Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
OSSESSIONATO DALLA SUA SALUTE “MAD VLAD” IMPONE A CHI LO VUOLE INCONTRARE DI SOTTOPORSI QUATTRO VOLTE AL TAMPONE MOLECOLARE E DUE VOLTE AL TEST DEGLI ANTICORPI COVID-19, A ESAMI SU SARS, INFLUENZA, STAFILOCOCCO AUREO, VERMI E A PRELIEVO DI SANGUE E FECI … UN SISTEMA DI CONTROLLI CHE COSTA AL CREMLINO 6,8 MILIONI DI EURO
Per due anni Vladimir Putin ha vissuto in stretto isolamento. Niente viaggi, solo riunioni di lavoro in remoto, massime precauzioni anti- Covid. Ora che ha ripreso a muoversi e a incontrare gente, la “bolla” in cui viveva non è esplosa. Si sposta con lui. E costerebbe al bilancio russo almeno quattro miliardi di rubli, 6,8 milioni di euro al cambio attuale.
Né le sue quattro dosi di vaccino contro il coronavirus, né l’operazione militare speciale in Ucraina, né l’allentamento delle restrizioni in vigore dal primo luglio in tutta la Russia hanno allentato le misure a cui è costretto a sottoporsi chiunque entri in contatto con il leader del Cremlino, rivela un’inchiesta di Bbc Russia , testata bloccata nella Federazione.
E lo conferma a Repubblica un uomo d’affari vicino al presidente: «Incontrare Putin? Chi ha voglia di stare chiuso da qualche parte tra quattro mura per due settimane?».
Funzionari, piloti e medici sono costretti a snervanti e continue quarantene. Per accedere alla cosiddetta “zona pulita”, vale a dire al cospetto del presidente russo, bisogna sottoporsi quattro volte al tampone molecolare e due volte al test degli anticorpi Covid-19, nonché a esami su Sars, influenza, stafilococco aureo, vermi e a prelievo di sangue e feci.
«Quando è arrivato il mio turno, lo ho salutato. Ha sorriso e mi ha stretto la mano», così il generale Akhat Julashev di Kazan ha raccontato a un media locale il suo effimero incontro con Putin in occasione della parata del 9 maggio in Piazza Rossa.
Pochi secondi costati al 94enne veterano della guerra in Afghanistan due settimane in isolamento. Certo: «con tutti gli onori» e «in un lussuoso hotel di Mosca», ha raccontato lo stesso Julashev. Ma pur sempre in totale solitudine.
Stesso trattamento riservato ad altre 400 persone solo per potersi sedere vicino o stringere la mano a Putin in occasione della Giornata della Vittoria. Come Julashev, tutti trattati al meglio. Due gli hotel riservati nel centro di Mosca: il President a 4 stelle e il Golden Ring a 5 stelle. Mentre cinque veterani sono stati alloggiati in un sanatorio militare nei pressi di Mosca.
Alcuni dipendenti del Cremlino sono costretti a trascorrere quasi tutto l’anno in quarantena in decine di sanatori – oramai chiusi ai vacanzieri – nei pressi delle residenze presidenziali nella regione di Mosca, Sochi e Valdai per una spesa dall’inizio della pandemia che Bbc Russia avrebbe quantificato intorno ai 2 miliardi di rubli, oltre a 1,7 miliardi di sussidi alle strutture nel solo 2020.
Secondo il canale Telegram Baza , alcuni hanno trascorso chiusi in stanze singole più di 150 giorni nel 2021. Tanto che c’è chi ha detto “Basta”
Come il cameraman personale di Putin Ilja Filatov che – stando al sito investigativo Proekt – si è dimesso subito dopo aver filmato il discorso del presidente sull’inizio dell’offensiva in Ucraina: «Sono stufo di star seduto mesi in quarantena».
Come già rivelato dal Proekt lo scorso aprile, un’equipe di medici dell’Ospedale centrale clinico al servizio di Putin e dell’amministrazione presidenziale segue il capo di Stato nei suoi soggiorni in dacia o viaggi. Anche loro sono costretti a stare in isolamento prima di visitare il leader del Cremlino.§
Secondo Bbc Russia , alloggerebbero in diversi sanatori in tutto il Paese. Come la Casa di Riposo Valdai nella regione di Novgorod, chiusa al pubblico “a tempo indeterminato” dal 6 novembre 2020, che ospiterebbe regolarmente da uno a quattro medici.
Quest’ anno, dal 1° gennaio al 15 aprile, i dottori avrebbero visitato Putin a Valdai almeno 9 volte. Mentre a febbraio, poco prima dell’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, 20 medici si sono trasferiti per circa 15 giorni nell’Hotel Arbat di Mosca.
La quarantena però non basta. Bisogna sottoporsi anche a esami di laboratorio «a fini sanitari ed epidemiologici ». Innanzitutto, già due giorni prima dell’inizio dell’isolamento, un esame degli anticorpi. Durante la quarantena, quattro tamponi molecolari e, il dodicesimo giorno, un secondo esame degli anticorpi. Se è tutto ok, al 14° giorno si viene ammessi nella «zona pulita».
Dall’inizio della pandemia, calcola Bbc Russia , l’amministrazione presidenziale e le strutture annesse hanno commissionato 1.500 tamponi, ma anche esami per Sars, influenza, stafilococco aureo e prelievo del sangue e delle feci. Test che, secondo Baza , i funzionari più vicini al presidente devono effettuare «più volte a settimane».
L’equipaggio dei voli presidenziali, nel solo maggio, si è dovuto sottoporre a un totale di 1.376 test, 98 esami delle feci, 447 esami del sangue alla ricerca degli anticorpi e 32 di patologie. Oltre a stare in perenne isolamento.
Per lo specialista israeliano Konstantin Balonov, interpellato da Bbc Russia , dietro a tanta ossessione ci sarebbero solo due motivazioni possibili: «paranoia o vera paura dal punto di vista medico».
(da la Repubblica)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
PECHINO NON VUOLE INIMICARSI L’OCCIDENTE CON CUI FA AFFARI
Il presidente cinese Xi Jinping avrebbe rifiutato l’invito di Vladimir Putin a
visitare la Russia nell’immediato futuro, ufficialmente a causa della pandemia.
L’indiscrezione, rilanciata da un giornale giapponese e smentita con nettezza dal Cremlino, alimenta i dubbi sulla solidità della partnership tra Mosca e Pechino, soprattutto per le preoccupazioni del Dragone legate alla guerra in Ucraina.
E’ stato il quotidiano nipponico Emiuri Shimbun, citando fonti diplomatiche, a creare il caso, costringendo il Cremlino ad una risposta ufficiale. Nell’articolo si legge che Putin ha invitato Xi in Russia durante il loro ultimo colloquio, lo scorso 15 giugno. Ma la risposta è stata “sarà difficile organizzarlo”, a causa delle restrizioni ancora in vigore in Cina per il Covid. Tra le righe, tuttavia, i giapponesi hanno letto ben altro. Putin e Xi si erano incontrati faccia a faccia lo scorso febbraio a Pechino all’apertura delle Olimpiadi invernali, promettendosi una “cooperazione senza limiti”. Ma dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’atteggiamento del Dragone nei confronti dell’alleato è stato ambiguo, perché Xi vuole evitare il muro contro muro con gli occidentali, che sostengono Kiev.
In quest’ottica una visita a Mosca in questo momento rischierebbe di mandare un segnale troppo conflittuale a Stati Uniti ed Europa. Con cui la Cina – tra le altre cose – fa molti affari.
A Mosca la notizia del presunto rifiuto di Xi è stata smentita con nettezza. “C’è un invito valido per Putin a visitare la Cina e per Xi Jinping a visitare la Russia. Tali visite ci saranno una volta che termineranno le restrizioni” legate al Covid, ha chiarito il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov.
Spiegando che queste limitazioni sono una “cosa assolutamente normale e comprensibile”. Dall’inizio della pandemia, nei primi mesi del 2020, Xi Jinping effettivamente non ha mai lasciato la Cina
E’ altrettanto vero, tuttavia, che lo stesso Xi non ha fornito all'”amico” Putin l’aiuto che quest’ultimo sperava per la sua guerra in Ucraina. Soprattutto in termini militari.
(da agenzie)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
QUEL CHE POTREBBE CONVINCERE GIORGIA MELONI A TRATTARE È SÌ UN SISTEMA PROPORZIONALE, MA CON ROBUSTO PREMIO DI MAGGIORANZA ALLA COALIZIONE… QUESTO PERMETTEREBBE DI CANCELLARE I COLLEGI UNINOMINALI, DA SEMPRE FONTE DI SCONTRI FRA ALLEATI
«Prima viene l’interesse del Paese». Sta tutto in queste cinque parole il senso della mediazione portata avanti da Enrico Letta, «con la massima determinazione», per scongiurare la rottura tra Giuseppe Conte e Mario Draghi. Una sorta di moral suasion a base di telefonate e whatsapp per persuadere l’avvocato a non cedere alle pulsioni anti-sistema di una parte dei Cinquestelle.
Anche perché a rimetterci – oltre all’Italia, che rischierebbe di precipiterebbe verso l’esercizio provvisorio – sarebbe proprio l’ex presidente del Consiglio. Il quale, è il ragionamento del Nazareno, se provocasse la caduta del governo, non solo smentirebbe il suo profilo istituzionale, ma finirebbe per consegnare il Movimento all’anima più barricadera impersonata da Di Battista. E non avrebbe scampo manco lì.
Più o meno gli stessi concetti ribaditi pure da Dario Franceschini, nel corso del serrato scambio di messaggi intervenuto dopo l’avvertimento lanciato domenica dal palco di Cortona: «Se il M5S strappa non si farà alcuna alleanza alle elezioni». Offesissimo, Conte ha accusato il ministro della Cultura di voler esacerbare gli animi proprio nel momento di massima insofferenza della truppa grillina. Tracimata ieri alla Camera, dove il 5S Zolezzi ha dato della mafiosa alla dem Sabrina Alfonsi, titolare della delega ai Rifiuti nella giunta di Roma, chiamandola «assessore a Cosa Nostra».
Avvisaglie di un logoramento nei rapporti che spingono il Pd ad accelerare sulla riforma elettorale. Gli abboccamenti, limitati per adesso al livello parlamentare, dopo i ballottaggi si sono intensificati.
Coinvolgendo, ed è questa la novità, anche Fratelli d’Italia, fin qui i più ostili alla modifica del Rosatellum.
Il sistema che potrebbe convincere Giorgia Meloni a trattare è sì un sistema proporzionale, ma con robusto premio di maggioranza alla coalizione. Schema che potrebbe presentare un duplice vantaggio: consentirebbe di cancellare i collegi uninominali, da sempre fonte di feroci litigate fra alleati pur di accaparrarsi i migliori, e andrebbe nella direzione di garantire, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi ha perso.
«Per noi, questo è un punto imprescindibile», conferma Ignazio La Russa, ricordando come fu proprio lui, «cinque anni fa, a presentare un emendamento, purtroppo poi bocciato, per assegnare un premio di maggioranza alla coalizione che avesse raggiunto il 40%». Ma arrivare a un accordo – lo sa anche il Pd, che invece preferirebbe un premio al primo partito per non essere costretto in una coalizione forzata – non sarà facile.
«A me piacerebbe molto poter migliorare questa legge», conclude infatti La Russa, «ma credo che alla fine non se ne farà nulla perché con materie complesse come questa, si sa da dove cominci ma non dove finisci».
I dem sono tuttavia decisi ad andare in fondo. Se persino Romano Prodi, che a Metropolis si spinge a dire che «Tutto è meglio del Rosatellum, anche un proporzionale con preferenze che almeno dà un minimo di potere all’elettore. Ma ieri è stato categorico sul campo largo: «Con la scissione Di Maio-Conte non c’è più: c’è un campo senza recinti che va ridisegnato se questo è il massimo che si può ottenere», significa che è giunta l’ora di provarci sul serio. Aprendo la discussione in Aula per verificare chi ci sta.
(da la Repubblica)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
L’ATTRAZIONE FATALE TRA TASSISTI E POLITICI
«Uso i partiti come taxi – diceva Enrico Mattei – pago e scendo». Non era una
cosa tanto carina, ma così andavano allora le faccende del potere.
«Il taxi sono io!» rivendicò del resto svariati decenni dopo Denis Verdini rovesciando la prospettiva in un empito di spensierata sincerità autopromozionale: «Vuoi rimanere al potere? Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Matteo».
Quest’ ultimo non era il suo futuro genero sovranista, Salvini, ma il post-rottamatore, Renzi, del cui cuore l’ex grossista di carne di Campi di Bisenzio possedeva evidentemente le chiavi. Ma l’idea facilitatrice del taxi accompagnava così le immagini, i linguaggi e un po’ anche la spregiudicatezza della vita pubblica italiana.
Quanto poi a Berlusconi, punto di partenza delle corse verdiniane, occorre forse ricordare che la figura professionale di un taxista era significativamente compresa nel videoclip che illustrava, insieme a maestri, studenti, camerieri, pasticcieri (oltre alla giovanissima Francesca Pascale), l’indimenticabile brano Meno male che Silvio c’è .
Mentre per quanto riguarda il Giglio magico renziano il compito di accompagnare a destra e a manca il capo e Maria Elena Boschi era concretamente delegato alla cortese disponibilità del barbuto onorevole Francesco Bonifazi, perciò soprannominato Bonitaxi – e con questo si porrebbe fine al rimestio meta-linguistico sull’immaginario tassinaro.
Anche perché più saldi vincoli avevano legato, nello spettacolo, la politica a questo servizio eminentemente urbano e particolarmente capitolino. In questo senso molti (attempati) lettori ricorderanno l’accoppiata Sordi-Andreotti che nel 1983 promise vano lustro a un film intitolato appunto Il tassinaro.
Si tratta purtroppo di una delle più brutte e imbarazzanti pellicole realizzate da Sordi, grande attore, ma piccolissimo regista e qui anche infimo sceneggiatore. Insieme a una Pampanini eccessiva che si congedava con una parolaccia e a uno svogliatissimo Fellini diretto a Cinecittà, Sordi caricava a bordo il Divo; ma questi, inquadrato nello specchietto retrovisore, risultava a disagio dietro il faccione ammiccante di quell’altro mostro sacro.
Tra i due, oltretutto, una lunare conversazione su argomenti astrusi tipo il numero chiuso nelle università. Per gli amanti del brivido pubblico e privato, la collaborazione allietò senz’ altro il botteghino, ma dispiacque alla signora Andreotti che ebbe più di una ragione a considerarla una inutile buffonata.
Dopo di che, di lì a dieci anni, i veri tassinari, sempre più esasperati per il traffico, l’abusivismo e in via di accentuata sindacalizzazione, diedero parecchio filo da torcere alle amministrazioni di sinistra, prima Rutelli, poi maggiormente Veltroni.
Cominciarono scioperi bianchi, ululati di clacson, manifestazioni che comportavano anche temibili blocchi in zone cruciali, a piazza Venezia o alle pendici del Circo Massimo. In una di queste prove di forza, per dire il genius loci, si vide il leader della corporazione che si aggirava nella marmellata di lamiere vestito da centurione.
Quando nel 2008 la destra, con Alemanno, conquistò Roma i taxisti improvvisarono festosi caroselli e presentarono il conto. Ma non è che per loro le cose migliorarono troppo. Vedi, dopo le liberalizzazioni di Bersani e la comparsa di Uber.
Ed eccoci all’oggi. Non senza aver ricordato i barconi dei migranti, che l’improvvido Di Maio definì «taxi del mare», e la quantità di talk show che tuttora intasano la tv, «un’industria fondata sui buoni taxi», secondo Andrea Minuz. Quando in studio l’ex brigatista Etro esagerò, Massimo Giletti ritenne di congedarlo al grido: «Ti pago il taxi di tasca mia!».
(da “la Repubblica”)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
I DUE SONO STATI SEGUACI OTTUSI DEL VERBO CORRENTE CHE PREDICA INTOLLERANZA
I fratelli Marco e Gabriele Bianchi avranno lavorato sodo anni e anni. Ci vuole perseveranza per costruirsi addosso l’immagine standard dei truci spaccaossa. Solo quando hanno intuito che avrebbero pagato molto cara la loro «leggerezza» di aver ammazzato di botte un ragazzino inerme, ecco che si sono scoperti bravi figli di mamma.
Quando l’ombra dell’ergastolo è cominciata ad allungarsi su di loro, i due picchiatori di paese hanno cercato di cambiare pelle. Hanno capito che la loro narrazione epica, funzionale per indurre timore, li avrebbe portati a essere percepiti dalla collettività come mostri di spietatezza.
Ecco quindi il tentativo di ricostruirsi un’immagine in extremis con quella lettera alla madre di Willy, in cui scrivevano che, se avessero ucciso suo figlio, mai avrebbero avuto il coraggio di guardarla come guardano la loro mamma.
Certo, immaginiamo tutti che sicuramente ci sarà stata una mamma che stirava loro le camicie, a completare l’accurata iconografia con cui amavano rappresentarsi. Le pose marziali, i tatuaggi, i muscoli pompati, il cipiglio da duri e tutti i possibili espedienti per essere alla fine i primi tra gli sfigati, auto eletti al vertice della catena alimentare dei portatori di griffe
La mossa della catarsi mammona se la potevano anche risparmiare, non è servita a far cambiare di una virgola la presunzione pubblica della loro colpevolezza, anche la sentenza è arrivata che più dura non si può. Il qualunquismo da strada che oggi commenta quell’ergastolo non faticherà a fare la ola. Ci sarà persino chi andrà oltre; come degno epilogo di questa storia schifosa, dirà che i due fratelli si sarebbero meritati la pena di morte.
Purtroppo la vicenda non ispira commenti edificanti, ancora più improba è la fatica di cercare conforto nell’idea che si sia fatta giustizia. Tutto da subito è sembrato il più prevedibile esito di una limacciosa spietatezza, tollerata e fomentata. Un pensiero rasoterra che sta da troppo tempo inghiottendo, come una palude di sabbie mobili, quello che con grande fatica avevamo costruito lungo un impervio percorso di civilizzazione nazionale.
È tutta colpa dei media! Sicuramente è così. È anche la spiegazione che si sono data i due Bianchi alla lettura della sentenza in aula. Certo ,sono stati tv e giornalisti a rappresentarli come mostri, però solo questo pretendeva il loro accurato maquillage
Hanno fatto di tutto per assomigliare a quanto di più spocchioso e farlocco giganteggi nei luoghi canonici del fermento sub culturale.
Di cloni dei due bulli di Colleferro se ne possono trovare a bizzeffe, se ne vedono ovunque si celebri l’apoteosi del maschio vincitore, dal talent estremo alle storie su Instagram.
I fratelli Bianchi sembravano essere stati sfornati dalla catena di montaggio del modello più economico di pupazzume anabolizzato e arabescato, in loro era condensato tutto ciò che oggi incarna l’esempio vincente del machismo spavaldo da pugnal tra i denti e ali di gabbiano.
Oggi i due pagano l’imperdonabile zelo di aver portato fino alle estreme conseguenze un pensiero che conquista sempre più seguaci, è la falsa promessa che il malessere contemporaneo può essere sanato solo se si estirpa tutto ciò che sembra «politicamente corretto».
Sono stati seguaci ottusi del verbo corrente che predica intolleranza, hanno frantumato a pugni e calci l’esistenza del più fragile dei loro concittadini, senza nemmeno l’ombra di un motivo apparente. Hanno infierito a morte perché lo avranno considerato come un sacco per esercitare il loro perfetto stile di combattimento. Una lezione par fargli capire che loro erano i Bianchi, mentre lui invece era solo un nero.
(da la Stampa)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
“CI SONO PAESE CHE NON SI IMPEGNANO”
Dal Mozambico il capo dello Stato ha rilanciato un appello forte ai Paesi che
ancora non si stanno lavorando al contrasto del cambiamento climatico, per cui è necessario un «impegno sistemico» per garantire «una vita accettabile alle future generazioni»
«Abbiamo parlato della tragedia della Marmolada come elemento simbolico di quello che il cambio climatico se non governato sta producendo nel mondo» ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante l’incontro in Mozambico con l’omologo Filipe Jacinto Nyusi.
Netta la posizione del capo dello Stato davanti al disastro di domenica scorsa in relazione al cambiamento climatico, punto ormai non più procrastinabile nelle agende politiche internazionali.
Eppure, ha aggiunto Mattarella: «Ci sono Paesi che non si impegnano su questo fronte che riguarda tutti. Occorre richiamare tutti a assumere quegli impegni assunti nelle convenzioni internazionali ma anche assumere impegni ulteriori» nella lotta al cambiamento del clima. Ciò che è necessario è un «impegno sistemico» da parte di tutti, ha aggiunto il capo dello Stato, altrimenti «sarà difficile garantire una vita accettabile alle future generazioni su questa Terra».
Quello del cambiamento climatico è un problema che riguarda tutto il genere umano, per questo motivo «senza la collaborazione di tutti, non c’è speranza».
(da agenzie)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
STOCCOLMA TIENE IL PUNTO CON LA TURCHIA: “NON ESISTE UNA LISTA DI PERSONE DA ESTRADARE”
Non esiste una lista specifica di persone da estradare. Lo ha dichiarato in una conferenza stampa al quartier generale Nato di Bruxelles la ministra degli Esteri svedese Anna Linde, che ha parlato al fianco del collega finlandese Pekka Haavisto dopo la firma dei protocolli di accesso all’Alleanza.
Il riferimento è al memorandum trilaterale firmato con la Turchia in cambio del ritiro del veto sull’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza. Erdogan ha ottenuto che Helsinki e Stoccolma aumentino la «cooperazione» con Ankara «nella lotta contro il terrorismo», che per la Turchia significa poter perseguire penalmente i membri del movimento politico-militare curdo del PKK, molti dei quali considerati rifugiati politici dai due Paesi.
Erdogan ha anche preteso che, in cambio del sì, Svezia e Finlandia si astengano dal fornire sostegno alle Unità di Protezione Popolare (Ypg) e al Partito dell’Unione Democratica (Pyd) curdi.
«Le autorità preposte all’estradizione ricevono le richieste e ci saranno processi secondo le procedure», ha dichiarato Linde, negando qualsiasi semplificazione della pratica.
«Poi sarà l’Alta corte a prendere la decisione. Non ci possono essere vie legali aggiuntive, rispetteremo la legge svedese e il diritto internazionale».
(da agenzie)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
INTERVISTA A TETIANA KHARKO, LA SORELLA DEL SERGENTE DEL BATTAGLIONA AZOV SERGEI VOLYNA: “ERANO GRIGI COME SE NON FOSSERO APPARTENUTI A QUESTO MONDO. SEMBRAVANO DEI FANTASMI. CREDO SIANO STATI TRATTATI MOLTO MALE”
Sa che è vivo, «di sicuro è ferito». Vedere i suoi compagni arrivare mutilati, al
più grande scambio di prigionieri della guerra, l’ha fatta piombare in un incubo: quello di non poter riabbracciare mai più suo fratello, il sergente Sergei Volyna.
Tetiana Kharko è una delle due persone che hanno assistito alla liberazione dei difensori dell’Azovstal: 144 per parte ucraina, lo stesso numero per parte russa. È la rappresentante dell’Associazione dei parenti dei combattenti di Mariupol. Li ha accolti a Zaporizhzha, pochi minuti dopo la scarcerazione, la scorsa settimana.
Ma dal 20 maggio, questa 30enne vive settimane di angoscia, nel silenzio totale che avvolge il destino del comandante della 36a Brigata dei marines, forse l’eroe più umanizzato della lunga e dolorosissima battaglia dell’acciaieria.
Quel volto con la barba, suo fratello, che tutto il mondo ha imparato a conoscere nei tanti appelli video dai social, in cui chiedeva aiuto. Per i comandanti Azov, i russi potrebbero prevedere la pena di morte, e quella scure potrebbe capitare anche al sergente Volyna. La stessa sorte la teme Katerina, la moglie del comandante del Reggimento Denis Prokopenko.
Signora Kharko, ci racconta lo scambio dei prigionieri?
«Quasi ogni soldato che era dentro l’Azovstal era ferito. Loro chiamavano “feriti” quelli che non riuscivano ad alzarsi e non potevano prendere il fucile. Gli altri continuavano a combattere. Delle 144 persone liberate, 95 erano combattenti Azov e il 90 per cento di loro è arrivato mutilato: senza gambe, braccia, tanti di loro sono sordi o hanno perso la vista. Io ero presente all’accoglienza a Zaporizhzha, a mezz’ora dal luogo della trattativa, un lungo ponte su cui hanno scambiati i prigionieri. È stato molto pesante».
Come sono stati trasportati?
«Sono arrivati sulle ambulanze, una per ciascun prigioniero liberato. Allo scambio era presente solo la Croce Rossa ucraina e i rappresentanti delle due parti. Li hanno liberati nella zona grigia, ma non posso dire il nome della località per ragioni di sicurezza. Abbiamo avuto dieci minuti per salutarli. Non abbiamo chiesto loro se erano stati torturati, piangevamo tutti, anche se loro provavano a trattenere le lacrime».
Erano dimagriti, segnati? Quali sono state le prime frasi che hanno pronunciato?
«È molto difficile trovare le parole per raccontare cosa ho visto. Forse non le hanno ancora inventate. Oltre alla menomazione fisica, erano grigi come se non fossero appartenuti a questo mondo. Sembravano dei fantasmi. Credo siano stati trattati molto male, nei giorni di permanenza in prigione. Era doloroso guardarli».
Ha parlato con loro?
«Sì. Uno mi ha riconosciuto e ha detto che mio fratello gli aveva salvato la vita. Poi è venuto fuori che le amputazioni risalgono al periodo dentro l’acciaieria. Ai feriti tagliavano gli arti senza anestesia, questo ci hanno raccontato».
Quand’è l’ultima volta che ha sentito suo fratello, il sergente Volyna?
«Il 20 maggio. Ci ha informato dell’evacuazione. Ci ha detto che da quel momento non avrebbe più comunicato perché si consegnavano ai russi».
Comunicavate, mentre lui era nelle viscere dell’Azovstal?
«Scriveva più che altro a sua moglie. Per alcune settimane non si faceva vivo. Scriveva sempre le stesse parole: “normale”, oppure “sono intero”. Niente di più. Ma a noi bastava».
Quanti prigionieri dell’Azovstal mancano all’appello? Le trattative sono in piedi?
«Il presidente Zelensky aveva annunciato che erano 2000-2500 i soldati che si erano consegnati. Faremo di tutto per liberarli, le trattative sono appese a un filo, ma io sono fiduciosa che mio fratello tornerà. I russi stanno violando ogni giorno la Convenzione di Ginevra, non ci permettono di comunicare con loro. Non sappiamo neppure dove siano. Dicono a Olenivka, Rostov sul Don, Lufortovo, ma non abbiamo certezze. Non possono ucciderli o non rimandarli a casa. Però prego, perché ho molta paura».
Chi era il sergente Volyna?
«Un viso sempre sorridente. Un padre e un marito modello. Aveva studiato all’Accademia nazionale delle forze di terra Hetman Petro Sahaidachnyi, era andato in Cimea, poi era tornato subito per difendere il Donbass, nel 2014. Prima della guerra, da settimane era a Mariupol. Viaggiava tanto, faceva sei mesi in Donbass e sei mesi a casa a Kiev. Sergei ama suo figlio, chissà quanto soffre a non vederlo».
Se ci fossero pressioni per trattare, voi di Azov accettereste di perdere il Donbass, che tanto avete difeso?
«Vi faccio un esempio per capire cosa ci sta capitando: questa guerra, per noi, è come se nella vostra casa entrasse una persona e prendesse una stanza e dicesse “è mia, se non me la dai uccido la tua famiglia”. È una cosa assurda, ingiusta, inaccettabile. Per come la vedo io, la situazione si potrebbe definire con un referendum, dove la gente potesse decidere se vuole restare nella parte ucraina o diventare Russia. Ma senza armi, senza pressione».
(da La Stampa)
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Luglio 5th, 2022 Riccardo Fucile
LA FEDERAZIONE DI MILANO LO CACCIA PER DISACCORDI SULLA LINEA POLITICA E LUI FA ESPELLERE LORO
Marco Rizzo espulso dal Partito Comunista? Non proprio. O meglio: la Federazione di Milano ha in effetti annunciato su Facebook l’espulsione del segretario e di tutto il gruppo dirigente.
«Noi ci prendiamo la responsabilità politica di questa decisione, consci di essere in minoranza in un CC svuotato di tutte le sue funzioni e prerogative, ma in enorme maggioranza nel corpo sociale del nostro paese. Un corpo sociale che può e deve essere recuperato alla lotta per il socialismo, senza scorciatoie opportunistiche che conosciamo bene da decenni», hanno scritto gli ex “compagni” di Rizzo.
Ma qualche ora dopo è arrivata la risposta del comitato centrale del partito. Che ha espulso a sua volta chi aveva provato ad espellere Rizzo.
Le “zecche” e il destriero
La risposta del comitato centrale è stata affidata a Canzio Visentin, presidente e rappresentante legale. Che ci è andato giù durissimo: «In questo mondo dei social basta impossessarsi della password di Facebook di una federazione del Partito e decidere che il segretario nazionale è espulso. Di questi bontemponi si sta occupando la Commissione Centrale di garanzia e, per rimpinzare le casse, la tesoreria e gli avvocati. Il segretario generale Marco Rizzo sta bene e gode della fiducia (certificata col voto ad ampia maggioranza – 7 voti contrari ed 1 astenuto – del Comitato Centrale del 25 Giugno) di tutto il Partito, che approva la scelta di unire le forze reali del dissenso in questo Paese». E poco importa che il post sia intitolato “Zecche sulla criniera di un destriero”, utilizzando una terminologia cara all’estrema destra e al fascismo.
Dietro la querelle che rischia di finire in tribunale c’è un aperto dissenso politico. La Federazione di Milano guidata da Luca Ricaldone contesta la svolta populista del segretario da tempo. Lui da qualche tempo ha deciso di adottare le parole d’ordine della contestazione: No Green Pass , No vax e così via.
L’alleanza Pci-Pdf
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’annuncio dell’accordo elettorale con il Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi. Valido solo in Sardegna, ma abbastanza per far saltare i nervi di molti degli iscritti. «Noi stiamo costruendo una forza di vero dissenso e solo il 12-13% nel partito è contrario alle scelte fatte», ha risposto Rizzo al Corriere.
«Il 18 giugno abbiamo organizzato manifestazioni contro la guerra e contro Draghi in 22 città (definite un flop dagli avversari, ndr), così come da indicazione dell’Ufficio politico che è l’organo esecutivo. Il Comitato centrale ha poi deciso in maggioranza per le alleanze, che sono in corso. Milano è una minoranza».
Ora la grana può essere risolta con l’espulsione della Federazione dal partito. Oppure con le dimissioni e la nascita di un nuovo Partito Comunista (l’ennesimo). Con una postilla. Se quarant’anni fa la Federazione di Milano del Partito Comunista Italiano avesse chiesto l’espulsione del segretario nazionale la notizia sarebbe stata l’apertura di tutti i giornali, Unità compresa. Oggi, meno.
(da agenzie)
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