastanza tranquillamente senza. Non credo che sia necessario privarsi di tutto — elettricità , riscaldamento, acqua calda e fredda — per tornare alla purezza originaria. Nè sono come chi è convinto che basti andare a funghi nel fine settimana per ristabilire l’armonia dell’uomo con ciò che lo circonda.
In passato era più facile questo rapporto?
Il contadino aveva un po’ di terra, una mucca in stalla, qualche gallina, magari un maiale. Non si poneva il problema del rapporto con la natura. Sopravviveva, facendo una vita durissima. Al punto che il lavoro in fabbrica — magari meno umano, ma di certo più riposante — gli appariva lieve.
Oggi com’è vivere in montagna?
L’Appennino è in completa decadenza. I boschi sono abbandonati. Le foglie che cadono ogni anno dai castagneti si accumulano a quelle che sono cadute l’anno precedente. Nessuno se ne prende più cura.
Si sente lontano dal mondo?
Non sono un eremita, mi sento dentro il mondo. Ne avverto le tensioni e i conflitti.
Cosa la preoccupa di più?
Quello tra Trump e Kim, due matti che non si da bene come reagiranno alle follie che l’uno farà all’altro.
E l’Italia?
Parlo di politica solo ogni tanto con gli amici. Non sento di appartenere a nulla, se non a me stesso.
Dario Fo però scrisse che lei era la voce del movimento. Oggi il movimento è quello a 5 Stelle.
Dario si era innamorato della figura del giullare fino al punto di avvicinarsi a quella di Beppe Grillo. L’ultima volta che lo vidi, poco prima che morisse, parlammo d’altro — non gli ho mai chiesto il perchè di quella scelta. Certo, anche a me piacciono i giullari. Ma non in politica.
Cos’hanno di diverso questi ragazzi dei 5 Stelle da quelli del vostro movimento?
Noi allora non desideravamo far carriera: volevamo cambiare il mondo. Forse, nemmeno i 5 Stelle desiderano il potere. Alcuni di loro però se lo stanno prendendo. Vogliono scalare le posizioni di comando, occuparle, contare. Noi eravamo anarcoidi, più istintivi. Loro si danno da fare. Tutto sommato, sono dei professorini.
Le piacerebbe essere riconosciuto nella letteratura come è successo a Bob Dylan?
Ho molto invidiato Dylan per il premio Nobel. E non spetta a me stabilire se ho avuto o non ho avuto un ruolo nella letteratura italiana. Ma, se dovesse accadere, mi gratificherebbe molto.
(da “Huffingtonpost“)
argomento: Costume | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
“BASTA PERDERE TEMPO, AVANTI ANCHE SENZA DI LUI”… “BUON VIAGGIO”
Le prove di divorzio andavano avanti ormai da settimane, tra irritazioni e stizza, ricuciture e
accelerazioni.
Ora tra i partiti a sinistra del Pd e Giuliano Pisapia che doveva essere il “grande federatore” l’avventura sembra già finita, a poco più di tre mesi dalla manifestazione di “Insieme“, il movimento che doveva tenere insieme tutto il centrosinistra ma che ha visto la sua notorietà nascere e morire il primo luglio.
Dopo gli inviti ripetuti di Massimo D’Alema a “fare presto” (a fare un soggetto unico a sinistra del Pd), oggi si è deciso anche Roberto Speranza.
Destinatario del messaggio, proprio Pisapia. “Abbiamo parlato troppo di noi, ora basta — dice in un’intervista al Corriere della Sera — Bisogna correre, Pisapia è naturalmente protagonista di questa storia, ma non si può più perdere un solo minuto e neanche stare lì a parlare tutti i giorni di nomi dei big, invece che di proposte. È diventata una soap opera insopportabile“.
La risposta dell’ex sindaco di Milano arriva dopo poche ore dall’uscita del giornale: “Non c’è problema. Buon viaggio a Speranza, sono sicuro che ci ritroveremo in tante battaglie — afferma durante un incontro a Mesagne — Io continuo in quello che ho sempre detto — ha detto Pisapia — non credo nella necessità di un partitino del 3 per cento, credo in un movimento molto più ampio, molto più largo e soprattutto capace di unire, non di dividere“.
Il punto di rottura è soprattutto sulla tempistica: “Il tempo è ora — dice Speranza — non possiamo andare oltre novembre” dice Speranza, indicando il 19 di quel mese come giorno ideale per le primarie della coalizione di sinistra.
Un’accelerazione che Pippo Civati — leader di Possibile — accoglie con trasporto: “L’intervista di Speranza fa chiarezza sulla lista unica a sinistra. Era ora ed è ora. Finalmente c’è anche la data dell’assemblea. Non possiamo che esserne soddisfatti”. A lui si è aggiunto anche il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni che rafforza il concetto: “Mi sembra finalmente finita la stagione delle ambiguità , dei tentennamenti. Il tempo è ora”. L’unione è ormai impossibile. Ormai siamo già quasi al dileggio. “Ricambio gli auguri di Buon viaggio a Giuliano Pisapia rimanendo in speranzosa attesa del suo partitone #insieme” twitta Miguel Gotor, il più bersaniano dei senatori.
Nel Pd restano a guardare e un po’ gongolano.
“Non entro in questa polemica — dice il coordinatore della segreteria Lorenzo Guerini — ma a me interessa ribadire la posizione del Pd espressa dal segretario nell’ultima direzione: noi lavoriamo per un disegno ampio e inclusivo basato sui contenuti e non sui veti personali”.
Pisapia si ripete, per l’ennesima volta: “Vogliamo partire dai contenuti, ieri abbiamo fatto le officine sui temi ecologici e contemporaneamente a Torino c’era un’iniziativa sui temi della cultura. Bisogna passare dal personalismo ai contenuti, vedere cosa serve agli italiani”, “noi siamo sempre stati coerenti”.
E ancora: il progetto di “unire le anime diverse del centrosinistra: l’ecologismo, il civismo, il volontariato, l’associazionismo, tutte realtà che non devono essere utilizzate solo in campagna elettorale, ma devono diventare parte integrante di un centrosinistra di governo“.
Ma poi non si tiene più: “Quando come delegazione di Mdp sono andato a parlare con il presidente Gentiloni non a fare ricatti ma a fare richieste di giustizia sociale” come “il diritto alla salute“, “qualche assicurazione l’abbiamo avuta”.
“Abbiamo fatto un percorso condiviso all’unanimità dai gruppi” su come votare in aula sul Def, continua, “il problema è stato che, potevano almeno avvisare quantomeno, che quello stesso giorno il loro sottosegretario si sarebbe dimesso e che sarebbero usciti dalla maggioranza”.
Nel momento in cui da parte del governo “c’è un annuncio importante”, in cui “hai la prospettiva di un’azione concreta” e vicina alla richieste della sinistra, “esci dalla maggioranza? Problemi loro, potevano aspettare una settimana e quantomeno avvisare chi era andato dal presidente del Consiglio, altrimenti sembra una presa in giro“.
Un’amarezza che si allarga a Nichi Vendola che in un paio d’occasioni nell’ultimo mese ha messo Pisapia nel mirino al quale ha mandato a dire che “è molto generoso, soprattutto con se stesso” e che gli preferisce Piero Grasso.
“Umanamente e personalmente mi fa soffrire — replica l’ex sindaco di Milano — Con Nichi abbiamo fatto tante battaglie, per me è stato un punto di riferimento. Non riesco a comprendere questa volontà , peraltro dicendo cose che non rispondono alla verità , di attaccare le mie posizioni”. Quanto al partito di Vendola “Sinistra italiana è coerente dal suo punto di vista: la loro posizione è che serve un quarto polo. In questa fase a loro non interessa cambiare il Paese, ma ricostruire una sinistra che, però alla fine, sarebbe solo di testimonianza. Chiedo rispetto ma il nostro obiettivo è un altro, noi vogliamo cambiare le cose”.
Bruno Tabacci, braccio destro di Pisapia in Parlamento, certifica a RadioRai che le strade tra Speranza e Pisapia “si sono divise perchè è diversa l’impostazione. Pisapia fin dall’inizio aveva parlato di un centrosinistra largo. L’iniziativa di Speranza ha una coloritura molto diversa, somiglia ad una cosa rossa che riprende qualche tentativo del passato. Noi possiamo ritrovarci dentro uno schema di centrosinistra allargato ma non certo una cosa che mette insieme Fratoianni, che è quello che vince sulla linea”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: democratici e progressisti | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
UN APPARTAMENTO GRANDE IN PIENO CENTRO A FIRENZE, MA LA PROPRIETA’ NON E’ LA SUA, E’ DI UN IMPRENDITORE AMICO DI LUCA LOTTI
A cento passi da Palazzo Vecchio.
La nuova abitazione di Matteo Renzi a Firenze è in una via centralissima a breve distanza da uno dei simboli della città , di cui il segretario Pd è stato sindaco. Non è un acquisto a sei zeri, la proprietà non è sua, ma di un amico.
La casa in cui si è trasferito Renzi da Pontassieve, anche per l’incarico di insegnamento ricevuto nel capoluogo toscano dalla moglie Agnese, scrive oggi La Verità …
“appartiene ad Andrea Bartolozzi, imprenditore nel settore del vetro artistico e immobiliarista di Montelupo Fiorentino, il Paese di Luca Lotti, ministro dello Sport e fedelissimo dioscuro di Matteo […] “I Bartolozzi sono stati presentati a Matteo da Andrea Bacci, amico collaboratore e ristrutturatore di case della famiglia Renzi”.
Dopo la mansarda di Palazzo Malenchini e l’attico di Via degli Alfani, per Renzi il trasloco in una via centralissima e molto bella di Firenze, dove per qualche anno ha abitato Giancarlo Antognoni, gloria calcistica viola (e non solo), in una casa ampia per vivere con Agnese e i tre figli.
Famiglia che torna in mostra sulle pagine di Chi, il settimanale di gossip più letto d’Italia, edito da Mondadori. Matteo Renzi “casa e chiesa”, “leader della porta accanto”, fotografato con moglie e figli, non pixelati malgrado la minore età .
(da “Huffingtonpost“)
argomento: Renzi | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
IL COMBINATO DISPOSTO DELLA LEGGE FORNERO E DEL JOBS ACT LO RENDE PIU’ CONVENIENTE CHE RICORRERE ALLA CIG
Licenziare costa poco, troppo poco. 
Il combinato disposto della legge Fornero, che ha disposto l’eliminazione della mobilità e con essa il contributo per accedere ai licenziamenti collettivi, sostituiti da un ticker di quattro volte più basso, e del Jobs Act di Renzi che ha quintuplicato l’aliquota di accesso alla cassa integrazione, ha avuto il risultato che cacciare un lavoratore conviene più di ieri.
Se prima mettere in cassa un lavoratore anzichè licenziare costava 3 mila euro in meno, ora costa mille euro in più.
Per questo, spiega oggi Valentina Conte su Repubblica, il governo Gentiloni intende chiedere alle imprese uno sforzo aggiuntivo, da inserire nella imminente legge di Bilancio.
Versare un ticket licenziamento più alto dell’attuale, così da finanziare il nuovo assegno di ricollocamento collettivo. Quello che a differenza dell’individuale scatta, nelle gravi crisi industriali, non dopo quattro mesi di Naspi, ma appena il lavoratore entra in cig. Per consentirgli, dopo adeguata formazione, una sistemazione più rapida. L’assegno viene incassato dalle aziende che lo assumono in pianta stabile. A lui resta la metà almeno della cig residua, quella che avrebbe comunque percepito
La pressione dei sindacati, su questo tema, è forte.
Sabato 14 ottobre, nei presidi davanti alle prefetture di cento città , Cgil Cisl e Uil chiederanno tra le altre cose al governo di rivedere sia i costi di accesso alla cig straordinaria, sia il ticket licenziamento.
Difficile che Palazzo Chigi possa ritoccare il Jobs Act. Molto più probabile una revisione del ticket.
I numeri d’altro canto parlano chiaro.
Fino allo scorso anno le aziende sopra i 15 dipendenti erano tenute a contribuire alla mobilità in due modi: versando all’Inps lo 0,30% dello stipendio lordo di ciascun lavoratore e assicurando, sempre all’Inps, il contributo una tantum all’atto del licenziamento.
Il cui importo variava tra le 3 e le 6 volte l’indennità di mobilità (1.168 euro).
E oscillante dunque tra 3.500 e 7 mila euro, a seconda della presenza o meno di un accordo sindacale.
(da “NextQuotidiano”)
argomento: Lavoro | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
TOTI DORME E 5 MILIONI DI EURO DI FONDI PUBBLICI POTREBBERO ANDARE IN FUMO
Genova rischia di perdere il Mei, il museo nazionale dell’Emigrazione e, con lui, cinque milioni di euro di fondi pubblici, di cui tre già stanziati dal Ministero dei Beni culturali e due milioni destinati dalla stessa presidenza del consiglio.
In più sono stati bloccati 300.000 euro di denari privati (della Compagnia di San Paolo, già pronta a impegnarsi con ulteriori finanziamenti).
Dovrebbe sorgere come gemmazione del Museo del Mare, il Museo nazionale dell’Emigrazione, allargando gli spazi espositivi anche nell’adiacente edificio Metelino, al Porto Antico.
Il sindaco di Genova, Marco Bucci, la scorsa settimana ha ribadito l’impegno per realizzarlo, i ministeri dei Beni culturali e degli Esteri si erano fatti avanti, adesso è la Regione che non fa sapere più nulla.
E l’immobilità rischia di far perdere a Genova un presidio culturale di livello nazionale.
Il primo passo per la realizzazione del Mei venne mosso nel 2015, proprio per iniziativa del Mibact, perchè il Museo italiano dell’Emigrazione ha avuto una sede provvisoria, dal 2009 al marzo 2016, al Vittoriale, a Roma e venne stabilita Genova come sede permanente e si arrivò a redigere un accordo di valorizzazione.
«Abbiamo un mese – scandisce Maria Paola Profumo, presidente del Museo del mare e presidente dell’Associazione dei musei marittimi del Mediterraneo – poi perderemo tutti i fondi e la possibilità di realizzare il Mei».
L’istituzione, oltre a raccontare la storia dei grandi flussi migratori che dall’Italia, non solo nell’Ottocento, partirono verso il resto del mondo, e in gran parte proprio dal porto di Genova, e a costruire un centro di documentazione, diventerebbe il “pendant” naturale del Museo di Ellis Island, a New York, dove molti di “questi” emigranti approdarono.
La presidentessa Profumo si dice disponibile a semplificarne la struttura direttiva: «Potrebbe essere lo stesso board del Muma, allargandolo ai rappresentanti dei ministeri coinvolti, a gestire il nuovo Mei», assicura.
Toti sveglia !!!
(da “La Repubblica”)
argomento: Genova | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
MA ALLA FINE VINCONO IL RICORSO: “ERANO IN BUONA FEDE, AVREBBERO REGOLARIZZATO DOPO”
Ah, questi social. La storia di questa coppia di Valdobbiadene ha un sapere tipicamente “moderno”:
la donna posta su Facebook una foto della piscina che stanno costruendo, un funzionario comunale se ne accorge e i due finiscono a processo.
Una foto che aveva fatto il pieno di “like”, commenti e auto-inviti a grigliate a bordo vasca.
Peccato però che un dipendente comunale abbia visto la foto, e abbia segnalato il caso alla polizia locale.
Che si è recata a casa della coppia, chiedendo i documenti e i permessi per la costruzione della piscina. In municipio non c’è nulla, e nemmeno la famiglia ha le autorizzazioni del caso: scatta così la denuncia per abuso edilizio.
Si tratta di 29 metri cubi di scavo, pronti ad ospitare la piscina. La multa è un verso salasso: 6mila 500 euro a testa in sostituzione di 5 giorni d’arresto.
Per evitare di pagare i 13mila euro, però, i due corrono ai ripari, coprendo lo scavo
Poi fanno ricorso in tribunale, e, incredibilmente, vincono: sono stati infatti assolti entrambi.
Ci sarebbe infatti stata buona fede nel loro agire, rispetto alle procedure burocratiche che avrebbero dovuto sbrigare in futuro.
Anche la sentenza della Cassazione aveva dato loro ragione, vista la tenuità dell’accaduto.
(da “la Gazzetta di Treviso”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
EMAIL DEL SINDACO DI POMEZIA INVITA A VOTARE LA CANDIDATA VICINA ALLA RAGGI
Altre primarie, altre liti, altre possibili sospensioni.
I 5 Stelle riscrivono la stessa storia a ogni votazione fissata nel loro serratissimo calendario.
Dopo Genova e la Sicilia, ora il Lazio, dove mercoledì e giovedì prossimo sarebbe previsto il voto per le «regionarie», le primarie che in casa di Beppe Grillo servirebbero a scegliere il candidato governatore.
Il condizionale è davvero d’obbligo in queste ore perchè, stando a quanto confermato dai vertici del M5S, non è detto che alla fine il voto ci sarà . O perlomeno non è detto che non slitterà .
Tutta colpa di una email spedita da Pomezia a sostegno della candidata Valentina Corrado, che ha fatto scomodare Beppe Grillo, Davide Casaleggio e Luigi Di Maio e ha prodotto, per reazione, una dura censura sul blog, perchè in palese violazione del rigido regolamento del M5S che vieta «endorsement, cordate o altri tipi di promozione tipici dei vecchi partiti».
Il M5S, è scritto su un post di Grillo, «prende le distanze da chi mette in atto questi metodi che non ci appartengono».
Chiara l’accusa, manca, come al solito, l’accusato. Di nomi neanche l’ombra. Ma il diretto interessato sa che si riferiscono a lui.
È Fabio Fucci, sindaco grillino di Pomezia, non uno qualsiasi, ma sindaco così apprezzato nella cerchia ristretta dei capi del M5S da avere avuto l’onore di salire sul palco della festa di Rimini assieme alla prima cittadina di Torino Chiara Appendino e a quella di Roma Virginia Raggi.
Ma le regole non perdonano e nonostante l’aureola, Fucci potrebbe essere sospeso dal M5S, se sarà considerato colpevole di aver scatenato l’ennesima faida tra cordate.
Per capire i fatti, serve aver più chiaro il quadro e sapere che in ballo ci sono due nomi, due donne che nell’ultimo anno si sono combattute a distanza spaccando il Movimento. Roberta Lombardi e Virginia Raggi.
La deputata è in corsa per la candidatura a governatore: unico volto davvero noto, è pronta a sacrificare lo scranno parlamentare per provare ad agguantare la Regione.
A sfidarla ci saranno Davide Barillari, consigliere regionale e già candidato governatore nel 2013, e Valentina Corrado, anche lei consigliera in carica e attivista storica di Pomezia.
«Non abbiamo correnti e non dobbiamo averne» continua a sgolarsi Grillo.
La precisazione arriva con una periodicità sfiancante perchè se di correnti organizzate nel M5S non si può parlare, certo è che non mancano le logiche da clan, dove sono amicizie e simpatie a formare gruppi gli uni contro gli altri armati.
E allora Corrado è una estimatrice di Raggi, con cui si è fatta fotografare sorridente a Rimini.
E Raggi è la nemica giurata di Lombardi che ha definito «una candidata come le altre» e che non vorrebbe ritrovarsi alla Regione Lazio, come coinquilina istituzionale. Corrado è di Pomezia e da Pomezia, dall’account ufficiale del M5S cittadino, è partita la email che invita tutti i militanti certificati a votare Corrado, perchè, c’è scritto, «Valentina è il presidente di Regione ideale […]. Ha creato quel modello, il “modello Pomezia” che esportato in tutta la Regione darebbe un enorme beneficio a tutti i cittadini di questo importante “pezzo di Stato”».
Il sindaco Fucci ha provato a giustificarsi sostenendo di non avere nulla a che fare con quella email.
Ma sarebbe stato sbugiardato dalla Casaleggio in possesso dello screenshot che prova come sia lui l’amministratore dell’account.
Una delusione anche per Di Maio, suo grande sostenitore, che per non finire nuovamente triturato dalle divisioni tribali interne ha fatto arrivare a Lombardi tutto il suo disappunto per l’accaduto.
La deputata, memore della guerra di dossier condotta per affossare il suo pupillo Marcello De Vito in corsa contro Raggi alle primarie di Roma, ha confessato di essere «molto agitata».
Grillo e Casaleggio l’hanno chiamata per tranquillizzarla e prometterle punizioni esemplari.
Il collegio dei probiviri ha aperto un’istruttoria. Fucci dovrà spiegare molte cose.
(da “NextQuotidiano”)
argomento: Grillo | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
A 50 ANNI DALLA SUA MORTE, PERMANE IL MITO DI CHE GUEVARA: “HA LOTTATO PER LA LIBERTA’ DEI POPOLI, E’ DI ESTREMA ATTUALITA'”
«Meglio Trump che Obama: così almeno non ci sono equivoci sulle mire degli Usa contro Cuba». In
tutti i guai del mondo, Camilo Guevara legge la conferma dell’attualità di suo padre.
Qual è il senso della mostra sul «Che» che si aprirà a dicembre a Milano?
«Il materiale è stato accettato dall’Unesco come parte del progetto “Memoria del mondo”, nella categoria internazionale, la più significativa per l’universalità che riconosce a coloro che include. Per ciò ha un’importanza culturale, storica, politica. L’intento è mostrare i contesti in cui ha agito il “Che”, quali sono state le sue motivazioni, e la sua eredità storica».
Quando è morto lei aveva 5 anni: quali ricordi conserva?
«I miei presunti ricordi sono molto mischiati con i sogni e non posso definire con certezza quali siano veri, perciò non parlo di queste cose. Partì da Cuba per il Congo quando io avevo 3 anni: un bambino di quell’età non può ricordare nitidamente. E poi stiamo parlando di una persona che dedicava molto tempo al lavoro e agli studi, con grandi responsabilità verso il popolo cubano, che prendeva assai sul serio. Sin da piccolo avevo la coscienza che mio padre era una persona molto amata e rispettata dalla maggior parte dei cubani. Si dice che i figli somigliano più al proprio tempo che ai genitori, perchè sono lo scenario, le circostanze, che ti permettono di agire in una direzione o in un’altra. Mio padre ha segnato il mio tempo. I suoi scritti, lettere, insegnamenti sono ancora vitali, la sua voce e immagine ci accompagnano in molti luoghi, nei media e anche a scuola. Da quando ero molto giovane ho fatto letture di cui era l’autore, ma per me è sempre venuto prima il padre e poi l’eroe. Poichè sono cubano, conosco le sue imprese e virtù, l’ammiro come il modello di uomo e rivoluzionario che è».
La morte di suo padre è stata chiarita, o restano punti oscuri?
«Non ho mai fatto confusione su questo fatto. Mio padre è stato assassinato dai militari boliviani, per ordine degli yankee. Certo, si è cercato anche di costruire trame nelle quali a volte compaiono i rivoluzionari cubani come colpevoli, o i sovietici, creando intrighi di palazzo e fiabe. Il Che non ha avuto un giudizio, perchè temevano le conseguenze. È stato assassinato a La Higuera perchè la causa che difendeva era molto pericolosa e contraria agli interessi degli imperialisti. Non ci sono dubbi su quel che è successo, anche se hanno cercato molte volte di nasconderlo con schermi di fumo e voci malintenzionate».
Quali differenze ci sono tra la sua figura umana reale e la percezione mitica?
«Il Che è stato un uomo, ma molto completo. Coerente in pubblico e in privato, perchè non sapeva essere altro che onesto, coraggioso, audace, giusto, amorevole e sensibile. Perciò noi i cubani, che lo conosciamo bene, lo amiamo e ammiriamo così tanto».
Cosa resta oggi della dottrina elaborata da suo padre?
«Il Che è stato un teorico che ha avuto la fortuna di mettere in pratica alcune delle sue tesi. L’eredità è vasta, ma anche attuale. Il mondo non è cambiato molto dagli anni in cui decise di lottare per la libertà di altri popoli. Oggi serve il Che, o persone come lui, ancora più di prima, perchè viviamo già i tratti del caos. Se non freniamo questa decadenza, la barbarie che cerca di perpetrarsi potrebbe far sparire la nostra specie».
Come vede il futuro di Cuba, dopo la scomparsa di Fidel Castro e l’annuncio di Raàºl che nel 2018 intende lasciare la presidenza?
«Quando il popolo cubano combatteva per l’indipendenza dalla Spagna e le tirannie imposte dagli Stati Uniti, sono morti uomini preminenti come Carlos de Cèspedes, Agramontès, Martà, Maceo, Mà¡ximo Gomez, Mella, Villena, Guiteras. Le loro idee e lotte hanno dato forma alla nostra nazionalità e influenzato la continuità delle lotte libertarie. La nostra identità è molto legata ai loro lasciti. Fidel, Raàºl sono parte di questa tradizione, e quelli che seguiranno non smetteranno di essere patrioti rivoluzionari. La rivoluzione è il progetto che meglio ci si addice, perchè risponde ai nostri interessi. Se vogliamo continuare a esistere come nazione, siamo obbligati a mantenere una forma di produzione alternativa al capitalismo, pur migliorandola o modificandola. Se perdiamo del tutto questo, saremo in grave pericolo di morte».
Aveva condiviso l’apertura di Obama, e cosa pensa di Trump?
«Tutto ciò che viene fatto per calmare gli animi è positivo, se non compromette i nostri interessi. Però Obama non aveva proposto una nuova linea, ristabilendo i rapporti diplomatici. Aveva detto chiaramente che voleva prendere strade diverse, per raggiungere lo stesso fine: cancellare la rivoluzione. Con Trump le cose sono più chiare, e ci siamo abituati. Non ci ha nemmeno lasciato “godere” quell’apparente calma, che quindi non ci mancherà . Spero che alla fine prevalga il pragmatismo, e che in futuro (secondo me lontano) potremo intrattenere rapporti civili, per il mutuo beneficio».
Un altro argentino sta diventando mito, e molti dicono che è un «rivoluzionario», o un «comunista». Cosa pensa di papa Bergoglio?
«Io, grazie a Dio, sono ateo, ma parte della mia istruzione, principalmente sui valori, ha origini nel cristianesimo e in altre religioni. Sembra che papa Francesco voglia far germogliare questi valori. In realtà non lo conosco abbastanza per giudicarlo, ma posso affermare che se seguisse semplicemente gli insegnamenti di Cristo, per forza di cose sarebbe rivoluzionario e avrebbe molti nemici. Ho visto molta gente chiamarsi cristiana e non patire neanche un po’ di fronte alla disgrazia altrui, nè seguire uno solo dei comandamenti, oppure essere più peccatore del Diavolo. Quindi se vedo qualcuno accostarsi a quegli insegnamenti, anche un po’, mi sento felice. Magari il Papa fosse così “cattivo”, come denuncia chi si oppone ai cambiamenti positivi nel mondo».
(da “La Stampa”)
argomento: Costume | Commenta »
Ottobre 8th, 2017 Riccardo Fucile
IL GOVERNO DEL PRESIDENTE BRASILIANO E’ IMPOPOLARE, SOLO IL 10% DEI CITTADINI E’ SODDISFATTO, IL PREMIER E’ ACCUSATO DI CORRUZIONE E NON HA INTERESSE A FARSI ALTRI NEMICI
Un dilemma in più, per un presidente perennemente in bilico. Michel Temer ha sul suo tavolo il dossier internazionale più scottante di questi tempi: dipende infatti da lui l’estradizione in Italia dell’ex terrorista Cesare Battisti.
Il governo italiano ha fatto e sta facendo tutte le pressioni del caso; un lavoro costante, svolto senza alzare troppo la voce, e che si ritiene non sia stato affatto compromesso dal rilascio di Battisti deciso da un giudice federale di San Paolo. Il fermo sulla frontiera con la Bolivia, del resto, era per un delitto minore (esportazione di valuta) l’ex terrorista è oggi più monitorato che prima e quindi non si temono nuovi pericoli di fuga.
La palla, quindi, è tutta nelle mani di Brasilia.
Temer ha voluto prendere tempo per ascoltare i suoi consiglieri legali, che gli hanno detto che dal punto vista politico non ci sarebbe alcun impedimento nel rivedere la decisione presa nel 2010 da Lula da Silva, che aveva ribaltato il parere favorevole all’estradizione della Corte Suprema.
Se la linea dettata allora fu quella della supremazia della politica sulla magistratura, Temer non farebbe che confermare quest’indicazione di massima e questo non dovrebbe creare attriti con il massimo tribunale.
E allora, ci si chiede, perchè aspettare tanto, perchè rimandare ancora quel piano che, secondo la stampa locale, sarebbe già stato studiato nei minimi dettagli con un aereo militare pronto a prelevare Battisti già a Corumbà e portarlo direttamente a Roma?
Le ragioni possono essere diverse, ma su tutte c’è la necessità di cautela massima da parte di un politico che si trova, sul fronte interno, costantemente nell’occhio del ciclone.
Temer è coinvolto direttamente nel ciclone degli scandali di corruzione che stanno investendo la politica brasiliana e nei prossimi giorni il Parlamento dovrà decidere su una seconda denuncia piovuta contro di lui.
Il suo governo, nato dal ribaltone dell’impeachment di Dilma Rousseff, è molto impopolare; secondo gli ultimi sondaggi lo appoggia meno del 10% dei brasiliani. Non che estradare Battisti sia una scelta impopolare, la maggioranza dei brasiliani non conosce a fondo la vicenda, ma quando tutto intorno a te traballa anche un piccolo passo può sembrare complicato.
Da tenere in conto, poi, anche lo sciovinismo presente da sempre nella politica estera brasiliana; la tentazione, cioè, di far quadrato rispetto alle esigenze, pur legittime, di altri Paesi.
Mentre Temer pensa e riflette, cresce intanto il tam tam della «claque» di Battisti, molto forte negli ambienti della sinistra brasiliana vicina al Partito dei lavoratori e ai sindacati.
Fra di loro c’è l’ex senatore Eduardo Suplicy, diventato suo amico personale, che mette ancora oggi la mano sul fuoco sulla sua innocenza.
«Ho maturato, dopo averlo visitato in carcere e per le testimonianze che ho raccolto in questi anni, la convinzione che non ha commesso gli omicidi che gli si sono stati attribuiti e per i quali non si è potuto difendere. Il Brasile deve difendere la decisione presa da Lula».
Domani i pro-Battisti si riuniranno in un patio dell’Università di San Paolo per ribadire la loro solidarietà al «companheiro Cesare».
Lui, nel frattempo, è tornato a casa a Cananèia, piccolo centro di dodicimila abitanti a quattro ore di macchina da San Paolo. Ieri lo si è visto tranquillo, birra in mano, prima di imbarcarsi all’aeroporto di Campo Grande.
La primavera sta arrivando in Brasile, Cananèia è un’isola a ridosso del mare e nelle giornate di sole si può già fare il bagno; se volesse, Battisti si può godere così dei momenti di libertà provvisoria, in attesa che Temer risolva il suo dilemma.
(da “La Stampa”)
argomento: Giustizia | Commenta »