LO SFOGO DI BERSANI: “TUTTO IL PESO SU DI ME, MATTEO SENZA FRENI, VUOLE SOLO LE ELEZIONI”
“MI DOVEVO TOGLIERE DI MEZZO, ADESSO SONO PIU’ LIBERO DI FARE POLITICA”
«Basta con queste lacrime, guardate che mi arrabbio ».
Ma il primo a commuoversi è stato lui quando Napolitano ha superato il quorum.
Le mani davanti agli occhi, ha chinato il capo, ha ceduto alla tensione degli ultimi 55 giorni.
Un lungo tragitto che doveva portarlo a Palazzo Chigi e invece è terminato con le dimissioni. È l’ultimo giorno da segretario di Pier Luigi Bersani.
Adesso sorride solcando il corridoio che lo porta nella stanza del dramma, quella alle spalle dell’emiciclo di Montecitorio dove sono state vissute le sconfitte di Marini e di Prodi, quella dove ha deciso di gettare la spugna.
Lo seguono a un passo le donne del suo staff Chiara Muzzi, Paola Silvestri, il direttore di Youdem Chiara Geloni.
Hanno gli occhi lucidi. Ancora dietro il portavoce Stefano Di Traglia che gli annuncia la presenza della conduttrice di Telecamere Anna La Rosa nel suo studio. «Mamma mia, e che ci fa lì?». Un saluto, risponde Di Traglia.
Allora Bersani mima il gesto di un abbraccio ampio e avvolgente. «Le darò un bel bacio».
La sera di venerdì, dopo il discorso durissimo contro i traditori all’assemblea del cinema Capranica, ha chiesto ai capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda, a Enrico Letta, a Maurizio Migliavacca e Vasco Errani di risolvere assieme a lui il rebus del Quirinale.
Sapendo che l’unica soluzione era il bis di Giorgio Napolitano.
In un ristorante di Testaccio, la war room bersaniana si è riunita l’ultima volta con il leader. «Serviva una scossa. E adesso io sono più libero di fare politica e sono più responsabili i parlamentari di fronte agli eventi. Soprattutto di fronte alla scelta di eleggere un presidente della Repubblica»
Il segretario uscente spiega che sulla sua figura si sono scatenate le tensioni interne e le conseguenze della mezza vittoria.
Nel tritacarne sono finiti Marini e Prodi.
Ma l’altro bersaglio grosso era lui. E la sua poltrona.
«In questi 55 giorni difficilissimi, il peso delle scelte del Pd è finito tutto su di me. Normale che fosse così. Mentre tentavo una strada complicata e cercavo di dare una risposta a un risultato elettorale impazzito, però, è venuta meno la solidarietà minima che dovrebbe esistere in un partito.
Gli altri pensavano alle loro manovre, anche quando in gioco c’erano le istituzioni». Non è stato tanto il problema di «sentirsi solo. Ma alla fine il cerino finiva sempre nelle mie mani. Intanto, gli altri facevano i giochini».
Per sbloccare la partita del Colle dunque erano necessarie, obbligate le dimissioni. «L’atteggiamento irresponsabile dei parlamentari andava assolutamente bloccato. Bisognava fermare lo scaricabarile. Siccome il barile principale ero io, mi dovevo togliere di mezzo. Dovevo farlo per arrivare a una soluzione, per eliminare gli alibi di gruppi e gruppetti».
Poi, certo, Bersani ha preso atto degli schiaffi in faccia, della sua gestione faticosa e carente della crisi politica.
Poteva forse coinvolgere di più Matteo Renzi, farlo entrare nella stanza dei bottoni che in un modo o nell’altro il sindaco di Firenze aveva già conquistato agli occhi dell’opinione pubblica e soprattutto del partito.
Se non altro per il risultato corposo delle primarie.
«Renzi però – spiega Bersani – ha cominciato a mettere veti sapendo che dopo toccava a noi risolvere i problemi. Marini e Finocchiaro erano due nomi su cui stavamo lavorando da tempo, poi è arrivato lui con il suo no. E noi dovevamo ricominciare daccapo».
Renzi, dopo un iniziale feeling che neanche la sfida per la premiership aveva intaccato, è diventato un avversario interno.
Aggressivo, spregiudicato, senza freni.
«Negli ultimi giorni forse ha capito che stavamo per chiudere sul nostro schema. Lui invece doveva accelerare il voto perchè sentiva che il suo treno passava adesso».
Ma ci sarà tempo per le rese dei conti e per la battaglia. Bersani non sparirà .
A metà mattina fa chiamare Cristina Ferrulli dell’Ansa, Mara Montanari dell’Adnkronos e Sabina Bellosi dell’Agi per annunciare: «Che farò adesso? Non andrò all’estero…».
È il modo per dire che non sparirà dal dibattito, ma è anche il regalo di una piccola esclusiva alle colleghe delle agenzie di stampa che lo hanno seguito costantemente nei quattro anni della sua segreteria, aspettandolo sotto la sede di Largo del Nazareno con il solleone e con la neve.
Un congedo affettuoso.
Ai parlamentari che lo raggiungono al suo banco dell’aula durante la votazione finale ripete come un mantra che le sue dimissioni erano inevitabili.
Ai più giovani consiglia ancora una volta di «spegnere ‘sto telefonino ogni tanto.
Non potete fare politica solo con Twitter e Facebook ».
Per il futuro del Partito democratico vede il pericolo dell’irrilevanza se non viene rifondato su nuove basi.
«Dall’opposizione e durante il governo Monti siamo riusciti a tenere insieme il Pd. Arrivati al momento di un confronto con la cultura di governo siamo implosi. Su questo dovrà riflettere il centrosinistra».
Alla fine della giornata, c’è il volo per Milano pieno zeppo di parlamentari del Pdl. Loro trionfanti, al centro del gioco politico. Lui dimissionario e con un partito distrutto.
Alcuni lo salutano, altri si danno di gomito.
Per fortuna, a un’ora di macchina c’è Piacenza e il ritorno a casa.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica“)
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