I RETROSCENA: LA NOTIZIA RICEVUTA DA MANTOVANO E IL VERTICE DI EMERGENZA, POI LA DECISIONE “ATTACCHIAMO I MAGISTRATI, FACCIAMO LE VITTIME”
LA RIUNIONE DELLO STAFF PER LE RIPRESE SUI SOCIAL E L’IMPUT AI MEDIA ASSERVITI AL GOVERNO
Succede attorno alle 13.30, secondo la ricostruzione del cerchio magico meloniano. L’ufficiale di polizia giudiziaria della procura di Roma varca il portone di Palazzo Chigi per recapitare l’avviso a Giorgia Meloni. In quel momento la premier non c’è. Bastano però pochissimi minuti perché il lampo diventi tuono. I plichi consegnati nella sede dell’esecutivo sono due: anche Alfredo Mantovano conosce il suo destino di indagato. Contatta subito la presidente del Consiglio: c’è una lettera sulla sua scrivania. Non è difficile immaginare di cosa si tratti.
La mattina, d’altra parte, non prometteva nulla di buono. Meloni è costretta a leggere l’intervista a Daniela Santanchè, una sfida aperta al suo potere decisionale. Nulla, rispetto a quello che la aspetta.
Alle 11, si presenta al Quirinale per celebrare il Giorno della memoria. Ascolta Liliana Segre e Sergio Mattarella, il ricordo struggente dei sopravvissuti dell’Olocausto. Meloni è seduta tra Matteo Piantedosi (un altro degli indagati nel caso Almasri) e Ignazio La Russa. Non è escluso che l’indiscrezione inizi a circolare in qualche modo, ma comunque: nulla di ufficiale. Qualche minuto prima delle 11 anche Mantovano si allontana da Palazzo Chigi: è in una chiesa romana per partecipare al funerale della madre del segretario generale della Presidenza del Consiglio, Carlo Deodato.
Attorno alle 12.40, Meloni lascia il Colle. La incrociano alcuni cronisti. Fa capire di non avere voglia di parlare e concede solo due brevi battute sulla Shoah. Sulla carta, ancora non sa dell’indagine. Pranza fuori da Palazzo Chigi. Mantovano, intanto, è rientrato. Tocca a lui, dunque, riceve la notizia dell’indagine che lo riguarda e contattare la leader, che fa rientro a palazzo poco dopo. Nel suo ufficio, prende visione dell’atto. La tensione è evidente.
Nel frattempo, attorno alle 14.30, anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio riceve l’avviso e si chiude in ufficio con i suoi collaboratori. Anche al Csm la notizia inizia a circolare. L’agitazione è massima. Meloni, intanto, riunisce d’urgenza lo staff. È un gabinetto di guerra. A premere per lo scontro è Giovanbattista Fazzolari. Al termine, la leader comunica come intende reagire: attaccando. In pochi minuti viene abbozzato un testo. È il copione da recitare per un video che finirà prima sui social e poi su tutti i tg. La tesi, riferiscono dal cerchio magico, è questa: «Respingere l’attacco della magistratura, ribaltarne gli effetti». Tradotto: la presidente del Consiglio è convinta che convenga mostrarsi «vittima» di decisioni politicizzate per poter cavalcare lo scontro. E lucrare consensi.
Il messaggio è un avvertimento chiarissimo alle toghe. La tesi è che esistano alcune «correnti politicizzate» che non accettano la separazione delle carriere e reagiscono provando ad «abbattere il governo». Ribaltare quanto accaduto, allora, diventa anche un modo per mobilitare gli elettori — con slogan che ricordano quelli del berlusconismo — in vista del referendum costituzionale sulla riforma della giustizia.
Il bersaglio numero uno è Francesco Lo Voi. A lui, la premier imputa anche il fatto che la Procura di Roma da lui guidata abbia inserito nel fascicolo a disposizione dei quattro giornalisti indagati del Domani la notizia degli accertamenti dell’Aisi sul suo capo di gabinetto, Gaetano Caputi. Una circostanza riservata che, secondo fonti dell’esecutivo e dell’intelligence, doveva restare fuori dagli atti. Sarà dunque battaglia con i giudici. E se mai gli attacchi dovessero intensificarsi, non va esclusa neanche la reazione più drastica: un “grande reset” elettorale. Una minaccia ciclica, certo. Ma evocarla è già un segnale.
(da La Repubblica)
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