Gennaio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
NAPOLITANO FIRMA, MA SOLLEVA “CRITICITA'” SULLA RIFORMA UNIVERSITARIA: DA UN LATO TOGLIE OGNI FUTURO AI GIOVANI, DALL’ALTRO LI ESORTA A NON PERDERE OGNI SPERANZA… UNA VOLTA PROMULGATA, LA LEGGE ENTRA IN VIGORE E IL GOVERNO, COME DA PRECEDENTI, NON MODIFICA UNA VIRGOLA…L’ANALISI DI MARCO TRAVAGLIO
I sopravvissuti ai veglioni, ai cenoni, ma soprattutto alla torrenziale conferenza stampa di
Berlusconi e al letale messaggio ipnotico di Napolitano avranno forse notato il paradosso di un signore di 85 anni che potrebbe un bel giorno lasciare il posto a un ometto di 75 (che ne avrà 78 quando si libera la sedia) e intanto firma la cosiddetta legge Gelmini che toglie ogni speranza ai giovani, poi li esorta a non perdere la speranza (l’espatrio).
Già ci pare di sentire le obiezioni di quirinalisti e corazzieri di complemento, secondo i quali il Presidente sarebbe, in gran segreto, un roccioso baluardo contro le leggi vergogna: infatti l’altro giorno ha, sì, firmato pure la Gelmini, ma segnalando coraggiosamente “alcune criticità ”.
Purtroppo anche Rodotà , su Repubblica, ha tentato di gabellare la promulgazione della controriforma universitaria come un trionfo del dialogo presidenziale con gli studenti e un altolà al governo: il Colle ha firmato la Gelmini, ma gliele ha cantate chiare.
La tesi ricorda quel pugile che, messo al tappeto dal suo avversario e portato in ospedale più morto che vivo, biascicava prima di entrare in coma: “Ne ho prese tante, ma gliene ho dette quattro”.
La verità nuda e cruda è che ha stravinto un’altra volta Berlusconi e hanno perso un’altra volta gli italiani.
Le chiacchiere stanno a zero, la Gelmini è legge, farà danni irreparabili per decenni (anche perchè il centrosinistra, ove mai tornasse al governo, si guarderebbe bene dall’abrogarla) e delle “criticità ” segnalate dal Quirinale il governo farà l’uso che Bossi fa del tricolore per celebrare degnamente l’Unità d’Italia.
Oltretutto questa cosa di firmare le leggi dicendo che non vanno tanto bene è un controsenso e una presa in giro.
La Costituzione dice che il presidente, quando gli arriva una legge dal Parlamento, ha due opzioni: se gli piace, firma; se non gli piace, respinge al mittente con messaggio motivato alle Camere.
La firma con monito, con criticità , con faccia scura, con naso storto, con ditino alzato, con mano sinistra o su una gamba sola non è prevista.
E in ogni caso, una volta promulgata, la legge va sulla Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore.
Come, e soprattutto perchè, il governo dovrebbe correggerla dopo “ampio confronto” con gli studenti ignorati per tre anni, soprattutto ora che il Quirinale ha scaricato l’unica arma in suo possesso per imporglielo?
Naturalmente, come si fa col nonnetto che raccomanda di coprirsi bene, la Gelmini ha assicurato che “terrà conto” delle osservazioni. Tanto domani nessuno se ne ricorda più.
Illazioni? Malignità ? No, memoria storica.
Il 2 luglio 2009, con la solita fiducia, diventava legge l’ennesimo “pacchetto sicurezza” di questa banda di magliari che si fa chiamare governo: la legge 15.7.2009 n. 94, piena di norme razziste e incostituzionali, tipo il reato di immigrazione clandestina e il via libera alle ronde.
La penna più veloce del west la firmò il 15 luglio, ma lo stesso giorno scrisse al premier e ai ministri Maroni e Alfano che alcune “rilevanti criticità ” suscitavano in lui “perplessità e preoccupazioni”: la legge era mal fatta (3 articoli per modificare quasi 200 norme), malscritta (il solito ostrogoto) e addirittura viziata da scarsa “coerenza con i principi dell’ordinamento” e da “dubbi di irragionevolezza e insostenibilità ”.
Anche allora, vivi applausi al Colle dai corazzieri della penna: che monito, perbacco, gliele ha cantate chiare!
Immancabilmente Maroni, Alfano & C. si impegnarono “tener conto delle osservazioni del capo dello Stato”, di cui sentitamente lo ringraziarono.
Poi se ne infischiarono: infatti, in un anno e mezzo, di quella legge non han modificato un punto e virgola.
Le uniche variazioni le ha imposte la Consulta, stabilendo che la legge firmata (ma con monito) da Napolitano era incostituzionale in più punti.
Ora, con la Gelmini, il copione si ripete. Eppure qualcuno ancora ci casca.
A Napoli si dice “’ccà nisciuno è fesso”.
Nisciuno, o quasi.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
MELCHIORRE FIDELBO AVEVA OTTENUTO L’INFORMATIZZAZIONE DELL’OSPEDALE DI GIARRE SENZA GARA PUBBLICA…. LA REGIONE ORA REVOCA I FINANZIAMENTI, IMBARAZZO NEL PD SICILIANO PER LA PROCEDURA DICHIARATA “ILLEGGITTIMA”
Lo scorso 15 novembre la senatrice capogruppo PD Anna Finocchiaro è presente all’inaugurazione del presidio territoriale di assistenza di Giarre. L’appalto, del valore di 1,7milioni di euro (finanziamenti pubblici) è stato affidato senza gara alla Solsamb Srl, amministrata da suo marito, Melchiorre Fidelbo.
Ora però la Guardia di Finanza ha sequestrato gli atti, la Procura di Catania ha aperto un fascicolo e gli ispettori regionali, con una relazione, hanno concluso che tutta la procedura “è illegittima”.
Facciamo un passo indietro: nel luglio 2007 vengono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale le linee guida ministeriali per i progetti del Piano Sanitario Nazionale benedetto dall’allora ministro Livia Turco.
Un mese dopo, il consorzio Sanità Digitale presenta il progetto per la Casa della Salute di Giarre, dal costo di 1,2 milioni di euro..
Al suo interno ci sono, con quote del 5%, il dipartimento di Anatomia dell’Università di Catania guidato dal Prof. Salvatore Sciacca, l’Azienda Sanitaria 3 di Catania guidata ai tempi dal manager Mpa Antonio Scavone; la Tnet Srl con il 40% e la Solsamb Srl amministrata dal marito di Anna Finocchiaro che detiene il 50%.
Caduto il governatore siciliano Totò Cuffaro, però, scatta la rivoluzione sanitaria del suo successore Raffaele Lombardo.
In Sicilia non servono “Case della Salute” ma “Presidi Territoriali di Assistenza”.
Carte alla mano è necessaria una rimodulazione.
E i costi lievitano: 20mila euro per lo studio del territorio, 420mila per il “project management”, 50mila per l’assistenza al progetto hardware ed 1,2 milioni per i “software diversi”.
Il totale lordo sale a 1.690.000 euro, esclusi i costi gestionali non previsti, “con un incremento — scrivono adesso gli ispettori della Regione — del 17% rispetto al progetto del 2007”.
La lievitazione dei costi si accompagna con un passaggio di consegne: il consiglio di amministrazione del consorzio Sanità Digitale stabilisce che tutti i proventi saranno attribuiti alla Solsamb Srl del marito di Anna Finocchiaro. Piccolo particolare: in tre anni nessuna gara pubblica è stata bandita.
Il 30 luglio 2010 l’Azienda sanitaria 3 guidata dal manager Giuseppe Calaciura, militante dell’Mpa di Raffaele Lombardo, sigla la convenzione con la Solsamb.
Poco tempo dopo il Pd entra in giunta con Lombardo forte del sostegno della senatrice democratica.
E così si arriva al paradosso: il 15 novembre, per inaugurare il presidio sanitario, si ritrovano insieme due mondi storicamente distanti, anche solo ricordando che nel 2008 Anna Finocchiaro si era candidata alla presidenza della Regione siciliana contro Lombardo (e il centrodestra).
Nella foto a lato è immortalato il taglio del nastro della “Casa della Salute” di Giarre, Comune roccaforte dell’Mpa.
Il primo a sinistra con i baffi e la cravatta è Melchiorre Fidelbo, marito della senatrice democratica, amministratore della Solsamb Srl, accanto a lui c’è il manager autonomista Giuseppe Calaciura che ha siglato la convenzione, segue Teresa Sodano, sindaco di Giarre pupillo di Raffaele Lombardo, quindi Massimo Russo, magistrato assessore regionale alla Sanità , e poi al centro ci sono Anna Finocchiaro e l’ex ministro Livia Turco, ideatrice delle Case della Salute.
Sotto i flash dei fotografi scattano le proteste dei cittadini di Giarre perchè da poche settimane è stato chiuso l’ospedale principale.
“Anna Finocchiaro…Vergogna!”, gridano, il filmato è rimbalzato sul web, all’improvviso la senatrice si avvicina ai manifestanti e chiede: “Vergogna di che?”.
Accanto a lei c’è il marito amministratore dell’azienda che ha vinto l’appalto senza gara.
Gli ispettori regionali inviati dall’assessore Massimo Russo hanno stilato una relazione di dieci pagine, adesso finita in commissione Sanità .
L’appalto della Solsamb sarebbe stato affidato in violazione del D.lgs 163/2006 e “dei principi di libera concorrenza — scrivono gli ispettori — parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità , nonchè quello di pubblicità ”.
Secondo gli ispettori, l’affare avrebbe “violato il Codice degli appalti” trattandosi di importi di rilevanza comunitaria “e non rientra nei casi di esclusione”.
Gli ispettori intervengono anche sul passaggio di consegne tra il Consorzio Sanità Digitale partecipato dalla Solsamb e la stessa Solsamb: “in ordine a ciò — si legge nella relazione — occorre rilevare che tale attribuzione caratterizza la fornitura quale “esternalizzazione” che, come è noto è espressamente vietata dall’art.21 della legge regionale 14 aprile 2009 n.5 che dispone che “è fatto divieto alle aziende del servizio sanitario regionale o agli enti pubblici del settore di affidare mediante appalto di servizi o con consulenze esterne, l’espletamento di funzioni il cui esercizio rientra nelle competenze di uffici o di unità operative aziendali”.
“Sulla base della documentazione acquisita — conclude la relazione — e delle analisi svolte, con riguardo anche agli atti assessoriali propedeutici al procedimento autorizzativo, si ritiene che il provvedimento di affidamento a privati dell’organizzazione ed informatizzazione del PTA, da parte dell’Asp di Catania, evidenzi i profili di illegittimità , come sopra esposti”.
Su questi presupposti è stata annunciata da Massimo Russo la revoca imminente dell’appalto.
L’amministratore unico della Solsamb srl, Melchiorre Fidelbo, ha chiesto un’audizione alla Commissione Sanità dell’Ars dicendosi “a disposizione per avere l’opportunità di descrivere e far comprendere il rilievo scientifico che il progetto sperimentale di “Casa della salute” rappresenta per la sanità Siciliana”.
Contemporanemte Fidelbo ha annunciato ricorso al Tar sostenendo che la gara d’appalto non era necessaria perchè si trattava di “opere dell’ingegno” e che non esisterebbe alcuna connessione tra la vicenda e il ruolo politico della moglie presente all’inaugurazione.
Ha anche osservato che “il clima che si e’ voluto instaurare di strumentalizzazione politica non consente uno sviluppo compiuto e sereno del progetto a 3 o 5 anni”, minacciando querele agli organi d’informazione siciliani.
Giuseppe Lo Bianco
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
VI ERA UN TEMPO IN CUI IL MSI POTEVA VANTARE IL PRIMATO MORALE IN TEMA DI LEGALITA’, ESTRANEO A TANGENTI E GIOCHI DI PALAZZO.. IL TEMPO IN CUI FINI E LA MUSSOLINI RAGGIUNSERO IL 48% ALLE COMUNALI DI ROMA E NAPOLI… POI A QUALCUNO E’ APPARSA LA MADONNA CHE PROMISE LORO POSTI AL SOLE E SI CONVERTIRONO A DIFENDERE COSENTINO
C’è stato un tempo in cui La Russa tifava per Di Pietro. 
Un tempo in cui la legalità era un argomento di vitale importanza per la destra italiana.
Un tempo in cui l’Msi poteva vantare un primato morale in questo campo mentre Psi e Dc venivano spazzati via da tangentopoli.
Un primato che porterà Gianfranco Fini a sfiorare la vittoria a sindaco di Roma nel 1993, quando Forza Italia era solamente poco più di un’idea che frullava nella testa di Marcello Dell’Utri.
In quel tempo Riccardo De Corato, candidato sindaco del Msi, si incatenava al portone di via Foppa e mostrava un cartello: “Craxi in libertà , manette all’onestà “.
C’erano infatti anche i missini a tirare le monetine a Craxi davanti all’hotel Rafael.
Il coro “Bettino vuoi pure queste?”, cantato sventolando in aria le mille lire, era il più gettonato.
C’era una destra che appendeva manifesti insieme a sinistra e Lega Nord con scritte come “Vergognatevi, non avete dignità ” o “Ridateci i nostri soldi”.
Il primo aprile 1993 un centinaio di ragazzi protetti da una pattuglia di parlamentari missini (Buontempo, Nania, Maceratini, Rositani, Martinazzo, Pasetto, Matteoli, Poli Bortone e Gasparri) bloccavano per 50 minuti l’ingresso di Montecitorio.
Ricorda Filippo Facci che «quei ragazzi indossavano magliette con la scritta “Arrendetevi, siete circondati” mentre quei deputati che osarono sfidare il blocco vennero insultati e spintonati al grido di “ladri, mafiosi, figli di puttana”; è tutto verbalizzato da una nota del Ministero dell’Interno.
Contro il palazzo vennero tirate monetine con delle fionde sicchè una porta di vetro andò in frantumi.
Gli slogan chiedevano lo scioglimento delle Camere.
Pochi giorni prima un parlamentare di An si era presentato con la maglietta
“Fuori il bottino, dentro Bettino” e alcuni suoi colleghi avevano roteato delle spugnette indossando dei guanti bianchi, ciò mentre un altro deputato di An ciondolava un paio di manette e ancora un altro deputato leghista srotolava un celebre cappio».
Erano i tempi in cui il Msi avrebbe potuto dire elettoralmente la sua se avesse saputo dimostrare coerenza e lungimiranza, con Fini e la Mussolini al 48% a Roma e Napoli.
Ora La Russa e i caporali di giornata certi personaggi non li attaccano più, li difendono, indagati per mafia compresi.
“Poi videro la Madonna che gli promise posti al sole, l’uscita dal ghetto, assegni e incarichi per i parenti”.
Dalle battaglie di tangentopoli all’uscio del partito degli accattoni.
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Gennaio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
LO HA AMMESSO LO STESSO BOSSI: “VENGONO DA FAMIGLIE LEGHISTE, I MIEI FIGLI LI CONOSCONO”…ORA IL SENATUR SI ARRAMPICA SUGLI SPECCHI: “MAGARI HANNO VOLUTO CHIUDERE IL CASO”: FORSE DIMENTICA CHE IL MINISTRO DEGLI INTERNI E’ IL SUO AMICO MARONI… MA NON ERANO ANTAGONISTI? ORA SONO PADANI? E CHI LI AVREBBE MANDATI ALLORA A SPARARE DUE PETARDI DI CAPODANNO PER POI MONTARE IL “GRAVE ATTENTATO”?
Gli uomini sospettati di essere i responsabili dell’attentato contro la sede leghista di Gemonio sono figli di militanti padani.
Lo ha ammesso Umberto Bossi, parlando con i giornalisti a Ponte di Legno.
Il leader leghista si è mostrato scettico sul fermo e la denuncia.
“Mia moglie pensa che abbiano voluto chiudere subito il caso”, ha spiegato. “Gli uomini coinvolti – ha aggiunto – “vengono da famiglie leghiste: i miei figli li conoscono”.
“La cosa non era tanto grave – ha concluso – quanto il messaggio inaccettabile”.
Il senatùr mostra quindi molte perplessità sul fatto che le persone fermate e denunciate siano effettivamente gli autori dell’attacco alla sede del Carroccio a Gemonio.
Gli elementi a carico dei due sono i materiali ritrovati nelle loro abitazioni. Materiali adatti a fabbricare esplosivi, armi da taglio e una pistola elettrica.
E’ comunque ancora da chiarire se siano effettivamente loro gli esecutori materiali dell’attentato e se vi siano altre persone coinvolte.
Elementi utili potrebbero emergere dalle analisi delle impronte digitali sui resti dei petardi artigianali, dai filmati delle telecamere di videosorveglianza in paese e dalle analisi del materiale esplosivo sequestrato durante la notte.
Ma a questo punto le cose non appaiono affatto chiare.
Bossi insinua che le forze dell’ordine abbiano voluto chiudere il caso in questo modo?
Ma se il ministro degli Interni è il suo amico Maroni, suvvia, siamo seri.
E quanto avrebbe dovuta durare la farsa del “grave attentato” alla sede della Lega, consistente in due petardi e nella semplice rottura di un vetro?
Bossi dovrebbe sapere che un attentato serio a una sede politica spesso la fa saltare per aria, altro che petardi di capodanno.
Seconda osservazione: i due fermati avevano in casa materiali adatti a fabbricare esplosivi, se sono figli di militanti leghisti, i genitori padani ne sapevano nulla?
Terza osservazione: o questi due ragazzi sono antagonisti, come hanno voluto farci credere fin dall’inizio, o sono padani, figli di militanti padani.
A questo punto chi li avrebbe mandati a sparare due petardi contro una sede leghista per poi guadagnare le prime pagine dei media, neanche avessero fatto saltare un ponte strategico in tempo di guerra?
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Gennaio 2nd, 2011 Riccardo Fucile
UN PAESE SENZA UNA STORIA CONDIVISA NEL PROFONDO, GOVERNI CHE OSCILLANO TRA RETORICA E OPPORTUNISMO…UNA POLITICA DEBOLE CHE NON RIESCE A SPIEGARE LE CIVILI RAGIONI DEL NOSTRO PAESE E SUBISCE PRIMA LA DOTTRINA MITTERAND, POI QUELLA SARKOZY E ORA PURE QUELLA DI LULA
La mancata estradizione di Cesare Battisti dal Brasile non è soltanto una sconfitta
diplomatica per l’Italia, ma il certificato simbolico della debolezza costituzionale di un paese che non crede in se stesso, nella sua storia e nei suoi valori.
Un paese abituato a cavarsela con la furbizia, a strappare arrangiamenti, a rendersi concavo con gli interlocutori convessi e convesso con i concavi, ma che quando si arriva al dunque non sa comunicare agli altri le ragioni del suo essere nazione perchè non ha una storia condivisa nel profondo, ma in oscillazione perenne tra la retorica e l’opportunismo.
E tutto ciò, sia chiaro, vale per la destra oggi al governo e per la sinistra che pure al governo c’è stata.
Il riconoscimento dello status di rifugiato politico a Battisti è uno schiaffo a tutto il paese.
La battaglia diplomatica per riavere l’ex terrorista (un criminale comune transitato alla sovversione politica, assassino riconosciuto in ogni grado di processo) trent’anni dopo la sua fuga dall’Italia era difficile, probabilmente impossibile.
Ma in ogni partita, oltre al risultato, conta come si gioca e la consapevolezza della posta in gioco, in questo caso la legittimità del nostro sistema giudiziario che nei riguardi del terrorismo è parte stessa della nostra storia.
Insomma, c’era in gioco l’interesse nazionale.
Ed è proprio quel che non si è visto affermato da noi, nè riconosciuto dagli altri.
Inutili le gesticolazioni dell’ultima ora: quando il presidente del Brasile Inacio Lula è venuto in visita in Italia abbiamo assistito allo spot del presidente del Consiglio Berlusconi che esibiva i giocatori brasiliani del suo Milan e abbiamo saputo che l’argomento Battisti non era nemmeno stato affrontato nei colloqui.
Ma d’altra parte nemmeno Massimo D’Alema (era stato lui stesso a confermarlo) aveva affrontato la questione nel suo incontro conl’ex leader della sinistra sindacale brasiliana divenuto presidente.
E così Lula, con la sua decisione di non estradare Battisti, non ha fatto altro che dar seguito a un sentimento comune, affermatosi a Parigi, trasmesso in Brasile e riverberato tale e quale da media e opinione pubblica sudamericana.
Dagli aneddotici caffè della Rive gauche all’esotica spiaggia di Copacabana è passato il messaggio di un criminale più forte di quello di un paese che doveva invece esigere il rispetto di un sentenza nel nome della sua storia e dei suoi cittadini.
Ma nessun leader italiano ha affrontato a viso aperto la questione.
Inutile — quando perdente e se c’è davvero stato — il lavorìo diplomatico. Melodrammatico e velleitario appare ora l’appello del ministro La Russa al boicottaggio dei prodotti brasiliani.
Il Brasile è un grande paese in piena espansione economica, destinato a guidare il sud del mondo con Cina e India in un futuro prossimo. E Lula di questo paese è stato un leader pragmatico, per nulla incline a sentimentalismi o a nostalgie pseudo rivoluzionarie.
Il fatto che sia proprio lui ora ad accordare lo statuto di rifugiato politico a Battisti che in Italia rischierebbe l’incolumità è una lezione inaccettabile e paradossale considerato lo stato delle carceri brasiliane.
D’altra parte l’equivoco ha radici lontane, almeno dalla metà degli anni Ottanta quando Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, concordò con il presidente socialista francese Franà§ois Mitterrand un accomodamento della situazione dei rifugiati italiani: Parigi avrebbe restituito solo i colpevoli dei “crimini di sangue” e tollerato gli altri purchè deponessero armi, propositi rivoluzionari e vivessero alla luce del sole.
In realtà , come ci raccontò anni dopo Gilles Martinet, allora ambasciatore francese a Roma, Craxi voleva evitare l’imbarazzo di gestire il rientro di ingombranti personaggi, a cominciare da Toni Negri.
Il “florentin” Mitterrand cavalcò la faccenda con cinismo e ipocrisia.
Nacque la “dottrina” intestata a suo nome che consisteva nel respingere ogni richiesta di estradizione, anche quelle per “crimini di sangue”.
Si installò allora tra gli intellettuali e l’opinione pubblica francese il mito dei sovversivi italiani rifugiati nella patria dei diritti civili e braccati da uno stato corrotto, mafioso e sostanzialmente rimasto fascista nel profondo.
Nessuno ha mai spiegato ai francesi che cosa erano stati gli anni di piombo in Italia e come se ne era usciti, in un concorso di solidarietà nazionale che aveva unito il paese.
Cesare Battisti è divenuto il prototipo perfetto del clichè: sottoproletario, criminale comune politicizzato, sovversivo dichiarato, evaso dalle carceri “speciali” e infine scrittore di “polar”, il genere più sociale e, naturalmente, “maledetto”.
Arrivato a Parigi nell’89 e subito arrestato non fu estradato per un vizio di forma. Ma allora il governo italiano non insistette più di tanto. Fino al 2002, quando fu un gardasigilli impolitico come il leghista Castelli a concordare con il collega Perben, per la prima volta dopo tanti anni la lista dei rifugiati da estradare: colpo di spugna sugli altri, ma rientro per una dozzina di assassini condannati.
Tra loro Battisti.
Il suo arresto, nel 2004, ha sollevato il caso che si è probabilmente chiuso per sempre.
Una mobilitazione di intellettuali e politici, un dibattito falso e ridicolo,nessuno che sapesse niente dell’Italia e di cosa era stato il terrorismo, un giornale come l’Humanitè arrivò a scrivere che Battisti era stato condannato da un tribunale militare senza diritto alla difesa.
E pensare che la Francia ha annientato fisicamente i propri, scarsi, terroristi condannati essi sì da un tribunale speciale sull’accusa di una procura speciale.
Anche in questo caso la Rèpublique ha dato lezioni di cinismo e ipocrisia: Battisti è stato dichiarato estradabile dai giudici ma quando il governo stava per emettere il decreto di rinvio all’Italia, l’ex terrorista è stato graziosamente aiutato a fuggire.
Gli uomini dei servizi — è stato lui stesso a raccontarlo — gli hanno fornito due passaporti e consigliato il Brasile.
Da Mitterrand, a Lula, passando per Sarkozy che per opportunismo ha preferito evitare uno scontro frontale con gli amici della sua bella moglie così sensibile all’esprit dei rifugiati.
Le buone e civili ragioni dell’Italia non gliele ha spiegate nessuno.
Cesare Martinetti
(da “La Stampa“)
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