Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
A SPINGERLA IN QUESTA DIREZIONE CI SONO FAZZOLARI, FITTO E IL SUO “CERCHIO TRAGICO”, TUTTI CONVINTI CHE SCHIACCIARE GLI ALLEATI NON SIA UN PROBLEMA
Conviene partire da una sfumatura psicologica. Se c’è un fattore che
influenza le scelte di Giorgia Meloni, è l’insopprimibile necessità di non fare quello che gli altri provano a imporle o suggerirle.
È accaduto con la fiamma nel simbolo e con le celebrazioni del 25 aprile. Sta succedendo in queste ore con la candidatura alle Europee. Se infatti Matteo Salvini le avesse detto in privato «Giorgia, per favore, non candidarti perché mi danneggi», la leader avrebbe affrontato la questione più laicamente.
E però il leghista — irritato dall’annuncio della premier del 4 gennaio — ha scelto di forzare. Pubblicamente. Sfidandola a non correre. Meloni, d’istinto, progetta di andare avanti. Puntando al 30%. Per travolgere gli alleati. Immaginando una nuova era nella destra italiana.
Fedele a una massima che di recente ha condiviso con i vertici del partito: a via Bellerio capiscono solo il linguaggio dei rapporti di forza. Ecco, è questo il fulcro della tesi dei consiglieri di Palazzo Chigi più ascoltati: sei forte, è il momento di chiudere la partita.
§In fondo, è la base teorica del pensiero di Giovanbattista Fazzolari, l’uomo che Meloni ascolta di più (o che dice quello che la leader ha già deciso). E dunque: cándidati, sostiene in privato il sottosegretario, pesiamoci tra partner, «fissiamo i nuovi equilibri in Italia per il resto della legislatura». Solo così, è il corollario, affermeremo una centralità pure in Europa in vista della nuova Commissione.
Non è l’unico a consigliarle di sfruttare il voto europeo per sancire il mondo che verrà. Un altro è Raffaele Fitto, che da tempo le suggerisce in privato di accumulare milioni di preferenze, blindarsi in Italia e in Ue. E se Salvini venisse così mortificato dall’esito elettorale? E se Tajani non reggesse l’urto?
L’instabilità — gli dicono in coro questi consiglieri, assieme a Francesco Lollobrigida e Giovanni Donzelli, ma pure Patrizia Scurti e la sorella Arianna — arriverà comunque dopo il voto, meglio essere forti per affrontarla. E comunque, le ricordano, vale la regola sacra della politica: la riconoscenza non esiste, non dare fiato a Salvini perché favoriresti la sua rivincita.
Teorizzano il modello che aveva in mente Meloni. prendersi la destra, sfondare quota 30%, garantirsi il dominio incontrastato del governo. Riducendo i due partiti alleati a satelliti deboli. Costringendoli a interpretare la stabilità della legislatura come l’unica strada per sopravvivere e gestire una fetta di potere. se bisogna affrontare una manovra correttiva e Bruxelles intende rendere la vita impossibile a Palazzo Chigi, allora è meglio vantare un grande risultato elettorale. Per poter dire: ho vinto, non mi farò commissariare.
Poi è arrivata la reazione di Salvini. Accompagnata dalla sfida privata, che il fedele Andrea Crippa ha consegnato a Repubblica: «La premier vuole stravincere». Non stravincere, è stato il messaggio, altrimenti ti dimostro che da sola non puoi governare. Ed è qui che Meloni ha tentennato. Da una settimana non parla. Con alcuni dubbi, riassumibili alla voce: mi conviene? Gli esperti le hanno detto che il suo nome nel simbolo vale almeno un bonus del 2%, ma in realtà assicurerebbe una polarizzazione con Schlein capace di muovere fino al 3,5%.
Ma non è questo il dilemma. Semmai quest’altro: sono più forte se mortifico gli alleati? E ancora: è più facile gestire un rimpasto da una posizione di estrema forza? E poi ci sono le ansie di Antonio Tajani, che ha pregato Meloni di evitare di candidarsi perché FI è come un modellino di cristallo: basta poco per indebolirla ancora e frantumarla. Ma per Meloni vale lo stesso ragionamento: dopo le Europee sono pronta anche a immaginare una federazione che salvi i partner, ma non rinuncio perché me lo chiedete in un’intervista.
L’impegno di presentarsi da capolista sarebbe gravoso, in giro per l’Italia. A Palazzo Chigi hanno calcolato: cinque circoscrizioni, almeno 5 comizi. Poi quello finale. Nel mezzo, una decina di passaggi tv o radiofonici nelle ultime tre settimane. E poi i viaggi internazionali in vista della presidenza del G7. Meglio la politica estera dei dolorosi dossier economici. Sarebbe doloroso anche rompere con Salvini e Tajani. È il dubbio che tiene sulla corda i consiglieri.
(da La Repubblica)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
TUTTE LE AFFERMAZIONI SENZA FONDAMENTO SUI MORTI IN MARE, LA PERCENTUALE DI AFFOGATI, I GIORNI DI PERMANENZA A BORDO
Matteo Salvini è intervenuto nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo al processo Open Arms, in cui è imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. Il segretario della Lega prima ha rilasciato dichiarazioni spontanee, poi ha risposto alle domande degli avvocati presenti.
Nel corso del suo intervento, Salvini ha detto che: “In quei due anni [2018 e 2019, gli anni del governo Conte, ndr] il numero dei migranti salvati fu enorme. Abbiamo sensibilmente ridotto la percentuale di sbarchi. Meno morti, meno feriti, meno dispersi nell’ordine del 50%”. E ancora: “Per tutto il periodo in cui sono stato io ministro dell’Interno non ci fu alcun episodio luttuoso riferito a migranti”. Poi ha dichiarato che l’attesa delle navi Ong prima di sbarcare fu comunque più bassa, nel corso del suo mandato, rispetto alla gestione di Luciana Lamorgese nei governi Conte bis e Draghi.
Il fatto specifico è noto: nell’agosto 2019, sulla nave Open Arms si trovavano 147 persone migranti, e il governo italiano impedì loro di sbarcare per 19 giorni, nonostante il Tar del Lazio avesse sospeso il divieto di entrare in acque italiane emanato dal ministro dell’Interno Salvini. Il segretario della Lega però ha parlato in termini più ampi della sua esperienza alla guida del ministero, elencando diversi dati e prendendosi il merito per la riduzione di sbarchi e vittime in mare in quegli anni. Ha ragione?
Per quanto riguarda gli arrivi, il sito del Viminale riporta che nel 2019 ce ne furono 11.471 e nel 2018 furono 23.370. Numeri effettivamente più bassi di quelli degli anni precedenti (119mila nel 2017, 181mila nel 2016), che erano stati da record.
Il problema è più che altro il fatto che Salvini abbia detto che il motivo di questo calo era la politica del governo Conte, e in particolare dei suoi decreti Sicurezza.
Infatti, già nel febbraio 2017 era entrato in vigore il memorandum con la Libia, firmato dal ministro Minniti del governo Gentiloni. L’accordo aveva l’obiettivo di spingere direttamente il governo libico a fermare le partenze, in cambio di un sostegno economico da parte dell’Italia.
In generale, può essere ingannevole collegare direttamente il numero di arrivi di persone migranti alle politiche messe in atto dal governo in carica. D’altra parte, il governo Meloni ha ottenuto un risultato deludente quest’anno (157mila arrivi) nonostante la sua intenzione fosse di tornare a una linea dura sulla politica migratoria. Altri elementi che vanno considerati sono le condizioni meteo, ma anche la situazione politica nei Paesi di partenza.
Quante persone sono morte nel Mediterraneo nel 2018 e 2019
C’è poi la questione del numero di morti. Salvini ha parlato di “meno morti, meno feriti e meno dispersi nell’ordine del 50%”. Mentre sui feriti non ci sono registri ufficiali, ci sono invece dati sul numero di morti e dispersi nella rotta del Mediterraneo centrale. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, organo legato alle Nazioni unite, riporta 1.314 persone nel 2018, tra morti e dispersi, contro i 2.853 nel 2017. Un numero effettivamente di poco inferiore alla metà.
Anche qui, sembra però complicato dire che sia stato merito dell’opera politica di Salvini. Infatti, sempre l’Oim indica che nel 2020 ci sarebbero stati ancora meno morti (999), nonostante un numero molto maggiore di arrivi (34mila) e nonostante i decreti Sicurezza non fossero più pienamente in vigore.
Semmai, una ricerca del 2020 – segnalata anche da Pagella politica alcuni mesi fa – sottolinea che, nonostante il numero di morti sia sceso durante la gestione di Salvini, è aumentato in relazione alle partenze dalla Libia.
Risulta, infatti, che nei mesi del 2018 del governo Conte I sia morto o andato disperso il 5,7% dei migranti partiti. Per il 2019, sempre sotto il primo governo Conte, il dato è salito al 6,7%. Per paragone, nell’anno e mezzo precedente all’inizio di quel governo, durante il picco degli sbarchi, la percentuale era attorno al 2%
In che senso non ci sono stati “episodi luttuosi riferiti a migranti”
Un’espressione usata da Salvini, che ha creato una certa confusione. “Sono orgoglioso di poter dire che per tutto il periodo in cui sono stato io ministro dell’Interno non ci fu alcun episodio luttuoso riferito a migranti, a differenza di quanto avvenuto dopo”, ha dichiarato.
Alcuni hanno interpretato queste parole come a dire che non ci furono morti tra i migranti, un’affermazione che sarebbe completamente sbagliata. Forse invece Salvini si riferiva a incidenti con un alto numero di morti (come la strage di Cutro quest’anno, e molti altri casi negli anni passati).
In questo caso, Salvini può avere ragione se si guarda solamente alle acque italiane. La mappa fornita dall’Oim, basata sui dati del Missing migrants project, indica che nel 2018 a ridosso delle coste italiane ci fu un solo naufragio che causò più di una vittima, e avvenne in Sardegna, con 4 morti e 6 dispersi. Tuttavia, anche questo è poco indicativo.
Nel 2018 i principali incidenti si verificarono, come spesso avviene, al largo delle coste della Tunisia e della Libia. Ma lo stesso si potrebbe dire per il 2017, per il 2019 e anche per il 2020 e il 2021. Insomma, l’espressione usata da Salvini è stata troppo vaga per poterla effettivamente confermare o smentire
Salvini sbaglia, i tempi di attesa furono più brevi con Lamorges
Salvini ha dichiarato che, per quanto riguarda i tempi di attesa in mare delle navi Ong che trasportavano migranti, “non siamo mai arrivati ai tempi d’attesa che si sono raggiunti con la collega Lamorgese”.
In realtà, anche se non c’è un database ufficiale di un’organizzazione internazionale su questo aspetto, è possibile verificare queste parole tramite una raccolta creata dal ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa. Con un’apposita raccolta dati, che è possibile verificare risalendo ai singoli casi di cronaca, Villa ha elencato tutte le ‘crisi in mare’ avvenute nella scorsa legislatura.
Emerge così che anche la ministra Lamorgese, nel secondo governo Conte e nel governo Draghi, ha raggiunto un massimo di 11 giorni. Salvini, invece, risulta aver raggiunto i 20 giorni sia nel caso della Open Arms che con la Sea-Watch 3 di Carola Rackete. La media risulta essere di 5,2 giorni di attesa durante il mandato di Lamorgese, contro i 9,1 giorni di Salvini.
È vero che anche con Lamorgese è continuata la politica delle crisi in mare, che sono state molto numerose. Tuttavia, la frase di Salvini è esagerata, e non toglie il fatto che nel corso del suo mandato la strategia di criminalizzazione dei flussi migratori delle Ong abbia aumentato le tensioni e creato vari episodi noti, tra cui quello di Open Arms, per cui oggi è processato.
(da Fanpage)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
LIBERALI, SOCIALDEMOCRATICI E SINISTRA RADICALE AL PARLAMENTO EUROPEO ATTACCANO LA DUCETTA CHE NON HA PROFERITO PAROLA SULLE BRACCIA TESE ALLA COMMEMORAZIONE DI ACCA LARENTIA
Per il raduno di Acca Larentia adesso non c’è solo l’Italia nell’occhio del
ciclone Ue, c’è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per la sua assenza di reazioni. Ci si attendeva una presa di distanze che non ci sono state, e a Bruxelles piovono critiche che anticipano il dibattito programmato in Aula la prossima settimana (martedì 16 gennaio) e che si annuncia anche più che acceso.
Sono i socialdemocratici (S&D) ad offrire un’anteprima di quello che si prospetta. «Riteniamo ancora più sconcertante il silenzio della prima ministra e ci chiediamo perché non abbia condannato» i fatti del 7 gennaio, tuona Ewa MacPhee, portavoce del gruppo in occasione della presentazione dell’agenda dei lavori. Alla luce di tutto questo «il dibattito si rende necessario ed è importante che il Parlamento faccia quello che non ha saputo fare», vale a dire condannare l’accaduto
Dai banchi dei conservatori europei (Ecr), dove siede Fratelli d’Italia, la replica non si fa attendere. Il portavoce del gruppo, Michael Strauss, respinge le logiche che arrivano dal centrosinistra, accusata di faziosità. «[…] ci sembra che sia motivato politicamente e punta ad un accostamento con l’attuale governo». […] il gruppo Ecr ha chiesto di non modificare l’agenda e quindi non introdurre il dibattito d’Aula poi inserito sotto la voce di […] «lotta contro la rinascita del neofascismo in Europa, anche a partire dal corteo svoltosi a Roma il 7 gennaio». Strauss anticipa che deputati europei di Fratelli d’Italia prenderanno la parola per dire che «sono distanti da attività del genere».
In attesa del dibattito vero e proprio si consumi, gli altri gruppi già affondano. Anche la portavoce dei liberali (Re), Catherine Laurence Martens-Preiss, se la prende con l’Italia di oggi. «Renew Europe condanna fermamente quelle è che accaduto a Roma. Il video di centinaia di persone che rievocano il saluto romano è scioccante. Questo tipo di atti vergognosi sono una tendenza crescente in Europa che deve cessare».
Anche i liberali portano l’inquilino di palazzo Chigi al centro del dibattito. «Inviteremo Giorgia Meloni a rompere il suo silenzio e condannare in modo chiaro i gruppi neofascisti in Italia».
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
IN CASO DI REFERENDUM, LA RIFORMA SAREBBE IN BILICO
Nel nostro Paese sta cambiando l’atteggiamento nei confronti della “democrazia”. Il sistema di governo condiviso da una larga maggioranza di italiani, che, tuttavia, non nascondono una certa delusione per come è attuato. Questo sentimento è dettato da diversi fattori, interni ed esterni. In particolare, i cambiamenti manifestati dai principali attori della scena politica e istituzionale. In particolare, la “personalizzazione”. La crescente identificazione dei soggetti della scena pubblica con le “persone”. I partiti, per primi. Che, dai tempi di Silvio Berlusconi, sono divenuti “personali”. Inoltre: i governi. A ogni livello territoriale. I presidenti di Regione e, soprattutto, i sindaci costituiscono, infatti, riferimenti importanti per i cittadini. Confermati e rafforzati dall’elezione diretta. Che ne ha valorizzato il volto. E il nome. Il Rapporto “Gli italiani e lo Stato”, curato da LaPolis (Laboratorio di Studi Politici e Sociali dell’Università di Urbino Carlo Bo) con Demos, sottolinea come lo stesso orientamento si riproponga, anche sul piano del governo “nazionale”.
Il Presidente della Repubblica, nella valutazione degli italiani, infatti, si conferma la figura maggiormente “affidabile”. Oltre due terzi dei cittadini esprimono fiducia nei suoi confronti. D’altra parte, il Presidente Sergio Mattarella, nel corso del suo mandato, ha dovuto affrontare diverse crisi di governo. Accanto a diversi Presidenti del Consiglio. Come Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte. In questo modo ha operato da garante delle istituzioni. Di fronte ai cittadini, oltre che al Parlamento. E ciò ha rafforzato la sua immagine e il suo ruolo. Delineando una sorta di “presidenzialismo implicito”. In parte: “preterintenzionale”. Cioè: ben oltre la volontà dell’interessato
La maggioranza politica, guidata da Giorgia Meloni, vorrebbe trasferire questo consenso anche sul governo. Fornendo legittimazione al premier attraverso il voto “diretto” dei cittadini. Un progetto ri-prodotto e ri-proposto nel disegno di legge costituzionale sul “premierato”. Secondo il (la) presidente del Consiglio: un punto di svolta decisivo verso la Terza Repubblica.
Non bisogna dimenticare, però, che, a differenza del presidenzialismo, il premierato non è molto conosciuto e ri-conosciuto, a livello internazionale. Infatti, esistono pochi esempi a cui riferirsi. Nel recente passato: Israele. Dove, però è stato abolito nel 2002. Un caso più vicino a noi – almeno sul piano geopolitico – è la Germania, dove vige il cancellierato. Che, tuttavia, non prevede l’elezione diretta capo del governo. In Italia, comunque, la maggioranza assoluta dei cittadini – il 55% – appare orientata in questa direzione. Cioè, verso l’elezione diretta del capo del governo. Si tratta, tuttavia, di una quota non sufficiente a garantire la conferma, in caso di referendum.
LE TAVOLE
Come rammenta il precedente del 2016, quando la consultazione per il superamento del bicameralismo paritario, promossa da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, venne bocciata dagli elettori con una larga maggioranza. Nonostante il consenso verso il progetto, fino a pochi mesi prima, secondo i sondaggi, fosse largamente più ampio di quanto appaia in questa occasione.
Il sondaggio di LaPolis Università di Urbino, in collaborazione con Demos, infatti, conferma la domanda di un leader forte, per compensare la debolezza e il declino dei partiti. Tuttavia, prevale ancora, per quanto di poco, la convinzione che “senza partiti non ci può essere democrazia”. Questa posizione prevale soprattutto nelle generazioni più anziane, oltre i 50 anni, che hanno conosciuto i “partiti”. Prima che divenissero un … participio passato.
I due orientamenti, peraltro, si combinano e si incrociano, in larga misura. In quanto la “democrazia senza i partiti” appare credibile soprattutto a coloro che credono nell’importanza del capo. Cioè: di un leader forte. Che possa presentarsi da solo davanti ai cittadini. Quindi, di fronte a questa prospettiva, i più convinti appaiono anzitutto gli elettori dei FdI, della Lega. E del M5S, che è sorto – e si è presentato – come un “non partito”. Trasformandosi successivamente in un partito. Mentre la base di FI, caso esemplare e originale di partito del capo, appare più confusa. Perché hanno perduto il loro capo storico.
Solo gli elettori del Pd di-mostrano distacco dall’idea che possa esserci “democrazia senza partiti”. Ed è comprensibile, in quanto il Pd è l’erede di ciò che rimane dei partiti di massa della Prima Repubblica. Cioè, poco.
Perché, per re-citare le affermazioni di Giorgia Meloni, il premierato conduce verso la Terza Repubblica. Un orizzonte ancora senza volto. Che, però, nelle intenzioni della premier, potrebbe assumere il suo volto.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
“DELMASTRO ERA A 300 METRI DI DISTANZA? UN’ESAGERAZIONE CHE NON FA BENE ALLA VERITA'”
Il deputato sospeso di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo ha qualcosa da
dire al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. E al suo partito. Lo fa attraverso un’intervista al Foglio, nella quale fa un’eccezione alla linea che si era dato, ovvero di parlare solo con i magistrati perché «esclusivamente in quella sede uscirà la verità».
La verità sul colpo di pistola partito a Capodanno nell’ex asilo di Rosazza in provincia di Biella. Che ha ferito l’operaio Luca Campana, e del quale pare disposto ad assumersi solo in parte le responsabilità. Anche perché dalle testimonianze è risultato che nessuno lo ha visto premere il grilletto. E ci sono almeno una ventina di secondi di “buco” tra il momento in cui a Pozzolo cade di tasca la North American arms LR22 e quello del colpo che ha colpito alla gamba Campana.
Le cose strane in Fratelli d’Italia
Ma l’obiettivo di Pozzolo pare proprio essere il suo partito: «Dentro Fratelli d’Italia stanno accadendo cose strane, si cerca di uccidere me per salvare altri», dice sibillino nel colloquio con Simone Canettieri. Altri chi? L’obiettivo sembra proprio il suo ex mentore Delmastro. Anche se lui fa sapere anche che prima di Capodanno si stava occupando del Piano Mattei e che aveva aperto un’interlocuzione proprio con la premier Meloni. «Sì, sarei dovuto intervenire in Aula, prima mi sentivo spesso con Giorgia», aggiunge.
Sul colpo, continua a dire di non aver sparato: «Capisco il clamore mediatico per il ruolo che ricopro. Però è un fatto di cronaca che devo affrontare con i magistrati. Sono passato sui media come un parlamentare della Repubblica fattone che si è presentato in una sala piena di gente e ha tirato fuori la pistola e ha sparato due colpi, tipo Terence Hill, colpendo un tizio».
Sostiene Pozzolo
Eppure, secondo Pozzolo, «c’è una verità fattuale e giuridica che mi accomuna a qualsiasi cittadino». Perché non si sente «una vittima e non faccio la vittima. Ma è tutto spropositato». Il punto che Pozzolo solleva è la posizione di Delmastro al momento dello sparo. Il sottosegretario ha ripetuto in testimonianze ed interviste che lui si trovava a 300 metri dalla sala, da solo, e stava caricando l’automobile con gli avanzi del Veglione. Una situazione curiosa, visto che il sottosegretario aveva la scorta e il compito degli uomini di scorta è quello di non lasciare mai solo lo scortato. Anche a Capodanno e soprattutto quando si dirige verso una zona in cui può essere in qualche modo minacciato. Pozzolo è sibillino: «Andrea è come mio fratello Michele, almeno fino alla notte di Capodanno poi è scomparso, non ci siamo più sentiti. Non eravamo amici, ma fratelli. Però ora sembra che si voglia tutelare più una terza persona, e buttare giù dalla torre me».
Il caposcorta di Delmastro
Nel discorso compare anche Pablito Morello, agente della polizia penitenziaria e caposcorta del sottosegretario. Succede quando il Foglio ricorda al deputato la frase del coordinatore di FdI Giovanni Donzelli, il quale ha detto che l’identità di chi ha sparato non cambia la posizione di Pozzolo. Questo apre alla possibilità che abbia sparato Morello? «A naso direi di sì. La nota di Donzelli mi farà riflettere tutta la notte». La tesi del caposcorta, come si è detto, è difficile da sostenere perché Morello è esperto di armi e perché è stato lui a mettere in sicurezza la pistola dopo il colpo. Poi si torna sulla posizione di Delmastro: «Trecento metri in quel contesto sono tanti… Questa è una valle alpina piccola, molto stretta: trecento metri qui non sono come i trecento metri di Roma. È facile capire che c’è stata un’esagerazione. Ma non capisco perché esagerare troppo: non so se porta bene nella ricerca della verità», dice sibillino Pozzolo.
Andrea non c’era
Poi precisa meglio: «Andrea davanti a me non c’era, bisogna essere onesti. Che poi lui abbia esagerato dicendo che era a Canicattì è un’altra questione, di cui fatico a comprendere l’utilità. Non capisco perché, lui non era sicuramente un protagonista effettivo». E quando si parla di Matteo Renzi, che nel question time in Senato con Carlo Nordio ha criticato proprio la posizione della scorta lontano dallo scortato, Pozzolo afferma che il leader di Iv non ha tutti i torti.
(da Open)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
L’UOMO E’ MORTO NEL CARCERE DI ORISTANO IL 12 OTTOBRE 2022: UFFICIALMENTE SUICIDIO, MA LA VERITA’ SEMBRA UN’ALTRA … SECONDO DUE TESTIMONI AVREBBE SUBITO UN PESTAGGIO DA AGENTI PENITENZIARI
“Nessun segno di percosse nell’esame macroscopico il quale ha confermato l’assenza della rottura dell’osso del collo, che secondo la procura di Oristano costituiva la causa del decesso. Si attendono gli esiti della Tac e dell’esame microscopico per accertare le reali cause della morte”.
Se per la verità sulla morte di Stefano Dal Corso occorrerà ancora aspettare, le falsità che ruotano intorno ai fatti avvenuti il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano sono arrivate al capolinea.
Lo spiega chiaramente l’avvocato che assiste la famiglia, Armida Decina, quando a margine dell’autopsia spiega che a un primo esame contraddice quanto affermato dal medico intervenuto nella cella numero 8 del penitenziario sardo dopo la morte del 42enne romano.
Lo si era capito subito: non è semplice analizzare un corpo a distanza di 15 mesi dalla morte. Tuttavia qualcosa deve avere insospettito l’avvocato Armida Decina e i suoi consulenti. Qualcosa che il legale che assiste la famiglia di Stefano Dal Corso, il detenuto romano morto nel carcere di Oristano, aveva deciso di custodire gelosamente ma che comunque le strappava un sorriso.
Poi le notizie trapelate, quelle in cui si diceva che non emergevano percosse sul corpo della vittima, devono aver mutato qualcosa. E il legale ha detto quanto ha appreso: sembra che Stefano Del Corso non sia morto a causa della rottura dell’osso del collo. E allora come è morto?
Un audio, due testimoni e una voce al telefono affermano che Stefano Dal Corso non è morto impiccato, come sostiene la procura sarda, ma dopo un pestaggio.
I dubbi, le incongruenze e gli elementi sospetti sono affiorati a poco a poco. Nel frattempo i magistrati rigettavano le richieste di autopsia. Lo hanno fatto per sette volte. Hanno anche archiviato il fascicolo. Poi è stato riaperto e alla fine l’esame autoptico è stato fatto. Si spera che non sia troppo tardi. Perché il corpo esaminato oggi all’ospedale Gemelli di Roma dal medico legale Roberto Demontis e dai consulenti nominati dalla famiglia (il medico legale Claudio Buccelli, l’ematologa forense Gelsomina Mansueto e l’esperto tossicologico Ciro Di Nunzio) non è in condizioni ottimali. Impossibile vedere a occhio nudo se sia stato picchiato o meno. Se si sia impiccato o se sia stato strangolato. Occorreranno altre analisi, microscopiche. E poi l’esame tossicologico, l’esito della tac. Ufficialmente si sapranno tra novanta giorni.
Secondo il medico che ha analizzato il corpo di Dal Corso dopo la morte, il detenuto 42enne, momentaneamente in Sardegna per assistere a un processo che lo riguardava, sarebbe deceduto dopo essersi spezzato l’osso del collo impiccandosi. Analisi più accurate diranno se ciò è vero. Al momento sembra di no.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
LO SFOGO DI FRANCESCA CUCCHIARA: “L’ESPULSIONE DELLE PERSONE MENO ABBIENTI DALLA CITTA’ E’ UNA STORIA TRISTE”
«Sono esattamente cinque anni che vivo a Milano e questa è la quarta
volta che cambio casa». A parlare è Francesca Cucchiara, consigliera comunale di Europa Verde nel capoluogo lombardo. Negli ultimi anni, Milano è diventata la città-simbolo del fenomeno del caro-affitti. L’aspetto curioso è che la corsa al rialzo delle locazioni per gli appartamenti non ha risparmiato nemmeno Cucchiara, che non solo vive in città ma è stata eletta come rappresentante in consiglio comunale. «La storia è più o meno sempre la stessa: il contratto scade, l’affitto aumenta, oppure l’appartamento viene messo in vendita e quindi bisogna andar via», ha raccontato la consigliera dei Verdi sui suoi canali social. Cucchiara definisce il mercato immobiliare degli affitti «una giungla» e parla di «una competizione alla Hunger Games in cui ti trovi a sgomitare fra altri mille disgraziati come te che cercano di accaparrarsi un alloggio ad un prezzo accessibile (e possibilmente umanamente abitabile)». La consigliera aggiunge: «Una persona che guadagna 1.500 euro al mese se non vuole alloggiare in una cripta non ha altre possibilità, salvo eccezioni, che emigrare ai margini della città».
Lo scorso anno, per protestare contro il fenomeno del caro-affitti si è formato il cosiddetto «popolo delle tende», un gruppo di studenti universitari e giovani lavoratori che hanno cominciato ad accamparsi fuori dal Politecnico di Milano per chiedere azioni immediate da parte della politica. Da allora, di novità ce ne sono state ben poche e il problema, soprattutto nel capoluogo lombardo, continua a farsi sentire. «L’espulsione delle persone meno abbienti da Milano – scrive Cucchiara – è una storia triste (a parte la mia che potrebbe anche far ridere, visto il paradosso istituzionale) e che provoca frustrazione, insofferenza e quella voglia di dire che “Milano fa schifo”». Eppure, sostiene la consigliera, il problema non è della città ma di «un mercato immobiliare sempre più avido, che si muove senza regole e senza uno Stato capace di intervenire». Anzi, a cinque anni dal suo arrivo a Milano, Cucchiara dice di amare Milano ancora più di prima, «perché è una città viva, combattente, caparbia, impaziente, orgogliosamente antifascista e – conclude la consigliera – capace di mobilitarsi per ciò che ritiene giusto, compreso il diritto alla casa».
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
IL VOTO DETERMINERA’ LA DIREZIONE DELLE RELAZIONI DELL’ISOLA CON LA CINA
Urne chiuse a Taiwan. Oggi, sabato 13 gennaio, 19,3 milioni gli elettori si sono recati ai seggi per l’elezione del nuovo presidente, che prenderà il posto di Tsai Ing-wen, e il rinnovo del parlamento monocamerale. Il voto cruciale determinerà la stabilità regionale dell’isola, che la Cina rivendica come propria, e persino quella globale, vista la competizione sempre più dura tra Pechino e Washington.
Stando alle prime proiezioni pubblicate da South China Morning Post, a circa metà spoglio William Lai – candidato del Partito democratico progressista (Dpp) e attuale vice presidente, definito da Pechino «grave pericolo» – è al momento in testa con oltre il 40% dei voti validi. Staccato da Hou Yu-ih, candidato del Kuomintang (Kmt) e il più aperto al dialogo con la Cina, con il 34%; terzo Ko Wen-je del Partito popolare (Tpp), né indipendentista, né conciliante con Pechino, con circa il 24%.
Lai Ching-te del Partito democratico progressista da otto anni al governo, che si fa chiamare William Lai, è l’attuale vicepresidente dell’isola.
Nei giorni scorsi, la Cina lo aveva definito un «piantagrane con posizioni indipendentiste» e pure un «grave pericolo».
Chen Binhua, portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del governo cinese, aveva infatti espresso «la speranza che i compatrioti di Taiwan vedano il grave pericolo dell’istigazione di conflitti attraverso lo Stretto da parte di Lai e facciano la scelta giusta al bivio», si leggeva nella dichiarazione rilanciata dai media statali.
Per l’attuale vice presidente dell’isola, che si è spostato su posizioni – per certi versi – meno indipendentiste, «non c’è alcuna volontà di proclamare formalmente l’indipendenza» poiché «la nostra isola è già sovrana di fatto e lo status quo nello Stretto serve l’interesse della stabilità mondiale». Il suo obiettivo è quello rafforzare la difesa militare di Taiwan per evitare un’invasione cinese
La censura cinese
Le delicate elezioni di Taiwan sono finite nelle maglie della censura del Great Firewall cinese. La piattaforma mandarina di social media Weibo, corrispondente all’X cinese, ha bloccato gli hashtag sul voto in corso a Taipei dopo che il tema era diventato uno degli argomenti di maggiore tendenza. «In conformità con le leggi, i regolamenti e le politiche pertinenti, il contenuto di questo argomento non viene visualizzato», è il messaggio che appare sulle ricerche dell’hashtag “elezioni di Taiwan”.
8 jet e 6 navi militari cinesi intorno all’isola
Nel frattempo, il ministero della Difesa di Taipei ha riferito di aver rilevato 8 jet e 6 navi militari cinesi intorno all’isola nelle 24 ore fino alle 6 locali (le 23 di venerdì in Italia). In una nota, ha anche precisato che un aereo, un modello Y-8 ASW, è entrato nella zona di sudovest dello spazio di difesa (Adiz), spingendo le forze armate taiwanesi a seguire la situazione in modo da poter rispondere nel migliore dei modi all’evoluzione degli eventi.
(da agenzie)
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Gennaio 13th, 2024 Riccardo Fucile
L’EX AMBASCIATRICE ALL’ONU È PERO’ ANCORA LONTANA DA TRUMP, PER ORA IRRAGGIUNGIBILE … TUTTE LE RILEVAZIONI DICONO CHE DE SANTIS PERDEREBBE CONTRO BIDEN, MENTRE PER TRUMP SI PROSPETTA UN TESTA A TESTA COL PRESIDENTE: SOLO NIKKI HALEY ESCE VINCENTE DAL CONFRONTO CON IL PRESIDENTE USCENTE, IN QUALCHE CASO CON SCARTI DI PIÙ DEL 10 PER CENTO
In America le primarie servono a far conoscere i candidati e i loro
programmi. Ma sono anche una prova di resistenza fisica e psichica […] Il duello in corso in Iowa, dove lunedì partirà la stagione elettorale repubblicana con la votazione serale nei caucus in condizioni meteo che renderanno il voto un atto di eroismo (ghiaccio ovunque dopo le nevicate di oggi e una temperatura massima di oltre venti gradi sotto zero con l’accompagnamento di forti venti) per ora è un testa a testa tra Nikki Haley e Ron DeSantis: […] l’ex governatrice del South Carolina e il governatore della Florida si disputano il ruolo di sfidante di Donald Trump, per adesso irraggiungibile nei sondaggi.
DeSantis, governatore della Florida, indietro nei sondaggi in New Hampshire e South Carolina, prossime tappe del grande circo delle primarie, ha puntato tutto sull’Iowa: ha ottenuto l’endorsement della governatrice Kim Reynolds, ha messo in piedi una massiccia organizzazione elettorale, ha tenuto comizi in tutte le 99 contee. Ma nei sondaggi non è mai andato oltre il 20 per cento rispetto al 50 di Trump […] è apparso prolisso e poco convincente nel mettere in fila i suoi slogan da «trumpista senza Trump» e nell’attaccare la Haley, dipinta come globalista e serva delle corporation.
Nikki Hakey parla in una grande sala gremita di supporter (tutti bianchi, ma in Iowa neri e ispanici arrivano appena al 15 per cento) e giornalisti delle maggiori testate americane, dalla CNN al New York Times. Sorridente, distesa, ostenta garbo e gentilezza. Non affonda tropo il coltello nel costato degli avversari: Trump ha fatto cose buone ma dove c’è lui scoppia il caos, è una situazione insostenibile. Poi liquida il governatore della Florida invitando i presenti a consultare il sito (da lei creato) DeSantisLies.com: le bugie di DeSantis.
Il vero affondo lo fa coi sondaggi: tutte le rilevazioni dicono che de Santis perderebbe contro Biden, mentre per Trump si prospetta un testa a testa col presidente: «Solo io esco vincente dal confronto col leader democratico, in qualche caso con scarti di più del 10 per cento: puntate su di me».
In Iowa Nikki è partita tardi ma ora, con le rilevazioni che la danno in forte crescita in New Hampshire fino a minacciare il primato di Trump, e il ritiro di Chris Christie che le lascia più spazio (aveva posizioni vicine alle sue) la Haley sente di avere il vento in poppa anche in vista del caucus di lunedì. Quantomeno per scavalcare DeSantis e costringerlo alla resa: attaccare il primato di The Donald resta un’impresa titanica. Nikki non si risparmia: parla con tutti, stringe mani, incoraggia, consola, si presta a una serie infinita di selfie (rito evitato da DeSantis).
Se per ogni foto arrivasse un voto probabilmente vincerebbe, ma il caucus del 2020 ha dimostrato che una simile equazione non ha fondamento. Gli ultimi sondaggi dell’Iowa, però, le danno speranza: salita al 20 per cento scavalcando DeSantis calato al 13 nonostante il sostegno della governatrice. Sarebbe un buon trampolino per tentare la rincorsa a Trump.
/da agenzie)
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