Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
NESSUNO DI LORO HA COLLABORATO ALLA RICOSTRUZIONE DEI CASI DOCUMENTATI DAI FILMATI DI FANPAGE… RIBADIAMO: BASTA RADUNI, L’ITALIA NON HA BISOGNO DI MANIFESTAZIONI FUORI CONTROLLO
Quell’unica denuncia alle forze dell’Ordine poteva avere per gli alpini un
valore simbolico enorme: avrebbero potuto appoggiarla, supportando la ragazza che aveva denunciato e aiutando lei e le forze dell’Ordine coinvolte nelle indagini a rintracciare gli alpini responsabili. Invece niente.
Appartenenza di corpo, branco, omertà: è questo che ha prevalso nei vertici dell’Associazione nazionale degli alpini, che non ha collaborato fattivamente alla ricostruzione dei casi, neanche di quello sotto indagine, arrivando così a farlo archiviare per l’impossibilità di rintracciare gli abusanti.
Facciamo un passo indietro. La notizia la sapete: hanno archiviato l’unica denuncia per molestie dopo il raduno degli alpini a Rimini. L’hanno archiviata perché le indagini non sono state in grado di identificare i colpevoli, cioè di dare loro un volto.
E per colpa di indagini che non sono risultate efficaci chi oggi si prende la colpa è la vittima, cioè l’unica donna che aveva formalizzato la sua denuncia alle forze dell’ordine, sperando fino all’ultimo che non fosse vero quello che in molti già sapevano: denunciare molestie e violenze sessuali, e ottenere giustizia, è difficilissimo. Il che risponde benissimo anche alla domanda: “Perché una sola denuncia formalizzata alle forze dell’Ordine?”
Perché come è accaduto anche in questo caso si viene presi di mira prima, banalizzando la violenza. Poi durante, come è accaduto, non credendo alle parole della ragazza. E poi anche alla fine, quando le indagini come in questo caso non riescono a dare un nome e un cognome al molestatore, la colpa è sempre – da troppi – attribuita alla vittima. Come se si fosse autopalpata, o insultata da sola, oppure le mani sotto la gonna infilate all’improvviso fossero state le sue.
Colpa della donna molestata, insomma, se il responsabile non si è trovato. È questo il ragionamento perverso degli amici dei molestatori. Evidentemente durante l’abuso la donna avrebbe dovuto chiedere all’abusante nome e cognome, e non averlo fatto è una sua colpa (mood ironico ma non c’è niente da ridere).
Come se un ladro ti entrasse in casa, tu denunciassi, le forze dell’ordine non trovassero il ladro e allora la colpa diventasse automaticamente di quello che si è trovato la casa svaligiata. Comprendete l’assurdità della situazione, vero?
In questo caso, se possibile, è ancora peggio perché ha vinto lo spirito di corpo militare, che significa silenzio e si traduce con la parola complicità.
In particolare: a fronte di centinaia di racconti e denunce pubbliche di quanto accaduto durante il ritrovo degli alpini a Rimini – moltissime le ragazzine anche minorenni che hanno raccontato di aver subito abusi e violenze non soltanto verbali – gli alpini nella loro interezza non sono stati in grado di trovare e buttare fuori dal loro Corpo o dall’Associazione nazionale uno soltanto dei loro aderenti o simpatizzanti.
O non sono stati in grado o semplicemente non hanno voluto. Ma è davvero possibile che non abbiano visto quello che tutti hanno visto, raccontato e anche documentato in video?
Io in quelle sere di bisboccia per gli alpini, non avevo occhiali a raggi X o super poteri, e come ho visto io hanno visto tutti coloro che erano per le strade in quei giorni di “ritrovo nazionale”. E
se proprio le molestie qualcuno non le avesse viste, foderato di prosciutto nelle orecchie e bende sugli occhi, ci sono comunque i video e le denunce pubbliche a cui chiunque ha potuto fare riferimento, per rendersi conto di quello che è accaduto e accade sistematicamente durante ogni loro ritrovo nazionale.
Per questo gli alpini oggi (come ieri) dovrebbero scusarsi: per aver permesso, anche in questo raduno, che simpatizzanti vari e variegati importunassero, molestassero e agissero violentemente contro donne e ragazze, anche minorenni, che semplicemente passeggiavano per strada o si recavano dal tabaccaio.
E dovrebbero chiedere perdono in ginocchio alle femministe, e in generale a tutte le persone di buona volontà che hanno appoggiato la richiesta di chiarimenti da parte dei vertici del Corpo degli alpini, perché aver sviato è una colpa, e aver chiamato delle molestie “eventuali atti di maleducazione” è una complicità non emendabile.
Eppure sarebbe stato così semplice prendere subito le distanze.
Sarebbe stato così semplice affermare a gran voce che quella gentaglia molestante non aveva niente a che fare con lo spirito degli alpini e con il Corpo stesso. Invece no, anche dai vertici hanno scelto il silenzio, fino ad arrivare oggi all’archiviazione perché “non è stato possibile individuare le generalità dei responsabili”.
Almeno, da oggi, non chiedeteci più di sorridere quando vediamo un cappello da alpino.
Perché le generalizzazioni ci fanno orrore, però questa se la sono cercata con il lanternino, difendendo – per mesi – atteggiamenti violenti e intollerabili, invece di aiutare le forze dell’Ordine nelle indagini.
La notizia è che ci sono riusciti: l’unica indagine aperta è stata archiviata perché non sono riusciti a trovare gli abusanti; il silenzio ha pagato, ma i video girati resteranno a memoria e traccia: nessuno ha più voglia di tacere.
(da Fanpage)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO ISTAT DIMOSTRA CHE LE BUFALE CHE RACCONTANO IL TV NON SONO SUPPORTATE DAI FATTI
Il dibattito sul reddito di cittadinanza e sul lavoro sottopagato in questo Paese è surreale. Dobbiamo partire da una premessa: le analisi non si fanno con le parole degli imprenditori da salotto, che popolano le trasmissioni televisive costruite sempre con lo stesso format, ma con i numeri.
I dati, precisi e puntuali, non mentono e soprattutto delineano un fenomeno nel suo complesso.
Perciò il rapporto annuale dell’Istat è imprescindibile in questo discorso: perché permette – se ce ne fosse bisogno – di scalzare definitivamente la narrazione tossica che viene portata avanti a reti quasi unificate su questi temi.
Il reddito di cittadinanza serve a contrastare la povertà, e su questo non ha fallito. Secondo il rapporto dell’Istituto di statistica nel 2020 ha evitato a un milione di persone – o 500mila famiglie – di trovarsi in condizione di povertà assoluta.
L’intensità della povertà, altrimenti, sarebbe salita di dieci punti percentuali. Insomma, parliamo di fatti. Quando si chiede di abolire il reddito di cittadinanza e si fa una lotta feroce alla misura, bisogna ricordare in primis questo: è un aiuto per chi non ce la fa, prima che uno strumento per sostenere le politiche attive del lavoro.
Un altro punto trattato dall’Istat riguarda le retribuzioni, su cui difficilmente possono esserci ancora dubbi: quattro milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno di 12mila euro l’anno. Sono quasi uno su tre.
Quasi un milione e mezzo percepisce meno di 8,41 euro l’ora, considerata la soglia della bassa retribuzione. Uno su dieci. Qualora non bastassero i report degli scorsi mesi, che segnalano l’Italia come uno dei Paesi europei in cui i salari sono più bassi.
Davanti a questi numeri non c’è molto da discutere. Eppure si continuano a costruire contraddittori improponibili nel dibattito pubblico.
Il format televisivo è sempre lo stesso: imprenditore collegato che si lamenta che ha messo l’annuncio ma non risponde nessuno per colpa del reddito di cittadinanza, politico che inveisce contro la misura senza riuscire a mettere in fila quattro dati, percettore di reddito – collegato praticamente sempre dalla Sicilia, perché il Sud che vive di sussidi funziona – che viene mangiato vivo dagli altri ospiti senza riuscire neanche a spiegare la sua posizione.
La posizione di una persona che mette la faccia per dire: vorrei lavorare, ma non trovo una sistemazione dignitosa e sono costretto a far vivere così la mia famiglia. E non è mica facile.
Ogni volta che viene chiesto agli imprenditori perché non cerchino lavoratori al centro per l’impiego, che serve a far incrociare domanda e offerta di lavoro – e soprattutto obbligherebbe i percettori ad accettare le proposte, pena la perdita del sostegno – il discorso viene sviato.
I centri per l’impiego non funzionano e sono sempre chiusi. E i politici che se ne sarebbero dovuti occupare? Dicono che la colpa è del reddito di cittadinanza – e non loro che a differenza di altri Paesi non hanno mai investito, per decenni, sulle politiche attive del lavoro – perché da quando c’è gli imprenditori si lamentano che non trovano personale.
Ma cosa conferma questa correlazione? Nulla, nessun tipo di dato se non l’esperienza degli imprenditori da salotto. Il rapporto causa-effetto non è verificato, ma solo millantato.
Per citare l’esempio cardine dell’imprenditore di turno, infine, le assunzioni di lavoratori stagionali sono maggiori rispetto al periodo in cui non c’era reddito di cittadinanza.
Nel 2018 gli stagionali assunti sono stati 660.585, nel 2019 sono stati 759.094, nel 2020 sono stati 656.745 (era la prima estate della pandemia di Covid), nel 2021 sono stati 920.685.
Lo scorso anno – quando già i primi Alessandro Borghese parlavano di generazione che non vuole sporcarsi le mani – venivano assunti centinaia di migliaia di stagionali in più rispetto a quando il reddito non c’era.
E nel 2022 il dato degli stagionali è fermo a marzo, ma al momento è più che doppio rispetto all’anno scorso.
Perciò occorre ripensare al lavoro in Italia, ai salari, alla dignità.
Ma soprattutto bisogna smetterla di raccontare stupidaggini o esperienze personali che – per carità – possono anche essere accadute, ma aiutano solo a puntare il dito contro chi sta peggio.
Qui non si tratta più di un dibattito ideologico su una misura che ha i suoi difetti e che potrebbe essere migliorata, ma di capire come rendere strutturale una vita in condizioni decenti.
La politica si svegli, perché i milioni di lavoratori poveri sono arrivati alla fame e non bastano il reddito di cittadinanza e il bonus 200 euro. E vengono pure ridicolizzati e presi in giro in televisione dagli imprenditori da salotto, nonostante tutto quello che già sono costretti a subire.
(da Fanpage)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
CERTO: SE NON CHIUDO A DOPPIA MANDATA LA PORTA DI CASA STO ESORTANDO I LADRI A SVALIGIARMELA…CI SAREBBE IL PICCOLO PARTICOLARE DEI PANTALONI DI LEI CON LA ZIP STRAPPATA, MA CHE VOLETE CHE SIA
Un ragazzo ci prova con una ragazza baciata anni prima, lei però si tira
indietro con il classico «restiamo amici».
Entrano in un locale del centro, sbevazzano un po’ e, quando lei va in bagno, ci si infila anche lui. Il resto lo lascio alla vostra immaginazione. Invece la sentenza che ha assolto il ragazzo, già condannato in primo grado per violenza sessuale, va oltre ogni immaginazione.
Secondo la quarta sezione penale della Corte d’Appello di Torino, presieduta da una giudice, «non si può escludere che la ragazza abbia dato speranze all’imputato, lasciando la porta socchiusa: un invito a osare».
Eh, certo: se non chiudo a doppia mandata la porta di casa sto esortando i ladri a svaligiarmela. Anche perché quell’invito la ragazza «non lo seppe gestire, essendo un po’ sbronza».
Ora è tutto chiaro. Prima la ragazza ha attratto l’ingenuo pischello nel bagno delle donne e poi, ormai brilla, gli è saltata addosso. E poco importa che abbia urlato: «Cosa stai facendo? Non voglio!».
Se ha lasciato la porta socchiusa, le sue parole erano un invito in codice. Ci sarebbe il piccolo particolare dei pantaloni di lei con la zip strappata, ma i giudici hanno una spiegazione anche per questo. «Nulla può escludere che, sull’esaltazione del momento, la cerniera di modesta qualità si sia deteriorata senza forzature».
In effetti nulla può escluderlo. Così come nulla può escludere – lo scrivo sull’esaltazione del momento – che di modesta qualità, in questa vicenda giudiziaria, non ci sia soltanto la cerniera.
(da il Corriere della Sera)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
I GRILLINI SONO SPACCATI, TRA CHI VUOLE RIMANERE IN MAGGIORANZA PER NON PERDERE POLTRONA E VITALIZIO, E CHI VUOLE USCIRE DAL GOVERNO PER TORNARE A STREPITARE DALL’OPPOSIZIONE… L’ELEFANTE NELLA STANZA È DI BATTISTA
La giornata dei Cinque Stelle corre ancora una volta sul filo della contraddizione. E allora sì alla fiducia alla Camera sul Dl Aiuti mentre i contiani alzano i toni contro il governo. Da un lato ci sono i fatti, con il M5s che non mette a rischio Draghi.
Dall’altro le parole, gli avvertimenti bellicosi. «Votiamo la fiducia al governo, noi vogliamo collaborare col governo. Il voto finale al testo alla Camera non lo possiamo condividere. E al Senato vedremo», parte Giuseppe Conte. A Montecitorio, dunque, i grillini si asterranno sul voto del testo. Anche se aumenta il numero dei deputati che non sono convinti di questa scelta.
«Non tutti ce la sentiamo di uscire dall’Aula, molti di noi il testo vorrebbero votarlo, soprattutto perché si tratta di un provvedimento che contiene 23 miliardi di euro di aiuti per famiglie e imprese», confessa un pentastellato in Transatlantico. Alla Camera i governisti sono più forti e rappresentano circa metà del gruppo, ma probabilmente alla fine non ci saranno fratture sull’Aventino sul Dl Aiuti.
I pericoli per la tenuta della maggioranza possono arrivare da Palazzo Madama, come fatto notare minacciosamente da Conte. I senatori sono in curva, modalità torcida sudamericana. Ed è fondata l’ipotesi di un non voto sul decreto del governo che stoppa le deroghe al Superbonus e dà il via libera al termovalorizzatore a Roma.
«Solo che al Senato l’astensione equivale al voto contrario», sottolineano le colombe di Montecitorio. E c’è dell’altro. L’avvocato di Volturara Appula con il suo «vedremo» fa la faccia feroce, ma l’esibizione di forza nasconde una debolezza. Ormai gli oltranzisti sono più realisti del re. Tra i ribelli, infatti, cominciano a spuntare le prime critiche all’attendismo del leader.
L’istantanea è quella di un Conte che fatica a controllare i gruppi in entrambe le camere. Tra i mille veleni che esalano da tutte le parti, c’è da registrare una teoria secondo cui l’ex premier, in realtà, non vorrebbe uscire anzitempo dal governo. E il motivo è legato ad Alessandro Di Battista.
«Se il M5s andasse all’opposizione tornerebbe subito Di Battista e Conte ha paura di essere messo in ombra», spifferano i maligni. Rischierebbero di essere eclissati dal ciclone Dibba anche i cinque vicepresidenti, a partire proprio dai più barricaderi, Riccardo Ricciardi e Paola Taverna.
Il giurista pugliese teme che l’ex deputato – spinto dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio – stia preparando il terreno per prendersi il Movimento, prima o dopo le prossime elezioni politiche. Quel che è certo è che un’uscita dal governo accelererebbe la «dibattistizzazione» del M5s.
§ntanto è iniziato un derby tra i due dirigenti stellati più inclini allo strappo. Negli ultimi giorni è molto in vista Ricciardi, che sta cercando di tessere la sua tela facendo scouting tra i parlamentari indecisi, così da convincere Conte a mollare Draghi.
E, a sorpresa, in questa fase di tensione con Palazzo Chigi, il deputato toscano è diventato il consigliere più ascoltato dal presidente del M5s. Così Ricciardi si è attirato le antipatie di Taverna, che non ci sta a rinunciare al ruolo di pasionaria e infatti si sta dando da fare per mostrarsi più ortodossa del suo competitor.
Restano in ombra Michele Gubitosa e Mario Turco, decisi a seguire ogni decisione di Conte. Il problema è che l’avvocato prende tempo, decide di non decidere. E su questo sono d’accordo sia i governisti sia gli oltranzisti.
(da il Giornale)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
NONOSTANTE QUESTO, OLTRE AI LIBERALDEMOCRATICI, IN POCHI A WESTMINSTER PENSANO CHE LONDRA SIA PRONTA A RIENTRARE NELL’UE
Secondo un sondaggio britannico, la maggior parte delle persone pensa che
la Brexit sia andata male e Johnson ha lasciato dietro di sé una serie di problemi per il nuovo premier. Il mantra fino alla triste fine è stato che la Brexit era stata “fatta”.
L’apparente doppio miracolo di Boris Johnson è stato quello di superare l’impasse parlamentare che ha tormentato il suo predecessore Theresa May nel tentativo di approvare l’accordo di recesso e di negoziare con successo un accordo commerciale con l’UE nei 10 mesi successivi.
“Questo accordo significa una nuova stabilità e una nuova certezza in quella che a volte è stata una relazione faticosa e difficile”, aveva dichiarato Johnson alla vigilia di Natale 2020, mentre l’inchiostro si asciugava sul nuovo accordo commerciale – scrive il Guardian.
Johnson ha certamente compiuto un’impresa politica unendo il suo partito dopo aver rimosso la May dal suo incarico e formando poi un’improbabile alleanza elettorale in tutto il Paese – nonostante abbia ingannato la Regina, secondo il parere di un tribunale scozzese, mentre cercava di minacciare i parlamentari recalcitranti con un’uscita senza accordo nei giorni bui del 2019.
Ma i recenti sondaggi indicano che il sostegno alla Brexit nel Regno Unito è crollato e i critici del primo ministro uscente potrebbero oggi sostenere con sicurezza che Johnson si lascia alle spalle un mare di problemi piuttosto che la “certezza e la stabilità” che sosteneva di aver garantito 18 mesi fa.
Per tutto il tempo in cui si è parlato di un grande accordo nel 2019, nelle ultime settimane il governo ha minacciato di strappare unilateralmente un accordo faticosamente conquistato e cruciale sugli accordi post-Brexit per l’Irlanda del Nord se l’UE non accetta una revisione fondamentale – nonostante il manifesto conservatore su cui Johnson ha formato il suo governo si impegnasse a non rinegoziare.
Il problema che Johnson ha riscontrato è che l’accordo di recesso ha tracciato – come la stessa valutazione d’impatto del governo aveva detto all’epoca, insieme a tutti coloro che avevano compreso l’accordo – un confine normativo lungo il Mare d’Irlanda, rendendo più costose le importazioni dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord.
La May, del resto, aveva respinto l’approccio adottato da Johnson soprattutto per motivi costituzionali, affermando alla Camera dei Comuni che nessun primo ministro britannico poteva prendere in considerazione l’idea di tracciare confini tra le quattro nazioni del Regno Unito.
Il Partito Unionista Democratico era d’accordo allora con questa posizione, come lo è oggi. Per questo motivo si rifiuta di permettere alle istituzioni di condivisione del potere di funzionare in Irlanda del Nord.
Nel frattempo, l’accordo commerciale ha fatto gridare al tradimento le comunità di pescatori britanniche, scontente dei loro miseri guadagni e di dover affrontare costose barriere per esportare ciò che hanno pescato. Gli accordi sono allo stesso tempo causa di continui attriti con il governo francese, in un momento in cui la cooperazione in materia di sicurezza tra le due grandi bestie della difesa europea non potrebbe essere più importante.
Secondo uno studio della London School of Economics, il numero di relazioni commerciali che la Gran Bretagna intrattiene con l’Ue ha subito un “forte calo”, poiché le piccole imprese sono rimaste impantanate nella nuova burocrazia.
L’Office for Budget Responsibility, l’organo di controllo della spesa pubblica, ha dichiarato all’inizio dell’anno che la Brexit “potrebbe essere stata un fattore” nel ritardo del Regno Unito rispetto a tutte le altre economie del G7 nella sua ripresa post-pandemia.
Ma la cosa più preoccupante per coloro che proteggono l’eredità della Brexit di Johnson è il cambiamento dell’opinione pubblica. L’ultimo sondaggio di YouGov ha rilevato che ogni regione del Regno Unito ritiene che la Brexit sia stata un errore, con il 55% degli intervistati che ritiene che la Brexit sia andata male rispetto al 33% che sostiene che sia andata bene.
Pochi a Westminster, oltre ai liberaldemocratici, suggeriscono che il Regno Unito sia pronto a rientrare nell’UE. Ma il modo stesso in cui la Brexit è stata “fatta” sembra averla resa fragile, come suggeriscono i sondaggi.
Il rapporto del Regno Unito con i 27 Stati membri dell’UE rimane una questione ostinatamente aperta. Per coloro che credono che il destino della Gran Bretagna rimanga quello di un Paese libero al di fuori del mercato unico e dell’unione doganale dell’UE, c’è poca fiducia che qualcosa su questo fronte sia stato risolto.
La ricompensa per questa autonomia dalle norme e dai regolamenti dell’UE doveva essere una serie di accordi commerciali in tutto il mondo che offrissero un maggiore accesso alle merci britanniche nei mercati emergenti, insieme a un falò di regolamenti nella City di Londra che l’avrebbero resa più competitiva.
Ma la mancanza di progressi su questi obiettivi è stata tale che Jacob Rees-Mogg, il leader dei Comuni, si è sentito costretto, durante la prolungata lotta di Johnson per rimanere a Downing Street, ad avvertire i deputati Tory che stavano pensando di votare la sfiducia che la Brexit avrebbe potuto essere ancora ostacolata.
Forse più significativamente, la mancanza di un dividendo Brexit dal 23 giugno 2016 ha portato altri simpatizzanti della Brexit a riconsiderare se gli accordi raggiunti siano davvero ottimali. L’eurodeputato conservatore Dan Hannan ha recentemente pensato che il mantenimento dell’adesione al mercato unico avrebbe potuto essere un’opzione migliore.
Coloro che hanno lavorato al fianco di Johnson al governo, e in opposizione a lui al tavolo dei negoziati, indicano che la causa di questo pasticcio di questioni non è solo la sostanza di ciò che è stato negoziato, ma che è stato fatto con un ottimismo fuori luogo.
Georg Riekeles, consigliere diplomatico del capo negoziatore dell’UE, Michel Barnier, durante l’accordo di ritiro e i negoziati commerciali, ha affermato che Johnson non è mai apparso attento ai dettagli, ma la sua decisione di sconfessare gli accordi per l’Irlanda del Nord così presto dopo la firma dell’accordo ha stupito anche i funzionari più intransigenti di Bruxelles.
“Ha certamente spinto i limiti di ciò che ci si può aspettare da un primo ministro britannico molto, molto lontano”, ha detto Riekeles. “Ha negoziato, firmato un accordo internazionale e fatto ratificare dalla Camera dei Comuni un giorno, per poi rimangiarselo il giorno dopo”.
Riekeles ha aggiunto: “Se l’obiettivo era quello di soddisfare una parte importante del partito conservatore e di spuntare caselle in termini di retorica sulla Brexit, allora ovviamente l’hanno ottenuto. Ma non se l’obiettivo era quello di avere le migliori relazioni possibili con l’UE e di portare a termine la Brexit – di portarla a termine e di iniziare un rapporto costruttivo in cui si lavora insieme in modo vicino, per affrontare problemi comuni e globali. Invece, le relazioni sono molto complicate e il costo di ciò è maggiore per il Regno Unito che per l’UE”.
Nel suo libro, Chief of Staff: Notes from Downing Street, l’ex deputato Tory Gavin Barwell, che ha guidato l’ufficio della May durante i tortuosi negoziati paralleli con l’UE e il gabinetto ammutinato, ha osservato che Johnson è stato il meno disposto a scendere a compromessi tra tutti i Brexiters e si è rifiutato di riconoscere le scelte difficili che dovevano essere fatte sulle circostanze particolari dell’Irlanda del Nord, descrivendo il problema come “la coda che scodinzola al cane”.
Barwell ha dichiarato al Guardian che Johnson ha conquistato i parlamentari con la sua soluzione per l’Irlanda del Nord grazie alla “sfacciataggine e alla disperazione delle persone in parlamento di trovare una via d’uscita dallo stallo”, ma che sarebbe “sorpreso” se il tipo di relazione progettata da Johnson con l’UE potesse durare.
“Dal punto di vista dei Brexiter, la cosa che dovrebbe preoccuparli è che questo accordo non ha risolto la discussione in questo Paese sul tipo di relazione con l’Europa che vogliamo”, ha detto Barwell. “Se sei un Brexiter, dovresti cercare di fare qualcosa che sia accettato da una percentuale sufficiente della popolazione, in modo che non ci sia la possibilità di riaprire la questione. Sarei sorpreso se rientrassimo nel medio termine, ma sarei altrettanto sorpreso se un futuro governo non negoziasse un accordo più vicino”.
La Brexit, ha suggerito, è tutt’altro che conclusa.
(da The Guardian)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
MANCA LA MESSA IN SICUREZZA DELL’INFRASTUTTURA… IL RISCHIO CAUSE
Con un decreto di sette pagine il consiglio dei ministri ha revocato le concessioni di due autostrade, la A24 e la A25 alla Società dei Parchi Spa della famiglia Toto.
Il governo lamenta un «grave inadempimento» nella messa in sicurezza. Mentre i Toto a maggio 2022 avevano chiesto la cessazione della concessione e un indennizzo miliardario.
Il decreto dispone l’immediato subentro di Anas nella gestione della Strada dei Parchi. E contempla «misure per la regolazione dei rapporti con il concessionario decaduto in relazione all’indennizzo spettante in base alla normativa vigente, fatto salvo il diritto al di risarcimento dei danni a favore del Mims».
Ma perché il governo Draghi ha revocato al gruppo Toto la concessione?
La lite tra i Toto e Draghi
Alla fine del maggio scorso Il Sole 24 Ore aveva fatto sapere che i Toto avevano scritto al ministero dell’Economia e a quello delle Infrastrutture e dei Trasporti. Reclamando la revoca anticipata dell’affidamento sia dell’A24 che dell’A25.
La società chiedeva anche un indennizzo di 2,4 miliardi di euro. Che avrebbero dovuto risarcire «la mancata remunerazione degli investimenti, i mancati incrementi tariffari, i mancati introiti futuri». La concessione avrebbe visto la sua scadenza naturale nel 2030.
Il problema, ricorda oggi Repubblica, è che da 10 anni la legge 228 del 2012 impone la messa in sicurezza anti-sismica delle autostrade italiane. Ma affinché i lavori partano è necessaria l’approvazione di un Piano Economico e Finanziario (Pef) per entrambe le tratte, che arrivano a 280 chilometri totali. Il 5 maggio 2022 il comitato Cipess del governo non ha dato il parere favorevole al piano proposto da un commissario ad acta. Perché annunciava aumenti tariffari del 15,81 all’anno fino al 2030.
Pochi giorni dopo la famiglia Toto ha deciso di mollare la gestione dell’autostrada. Ma il governo Draghi ha giocato d’anticipo, revocando la concessione prima dell’approdo della vicenda nei tribunali. Il provvedimento di risoluzione della convenzione del 18 novembre 2009, sottoscritta tra Anas S.p.A e Strada dei Parchi S.p.A., tiene conto degli esiti della procedura per grave inadempimento, attivata a dicembre 2021 dalla Direzione generale del Mims, in considerazione delle molteplici criticità riscontrate nella gestione dell’autostrada, compreso l’inadeguato stato di manutenzione.
Nel decreto legge del Consiglio dei Ministri è inoltre previsto che l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali (Ansfisa) avvii un piano di ispezioni per verificare le condizioni sicurezza dell’intera infrastruttura autostradale. Per gli utenti è esclusa ogni ulteriore variazione delle tariffe, che rimangono invariate per il futuro rispetto a quelle del 2017.
Tutta la storia dello scontro tra Stato e Sdp
Lo scontro tra Stato e Società dei Parchi è cominciato dopo la tragedia di Genova del 14 agosto del 2018. Dopo il crollo della infrastruttura gestita dalla famiglia Benetton il ministro pentastellato Danilo Toninelli ha ingaggiato con Sdp un braccio di ferro sulla sicurezza. Ma la situazione non è cambiata con i successori Paola De Micheli ed Enrico Giovannini. Tanto che si è arrivati alla revoca in danno che ha sortito la reazione del governatore abruzzese Marco Marsilio. Secondo il quale la vicenda «darà vita a un contenzioso micidiale» considerando che «Benetton e Atlantia sono stati liquidati con 8 miliardi di euro dopo aver fatto crollare un ponte con decine di morti». La famiglia Toto non ci sta e promette battaglia in tribunale.
(da agenzie)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
COSI’ LA RUSSIA AGGIRA LE SANZIONI ALL’OCCIDENTE
La Russia sta aggirando le sanzioni dell’Occidente per la guerra in Ucraina. E
lo sta facendo attraverso una triangolazione di marchi e l’import parallelo.
Grazie a un decreto firmato da Vladimir Putin il 28 giugno scorso. Con il quale la Russia ha dato il via all’importazione nella Federazione di centinaia di prodotti e di marchi. Anche in assenza di un’autorizzazione del produttore o del detentore della proprietà intellettuale.
Il meccanismo, di cui parla oggi Il Sole 24 Ore, ha permesso il ritorno di iPhone e altri prodotti Apple nei negozi russi. La stessa cosa sta succedendo con Samsung. Mentre la Russia si prepara a un’invasione: quella dei marchi cinesi. Che copriranno per il 90% le richieste di mercato secondo un report di Marvel, uno dei distributori di elettronica più importanti della Russia.
L’aggiramento e l’uso degli intermediari
Le merci vengono messe regolarmente in circolazione nei paesi di origine. E poi importate in Russia. Anche attraverso la triangolazione con altri paesi che fanno da intermediari. Per le autorità russe in questo modo pur non avendo seguito i consueti canali di distribuzione saranno esentati da responsabilità civili o penali. Purché, sottolinea il ministero, non si tratti di merce contraffatta.
Lo schema dell’import parallelo, che tra l’altro è autorizzata in paesi come Stati Uniti e Regno Unito, non riuscirà a coprire del tutto il fabbisogno di importazioni tecnologiche della Russia. Anche perché i tempi e i tragitti di consegna si amplieranno.
(da agenzie)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
SE SI CONSIDERANO ANCHE LE SOCIETÀ VULNERABILI, CHE NEL TRIENNIO 2019-2022 SONO PASSATE DAL 29,3% (181.000) AL 32,6% (201.000), I DEBITI FINANZIARI CRESCONO DI ALTRI 195,8 MILIARDI DI EURO (+28 MILIARDI)
Dopo la ripresa post-Covid, peggiora nuovamente lo stato di salute del tessuto imprenditoriale italiano.
L’analisi aggiornata dell’Osservatorio rischio imprese di Cerved, secondo quanto emerge da un comunicato, rileva che tra il 2021 e il 2022 le società a rischio di default sono cresciute quasi del 2%, passando dal 14,4% al 16,1% e raggiungendo le 99.000 unità (+11.000), con 11 miliardi di euro in più di debiti finanziari ora pari a 107 miliardi (10,7% del totale).
Restano lontani i picchi del 2020, quando le aziende potenzialmente rischiose erano addirittura 134.000 (21,7%).
«Eppure, l’inversione del trend preoccupa gli analisti», afferma Cerved. Se poi si considerano anche le società cosiddette vulnerabili, che nel triennio 2019-2022 sono passate dal 29,3% (181.000) al 32,6% (201.000), i debiti finanziari crescono di altri 195,8 miliardi di euro (+28 miliardi), pari al 19,5% del totale
Sul fronte dell’occupazione, Cerved quantifica in oltre 3 milioni i lavoratori, quasi 1 su 3 (30,5%), impiegati in società fragili: infatti, agli 831.000 addetti delle imprese a maggior rischio (l’8,5%, +129.000 persone rispetto al 2021), vanno aggiunti gli oltre 2,1 milioni che lavorano in società considerate vulnerabili (21,9%, +228.000).
Le imprese fragili si trovano soprattutto al Sud, dove costituiscono addirittura il 60,1% del totale, aggravando il già ampio gap con il Nord del Paese: le province con i peggioramenti più significativi sono infatti Isernia, il Sud della Sardegna, Matera, Foggia e Cagliari (ma anche Roma), mentre quelle con la maggiore quota di aziende a rischio sono Crotone, Terni, la stessa Isernia, Reggio Calabria, Messina, Siracusa e Cosenza.
I macro-comparti più impattati risultano le costruzioni (dal 15,2 al 17,6% di società a rischio) e i servizi (dal 14,9 al 16,7%); a livello più disaggregato, i settori più colpiti rientrano nei servizi non finanziari (in particolare ristorazione e alberghi), nei trasporti e nell’industria pesante (siderurgia).
(da Verità & Affari)
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Luglio 8th, 2022 Riccardo Fucile
UN MILIONE DI PERSONE “SALVATE” DAI SUSSIDI
Le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta sono tre volte di più
oggi, rispetto al 2005: sono passate da 1,9 milioni 17 anni fa, a 5,6 milioni nel 2021.
Secondo il Rapporto annuale dell’Istat diffuso oggi 8 luglio, si tratta in termini relativi del 9,4% della popolazione italiana.
La situazione è ancor più nera per i giovani tra i 18 e i 34 anni, gruppo demografico nel quale l’incidenza della povertà è addirittura quadruplicata, dal 3,1% del 2005 all’11,1% di un anno fa.
In termini assoluti si parla di 1,1 milioni di persone.
Il dato si riflette nel numero di famiglie in povertà assoluta, che arrivano a 1,96 milioni (il 7,5% del totale), rispetto agli 1,9 milioni del 2005. La variazione nei minori si estende dal 3,9% al 14,2% nel periodo di riferimento.
Gli anziani nelle stesse condizioni sono, invece, 734 mila, il 5,3%. Il rapporto sottolinea anche che circa 1 milione di lavoratori del settore privato guadagna meno di 8,41 euro l’ora, per un totale di meno di 12 mila euro l’anno.
Nel complesso, il fenomeno tocca ora il 2,5% di individui in più rispetto al 2019, mettendo in evidenza le difficoltà emerse dall’insorgenza del Covid-19.
Secondo il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, nonostante «l’acuirsi di diverse forme di disuguaglianza che purtroppo rappresentano una pesante eredità del passato biennio» la recessione socio-economica del periodo pandemico è comunque stata oggetto di misure «puntuali e mirate» da parte del governo. Nello specifico, dal rapporto su apprende che sussidi quali il Reddito di Emergenza, il Reddito di Inclusione, e in maggior misura il Reddito di Cittadinanza sono stati fondamentali per ridurre l’incidenza della povertà. Nel documento si legge:
“In assenza di sussidi, l’incidenza di povertà assoluta a livello individuale sarebbe stata dell’11,1 per cento (anziché del 9,4 per cento) e avrebbe coinvolto 6 milioni 600 mila persone, anziché 5 milioni 600 mila». Una differenza di 1 milione di individui. Blangiardo ha anche evidenziato che ai problemi della pandemia si sono sommati «il prolungarsi della guerra, la crescente inflazione [che a giugno ha toccato l’8%, ndr] e gli effetti dei cambiamenti climatici”
(da agenzie)
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