CASO BATTISTI: UN SIMBOLO DELLA NOSTRA DEBOLEZZA
UN PAESE SENZA UNA STORIA CONDIVISA NEL PROFONDO, GOVERNI CHE OSCILLANO TRA RETORICA E OPPORTUNISMO…UNA POLITICA DEBOLE CHE NON RIESCE A SPIEGARE LE CIVILI RAGIONI DEL NOSTRO PAESE E SUBISCE PRIMA LA DOTTRINA MITTERAND, POI QUELLA SARKOZY E ORA PURE QUELLA DI LULA
La mancata estradizione di Cesare Battisti dal Brasile non è soltanto una sconfitta diplomatica per l’Italia, ma il certificato simbolico della debolezza costituzionale di un paese che non crede in se stesso, nella sua storia e nei suoi valori.
Un paese abituato a cavarsela con la furbizia, a strappare arrangiamenti, a rendersi concavo con gli interlocutori convessi e convesso con i concavi, ma che quando si arriva al dunque non sa comunicare agli altri le ragioni del suo essere nazione perchè non ha una storia condivisa nel profondo, ma in oscillazione perenne tra la retorica e l’opportunismo.
E tutto ciò, sia chiaro, vale per la destra oggi al governo e per la sinistra che pure al governo c’è stata.
Il riconoscimento dello status di rifugiato politico a Battisti è uno schiaffo a tutto il paese.
La battaglia diplomatica per riavere l’ex terrorista (un criminale comune transitato alla sovversione politica, assassino riconosciuto in ogni grado di processo) trent’anni dopo la sua fuga dall’Italia era difficile, probabilmente impossibile.
Ma in ogni partita, oltre al risultato, conta come si gioca e la consapevolezza della posta in gioco, in questo caso la legittimità del nostro sistema giudiziario che nei riguardi del terrorismo è parte stessa della nostra storia.
Insomma, c’era in gioco l’interesse nazionale.
Ed è proprio quel che non si è visto affermato da noi, nè riconosciuto dagli altri.
Inutili le gesticolazioni dell’ultima ora: quando il presidente del Brasile Inacio Lula è venuto in visita in Italia abbiamo assistito allo spot del presidente del Consiglio Berlusconi che esibiva i giocatori brasiliani del suo Milan e abbiamo saputo che l’argomento Battisti non era nemmeno stato affrontato nei colloqui.
Ma d’altra parte nemmeno Massimo D’Alema (era stato lui stesso a confermarlo) aveva affrontato la questione nel suo incontro conl’ex leader della sinistra sindacale brasiliana divenuto presidente.
E così Lula, con la sua decisione di non estradare Battisti, non ha fatto altro che dar seguito a un sentimento comune, affermatosi a Parigi, trasmesso in Brasile e riverberato tale e quale da media e opinione pubblica sudamericana.
Dagli aneddotici caffè della Rive gauche all’esotica spiaggia di Copacabana è passato il messaggio di un criminale più forte di quello di un paese che doveva invece esigere il rispetto di un sentenza nel nome della sua storia e dei suoi cittadini.
Ma nessun leader italiano ha affrontato a viso aperto la questione.
Inutile — quando perdente e se c’è davvero stato — il lavorìo diplomatico. Melodrammatico e velleitario appare ora l’appello del ministro La Russa al boicottaggio dei prodotti brasiliani.
Il Brasile è un grande paese in piena espansione economica, destinato a guidare il sud del mondo con Cina e India in un futuro prossimo. E Lula di questo paese è stato un leader pragmatico, per nulla incline a sentimentalismi o a nostalgie pseudo rivoluzionarie.
Il fatto che sia proprio lui ora ad accordare lo statuto di rifugiato politico a Battisti che in Italia rischierebbe l’incolumità è una lezione inaccettabile e paradossale considerato lo stato delle carceri brasiliane.
D’altra parte l’equivoco ha radici lontane, almeno dalla metà degli anni Ottanta quando Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, concordò con il presidente socialista francese Franà§ois Mitterrand un accomodamento della situazione dei rifugiati italiani: Parigi avrebbe restituito solo i colpevoli dei “crimini di sangue” e tollerato gli altri purchè deponessero armi, propositi rivoluzionari e vivessero alla luce del sole.
In realtà , come ci raccontò anni dopo Gilles Martinet, allora ambasciatore francese a Roma, Craxi voleva evitare l’imbarazzo di gestire il rientro di ingombranti personaggi, a cominciare da Toni Negri.
Il “florentin” Mitterrand cavalcò la faccenda con cinismo e ipocrisia.
Nacque la “dottrina” intestata a suo nome che consisteva nel respingere ogni richiesta di estradizione, anche quelle per “crimini di sangue”.
Si installò allora tra gli intellettuali e l’opinione pubblica francese il mito dei sovversivi italiani rifugiati nella patria dei diritti civili e braccati da uno stato corrotto, mafioso e sostanzialmente rimasto fascista nel profondo.
Nessuno ha mai spiegato ai francesi che cosa erano stati gli anni di piombo in Italia e come se ne era usciti, in un concorso di solidarietà nazionale che aveva unito il paese.
Cesare Battisti è divenuto il prototipo perfetto del clichè: sottoproletario, criminale comune politicizzato, sovversivo dichiarato, evaso dalle carceri “speciali” e infine scrittore di “polar”, il genere più sociale e, naturalmente, “maledetto”.
Arrivato a Parigi nell’89 e subito arrestato non fu estradato per un vizio di forma. Ma allora il governo italiano non insistette più di tanto. Fino al 2002, quando fu un gardasigilli impolitico come il leghista Castelli a concordare con il collega Perben, per la prima volta dopo tanti anni la lista dei rifugiati da estradare: colpo di spugna sugli altri, ma rientro per una dozzina di assassini condannati.
Tra loro Battisti.
Il suo arresto, nel 2004, ha sollevato il caso che si è probabilmente chiuso per sempre.
Una mobilitazione di intellettuali e politici, un dibattito falso e ridicolo,nessuno che sapesse niente dell’Italia e di cosa era stato il terrorismo, un giornale come l’Humanitè arrivò a scrivere che Battisti era stato condannato da un tribunale militare senza diritto alla difesa.
E pensare che la Francia ha annientato fisicamente i propri, scarsi, terroristi condannati essi sì da un tribunale speciale sull’accusa di una procura speciale.
Anche in questo caso la Rèpublique ha dato lezioni di cinismo e ipocrisia: Battisti è stato dichiarato estradabile dai giudici ma quando il governo stava per emettere il decreto di rinvio all’Italia, l’ex terrorista è stato graziosamente aiutato a fuggire.
Gli uomini dei servizi — è stato lui stesso a raccontarlo — gli hanno fornito due passaporti e consigliato il Brasile.
Da Mitterrand, a Lula, passando per Sarkozy che per opportunismo ha preferito evitare uno scontro frontale con gli amici della sua bella moglie così sensibile all’esprit dei rifugiati.
Le buone e civili ragioni dell’Italia non gliele ha spiegate nessuno.
Cesare Martinetti
(da “La Stampa“)
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