Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
CI MANCAVANO PURE GLI SMS ALLA BEGAN PUBBLICATI COME GOSSIP: LA BASE DI FLI INDIGNATA… BOCCHINO QUERELA, MA GLI SMS NE COMPROMETTONO ORMAI L’IMMAGINE… FURBO O INGENUO CHE SIA, SI E’ DIMOSTRATO NON ALL’ALTEZZA DEL COMPITO DI GUIDARE UN PARTITO CHE HA BISOGNO DI UN RILANCIO E DI UNA LINEA POLITICA
Speravamo di non dover tornare sull’argomento del gossip estivo Bocchino-Began che peraltro
ci ha interessato solo per l’eventuale uso improprio di un’auto di servizio da parte del vicepresidente e factotum di Fli.
Perchè se un politico è libero ovviamente di frequentare chi gli pare, altra cosa è farsi beccare in castagna sull’uso improprio di un’auto di Stato.
Altra cosa ancora è invece la scorta che è obbligatoria per i segretari di partito.
Avevamo solo sottolineato che sarebbe stato opportuno che ogni tanto Bocchino scegliesse per la sua compagnia qualche persona normale e non nello specifico l’Ape regina del premier come viene definita Sabina Began.
E che certe frequentazioni fossero pericolose lo si evince ora dallo sputtanamento cui è sottoposto il vice di Fini ad opera di Dagospia e altri gossippari, alla luce degli sms che avrebbe inviato alla Began e che lei ha reso pubblici.
Qui di seguito riproduciamo l’intervista che la Began ha rilasciato a “Vanity Fair” e a seguito della quale Bocchino ha presentato querela.
Decideranno i giudici nello specifico, ma resta un risvolto politico ineludibile.
Un segretario politico deve avere una credibilità , non può apparire nè un ingenuo (nel migliore dei casi) nè un cretino che in privato contraddice quello che sostiene in pubblico.
E quella frase che citiamo nel titolo, se confermata, vale il biglietto di sola andata per altri lidi, certamente non futuristi.
Non esiste che una base politica si debba far rappresentare da un personaggio chiacchierato per vicende personali ambigue o che sia vittima costante di tranelli in cui casca con pervicace recidività .
Contestualmente a certe presunte affermazioni private poi, Bocchino pare abbia intrapreso una lenta marcia di riavvicinamento politico al centrodestra (come ama dire lui), ovvero al Pdl dei corrotti e alla Lega razzista, come preferiamo definirli noi.
Due partiti che tutto rappresentano salvo che una destra che fa della legalità , della giustizia sociale, dell’unità nazionale e della meritocrazia una bandiera.
Se Bocchino attraversa una fase di confusione, abbia l’onestà di farsi da parte e si prenda qualche mese di riflessione.
Così avrà tempo e modo di meditare sui tanti errori da lui compiuti nella gestione organizzativa e territoriale di Fli, su una linea politica che ha portato il partito a dimezzare i consensi in pochi mesi e sulle sue frequentazioni e amicizie (anche liguri).
Coerenza e credibilità non sono merce adatta a tutte le stagioni.
L’articolo di Vanity Fair con l’intervista alla Began
«All’improvviso mi aggredisci senza ragione. Io mi sono aperto con te, sto bene con te e mi piaci. Ma sono sensibile e quando mi tratti male soffro».
Così scrive, via sms, l’onorevole Italo Bocchino, vicepresidente di Futuro e libertà , il partito fondato da Gianfranco Fini, all’attrice Sabina Began, nota anche come l’«Ape regina» di Silvio Berlusconi, la donna che avrebbe presentato Gianpaolo Tarantini al premier.
E ancora: «Mi vuoi perchè te lo chiedo io o perchè mi desideri?».
È successo quello che non si poteva credere: tra uno dei più duri oppositori del premier e una delle dame a lui più vicine, quest’estate è sbocciata una relazione affettuosa, paparazzata, chiacchierata. E finita male.
Mentre Italo continua a inviarle messaggini («Sono entrato in casa e con tristezza penso di aver rovinato un’amicizia per cose superficiali»), Sabina, che ci ha aperto il suo cellulare, non ne vuole più sapere e dice: «Deve lasciare in pace me e il mio telefono».
Signora Began, come vi siete conosciuti?
Ero a tavola al ristorante Assunta Madre di Roma. Passa Bocchino e mi lancia uno sguardo. Dopo poco si fa presentare dal padrone del locale. Si siede, mi prende la mano e mi dice: “Mi dai un bacio?”. Ero pietrificata.
E poi?
Non gli ho dato nessun bacio, ma il numero di telefono sì. Devo ammettere che Italo è simpatico e galante. Mi ha chiamata per invitarmi a Forte dei Marmi in barca, non sono andata perchè era troppo frettoloso. Ero molto titubante, gli ho detto: “Tu odi Berlusconi che invece io adoro. Non credo che potremmo frequentarci”. Ma lui ha replicato: “Non lo odio, anzi lo stimo e sono come lui”. Così abbiamo iniziato un’amicizia.
Poi Bocchino l’ha invitata a Ravello dove vi hanno paparazzati.
Veramente è lui che è venuto con me, ospite del patron di Villa Rufolo, che è un mio amico.
Lei ha detto che in Costiera amalfitana siete andati con auto blu e scorta. Sicura?
Certo che sono sicura. Italo mi aveva chiesto di non rivelarlo, ma non voglio mentire per lui.
Bocchino sostiene che lei sia stata mandata tra le sue braccia da Berlusconi per screditarlo come avversario politico.
Falso. Ma se è lui che mi ha abbordata? Italo è una persona intelligente, parla bene, ha doti da politico moderno: ho pensato che fosse un peccato la rottura con Berlusconi. Quindi ne ho parlato con il premier, che nella mia vita è un faro assoluto, per capire se ci fossero margini di riconciliazione. Lui, pur sottolineando il fatto che era stato attaccato da Bocchino tante volte, mi ha detto: “Vedremo, sono sempre aperto alla discussione”. Quindi ho creduto fosse possibile riunirli.
Ma Bocchino era d’accordo?
Certo. Lui diceva che con Berlusconi voleva fare pace. È convinto di essere stato cacciato dal Pdl per colpa della sua relazione con il ministro Mara Carfagna.
Perchè non è riuscita a riunire Bocchino e Berlusconi?
Credo che Italo non avesse nessuna intenzione di riavvicinarsi al premier, voleva solo farsi un po’ di pubblicità : gli piace accreditarsi come latin lover. E ho avuto la sensazione che i paparazzi fossero ben informati sulle nostre uscite.
Che tipo è?
Ha il suo fascino, ma è troppo stressato. Dovrebbe trasformare la sua rabbia in energia positiva. Infatti, l’ho portato da Salvatore Simeone e Laura Poggi, gli stessi medici che hanno consigliato digiuno e agopuntura a Berlusconi. Ho cercato di fargli del bene e lui invece mi ha screditato, parlando di “trionfo di Scilipoti
Bocchino ha seguito i suoi consigli?
Sì. Ha fatto alcune sedute di agopuntura e ha digiunato per due giorni proprio prima di andare a Ravello. Lui avrebbe voluto continuare, ma io gli ho detto: “Non ti faccio da infermiera in quel paradiso”. Io venivo da cinque giorni di depurazione e volevo godermela.
Ma alla fine lei ha ceduto alla sua corte?
Diciamo che mi sono lasciata sedurre, ma ho subito capito che non era alla mia altezza spirituale. Lui parla ancora di amicizia? Non è più gradita
Giovanni Audiffredi
(da “Vanity Fair“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
PAGELLE E TARIFFE SU ESCORT E FESTINI: UN CELLULARE DEDICATO PER PARLARE CON IL PREMIER DI DONNE E OTTENERE APPALTI… INGRAZIARSI IL CAVALIERE E AVVICINARE FINMECCANICA
Una sorta di hot line a luci rosse, usata per parlare con Silvio Berlusconi.
Solo con lui.
Nell’estate 2008, Gianpi Tarantini, aveva dedicato un telefono cellulare alle sole conversazioni con il premier.
I due lo utilizzavano per parlare di donne.
“Presidente…”, esordiva Gianpi, che al telefono usava sempre il lei.
“Dimmi Gianpi…”, rispondeva il Cavaliere, con intima confidenza.
Si parlava di donne, come vedremo, ma il vero obiettivo di Gianpi era ottenere appalti.
Per ingraziarsi il premier e avvicinare, per esempio, l’ambita costellazione di Finmeccanica.
Non è un caso se, nelle telefonate intercettate dalla Procura di Bari, in qualche occasione si parla di Pier Francesco Guarguaglini, presidente di Finmeccanica, oggi indagato a Roma per i fondi neri e le false fatturazioni.
E ancora: secondo le indiscrezioni, gli investigatori baresi — ascoltando, trascrivendo, cercando il bandolo della matassa del sistema Tarantini — si sarebbero imbattuti anche nella moglie di Guarguaglini, Marina Grossi, ad di Selex Sistemi Integrati: società controllata, appunto, da Finmeccanica.
E allora è inutile bollarla solo come una questione di sesso.
Negli atti baresi si scopre che Gianpi sfoglia il suo “catalogo” di ragazze, che sulla linea personale con il premier descrive minuziosamente la sua “merce”, parla della “bionda”, della “bruna”.
E poi l’età . Le misure. Le prestazioni.
Le telefonate raccontano il mercato degli incanti, serviti alla ghiotta, compulsiva fantasia erotica del Cavaliere.
In un alternarsi ossessivo, dove le richieste del premier si alternano alle offerte del lenone barese, un corto circuito nel quale non si capisce più se arriva prima l’offerta di Gianpi, il procacciatore di donne, oppure la richiesta del premier, ossessionato dalla possibilità di nuovi incontri.
In un’occasione, gli investigatori, scoprono che il premier ha un importante appuntamento istituzionale: eppure Gianpi lo chiama ugualmente.
Il premier risponde. Berlusconi spiega che ha degli impegni da mantenere, che non è il caso di incontrare nessuno, ma resta incuriosito dall’offerta: c’è una donna bellissima, disponibile, un’occasione che deve parergli imperdibile.
E infatti: ci pensa su.
Questo era il rapporto tra Tarantini e il premier nell’estate del 2008, quando decine di donne — “trenta o forse quaranta”, ha detto Tarantini ai pm napoletani, che l’hanno interrogato nei giorni scorsi — facevano la spola tra Bari e Villa La Certosa in Sardegna, oppure s’infilavano, protette dai vetri oscurati, nella residenza di Palazzo Grazioli.
Ma c’è di più.
Nelle intercettazioni dell’inchiesta barese si scopre che l’intimità era tale, tra Gianpi e Berlusconi, che i due discutevano il “prima” — e cioè l’organizzazione delle serate — ma soprattutto il dopo: l’esito erotico degli incontri organizzati con il Cavaliere. Commenti grevi. Descrizioni spesso dettagliate.
Cronache senza censura riversate sui nastri della procura.
Racconti di cui Gianpi, a conoscenza fin nei dettagli, era diventato il depositario.
Ma non era l’unico: la linea diretta di Gianpi con il premier, quel telefono dedicato alle conversazioni sulle donne, fu scoperta e intercettata dalla Finanza, nell’inchiesta condotta, all’epoca, dal pm Giuseppe Scelsi.
Quelle telefonate — le stesse che, secondo la Procura di Napoli, erano oggetto del ricatto ordito da Tarantini e Valter Lavitola al premier — sono state trascritte e depositate in procura, per la chiusura dell’indagine, che ormai è prossima alla scadenza.
E si scopre che il lenone barese puntava in alto, molto in alto, secondo l’ipotesi dell’accusa.
I due parlavano di donne come se scegliessero da un campionario.
Il capitolo sulla prostituzione, però, è ormai soltanto un filone, rispetto all’ipotesi principale: la corruzione per ottenere appalti pubblici.
Un’intera associazione per delinquere, formata da ben 13 persone, per ottenere soldi e affari grazie all’intimità di Gianpi con il premier.
Nelle intercettazioni baresi si sente la voce del ministro Raffaele Fitto — sempre molto freddo, mai interessato ad alcuna donna, niente di sconveniente insomma — e questo dimostra la familiarità di Gianpi con il potere.
E poi c’è l’interesse di un dalemiano doc, l’imprenditore Enrico Intini, anch’egli abbagliato dall’ipotesi di chiudere appalti con le grosse aziende statali.
Non è un caso se Tarantini, circa un anno fa, fu convocato dalla Procura di Napoli, nell’inchiesta su Finmeccanica condotta dai pm Pierpaolo Filippelli, Vincenzo D’Onofrio e Raffaello Falcone.
Anche loro — già da allora — ebbero la netta impressione che Gianpi (e con lui Intini) puntasse ai grossi appalti di Finmeccanica.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
NELLA QUINTA VERSIONE DEL DECRETO PERLOMENO I CONT TORNANO… ALLA FINE LA SINTESI E’ “PIU’ TASSE PER TUTTI”… MANCANO MISURE PER LA CRESCITA E LO SVILUPPO
Se non li puoi convincere, confondili. È la legge di Truman. 
Berlusconi e Tremonti, ormai svuotati di spessore politico, la applicano alla manovra con rigore scientifico.
Dopo quattro tentativi miseramente falliti in appena due mesi, spunta ora la quinta versione del decreto anti-crisi.
Già questa abnorme bulimia quantitativa sarebbe sufficiente a giudicare disastrosa l’azione del governo.
Ma quello che stupisce, e indigna di più, è la totale schizofrenia qualitativa delle misure messe in campo.
A giugno Tremonti aveva garantito che, d’accordo con l’Europa, l’Italia non aveva bisogno di una vera e propria manovra di bilancio, e per questo aveva annunciato una modesta leggina di minima “surplace” contabile.
Ai primi di luglio abbiamo scoperto che eravamo sull’orlo dell’abisso.
Così è cominciata la folle teoria estiva dei decreti usa e getta.
Prima la stangata del contributo di solidarietà sui ceti medio-alti.
Poi la batosta sulle pensioni d’anzianità cumulate con il riscatto della laurea e della naja.
Poi ancora la finta caccia agli evasori fiscali a colpi di “carcere & condono”.
Trovate estemporanee di questo o quel ministro, frustate casuali all’una o all’altra categoria.
Senza logica politica, senza tenuta economica.
Non solo i cittadini allibiti e gli speculatori affamati, ma l’intero establishment interno e internazionale ha fatto giustizia di tanta irresponsabile approssimazione.
L’Unione Europea e la Bce, la Banca d’Italia e la Confindustria. Da ultimo, addirittura il Capo dello Stato, che con il suo intervento ufficiale di due giorni fa ha compiuto un passo senza precedenti, fin dai tempi della Prima Repubblica.
Ha imposto la linea non solo sui tempi, ma persino sui contenuti della manovra.
Alla fine, dopo molte figuracce penose esibite sul mercato politico e molti miliardi bruciati sul mercato finanziario, il governo si è dovuto arrendere.
L’ennesima, radicale riscrittura della manovra non cancella le storture di fondo.
Con l’aumento dell’Iva e la reintroduzione della supertassa sui redditi oltre i 300 mila euro si fa persino più massiccio il ricorso alla leva fiscale, che già occupava quasi il 70% del menù dei provvedimenti varati nelle stesure precedenti.
Svanisce così, ormai anche sul piano simbolico, la ridicola promessa del Cavaliere: “Non mettiamo le mani nelle tasche dei contribuenti”, aveva giurato il premier, che ora invece in quelle tasche ci entra non solo con le mani, ma con tutte le scarpe.
Si anticipa il giro di vite sull’età pensionabile delle donne, e si rinuncia così a qualunque ambizione riformatrice più generale sul capitolo della previdenza.
Resta la drammatica carenza di misure concrete per la crescita e lo sviluppo.
Resta la plastica evidenza di un governo che non ha una visione sulla società italiana di oggi, nè una soluzione per quella che vuole costruire domani.
Tuttavia la quinta manovra, per quanto iniqua e sgangherata, almeno un pregio ce l’ha: i saldi contabili sono finalmente più solidi, come la stessa Commissione di Bruxelles ha già puntualmente riconosciuto.
È certo il gettito in aumento dell’imposta sul valore aggiuntivo, il “male minore” invocato da tempo dalla Banca d’Italia e osteggiato per puro puntiglio dal ministro del Tesoro.
È certo l’incasso a regime dell’intervento sulle pensioni delle donne, suggerito da Confindustria e ostacolato per puro ideologismo dal leader della Lega.
È certo, per quanto risibile, il maggior introito del mini-tributo di solidarietà per i ceti più abbienti, inopinatamente preferito a una seria imposta sui grandi patrimoni per puro opportunismo elettorale.
Dunque, almeno sulla copertura integrale dei 45 miliardi, la manovra risulta oggettivamente migliorata.
Anche se rimane la sua irrimediabile inefficacia, rispetto alle esigenze di equità sociale e alle urgenze di rilancio del Pil.
E anche se rimane la sua probabile insufficienza, rispetto agli impegni sottoscritti in Europa sul pareggio di bilancio e alle aspettative delle società di rating e della business community
Quella di ieri, in definitiva, è solo una tardiva “riduzione del danno”.
I problemi dell’Italia sono tutt’altro che risolti.
Nel momento in cui aggiusta la manovra, il governo certifica paradossalmente la sua fine. Berlusconi, Bossi e Tremonti si acconciano a continui compromessi al ribasso, ormai logorati dentro una convivenza da separati in casa, che li spinge a camminare a tentoni nella buia notte calata su Eurolandia.
Il governo non c’è più.
Lo sostituisce Napolitano, lo commissaria la Banca d’Italia, lo etero-dirigono i mercati.
La stessa coalizione di centrodestra ne è tanto consapevole, che si vede costretta all’ultimo sfregio alle istituzioni: la richiesta del voto di fiducia, su una manovra che lo stesso Pd era pronto a non votare ma a non ostacolare, sembra più un atto di forza interno al centrodestra che non un atto di sfida rivolto al centrosinistra.
In queste condizioni si può tamponare un’emergenza congiunturale, ma non si può affrontare una crisi globale.
Lo scrive ormai anche la grande stampa mondiale, dal “Wall Street Journal” al “Financial Times”: l’Italia è unanimemente considerata la zavorra che rischia di affondare l’euro.
Per questo, ancora una volta, l’unica via d’uscita da questa tempesta imperfetta è l’approvazione rapida del decretone, e poi le dimissioni immediate del governo. Sarebbe l’ultimo, e forse l’unico gesto di responsabilità compiuto dal presidente del Consiglio.
Con la quinta manovra si recupera un po’ di attendibilità aritmetica, ma non si ricostruisce la credibilità politica.
Quella, per il Cavaliere, è perduta per sempre.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
RETROMARCIA DEL GOVERNO PER EVITARE UNA CENSURA PUBBLICA DAL COLLE… LA LEGA SI RIMANGIA LA BATTAGLIA SULLE PENSIONI… IL FANTASMA DEL GOVERNO TECNICO

«Siamo rimasti basiti». Nei piani alti del governo, riconoscono che l’intervento di Napolitano sulla manovra («servono misure più efficaci») è stato uno choc.
Ancora niente, però, a confronto di quello che il Cavaliere ha passato nella memorabile notte a cavallo tra il 5 e il 6 settembre.
Quando i soliti canali diplomatici l’hanno avvertito che dal Colle l’indomani sarebbe arrivato di molto peggio: una pubblica dichiarazione nella quale Napolitano avrebbe denunciato l’inerzia del Cavaliere davanti a una crisi così drammatica.
In pratica, il «de profundis» per un governo incapace di assumersi le proprie responsabilità su Iva, pensioni e rispetto degli impegni assunti con l’Europa.
«Avrebbe potuto ricorrere alla moral suasion, invece Napolitano è entrato a gamba tesa», si lamentano a Palazzo Chigi.
Pare certo che dietro ci fosse pure Draghi, futuro presidente della Bce, stanco di attendere quanto da due settimane aveva suggerito al governo.
Sta di fatto che la minaccia dal Colle ha ottenuto il suo scopo. Berlusconi ha alzato finalmente la testa dalle carte giudiziarie, s’è attaccato al telefono, è volato a Roma dove non metteva piede da 23 giorni, ha riunito il vertice di maggioranza e il Consiglio dei ministri, tutto a tempo di record proprio per scansare i fulmini presidenziali.
Dopodichè, Silvio ha avuto il coraggio di sostenere con gli amici che era tutto merito suo.
«Ho pilotato io la manovra», si è vantato a sera, «è stato il sottoscritto a convincere Bossi e Tremonti». Napolitano? Sì, certo, il presidente «mi ha dato un aiuto…».
Adesso l’interrogativo è: la terza versione del decreto sarà sufficiente?
Oppure l’offensiva contro l’Italia proseguirà imperterrita?
Nell’entourage del premier incrociano le dita. Si attendono che la Bce, finalmente accontentata, riprenda a comprare i nostri poveri Btp. Spiegano l’ottimismo: «Lo spread viene deciso a Francoforte».
Tremonti, dicono, è alquanto scettico.
Anche per questo lui puntava i piedi, non avrebbe cambiato una virgola dell’ultimo decreto. Non ha detto, sia chiaro, che Draghi tira le fila di una congiura politica contro il governo; nè Giulio ha indicato in Soros il manovratore dietro le quinte dell’assalto speculativo.
Eppure il ministro, durante il vertice a Palazzo Grazioli, ha evocato «manine» e «manone», ambienti politico-finanziari cui non dispiacerebbe che questo governo finisse a zampe per aria. Argomenti che sul nostro premier esercitano sempre una certa suggestione.
Giusto ieri gli hanno dato fastidio le critiche dalla Spagna, ma soprattutto quelle della Merkel. «A Berlino non si rendono conto che, se salta l’Italia, crolla l’euro e ci va di mezzo pure la Germania».
L’unica vera certezza (salvo dietrofront) è che «non ci sarà una terza manovra di qui a un mese», giurano tutti i protagonisti della giornata di ieri.
«A questo punto basta così», sparge assicurazioni il Cavaliere.
Il portavoce Bonaiuti fa due conti: «Ci chiedevano il pareggio di bilancio, ora i saldi saranno perfino meglio di quelli prefissati». Che altro possono pretendere gli investitori?
Estratti del Berlusconi-pensiero raccolti: «Abbiamo raschiato il fondo del barile, tutto quello che ci era possibile fare, eccolo qui. Abbiamo tolto alla speculazione ogni alibi. Se si insiste con certe critiche, vuole dire solo che c’è una manovra contro il Paese, contro di noi».
Qualunque cosa accada sui mercati, Berlusconi sa di non poter più modificare neppure una virgola, specie sulle pensioni. Bossi lo manderebbe a quel paese, la maggioranza andrebbe in briciole.
L’anticipo di due anni per le lavoratrici nel settore privato è il massimo che Berlusconi è riuscito a strappare in una concitata battaglia con la Lega.
Nella telefonata con l’Umberto, lunedì sera, s’era trovato di fronte un muro.
Durante il vertice di ieri idem, con l’emissario del Carroccio Calderoli che aveva sul collo il fiato del Senatùr.
Nel giro leghista si narra di una telefonata ringhiosa piovuta da Gemonio a Palazzo Grazioli, «che diavolo state combinando lì?».
In compenso Berlusconi ha ottenuto dalla Lega disco verde all’aumento dell’Iva. Tremonti è rimasto isolato.
Si è arreso solo quando il collega di governo Frattini è uscito di mattina dal Quirinale mettendo in chiaro: «L’appello di Napolitano va preso sul serio».
L’accerchiamento di Tremonti è stato completo allorchè da Bruxelles ha incominciato a premere perfino Tajani, vicepresidente della Commissione Ue (messo sapientemente in moto da Gianni Letta).
Una trattativa caotica che Berlusconi tenta di minimizzare: «Confusione? Quando il governo si regge su una coalizione di partiti, non può essere diversamente».
E poi, teorizza da politologo Quagliariello, «una manovra così importante nella Prima Repubblica avrebbe travolto non uno ma tre governi, mentre noi siamo ancora vivi».
Ancora per quanto?
Incombe sul Cavaliere lo spettro del governo tecnico, guidato da Monti, o istituzionale (l’attivismo di Schifani viene visto dai «berluscones» con crescente sospetto).
Si dà coraggio il premier: «Siamo un governo legittimo, abbiamo la maggioranza nel Parlamento, nessuno può permettersi di far saltare il banco».
Amedeo La Mattina e Ugo Magri
(da “La Stampa“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
NESSUN SOPRASSALTO DI DIGNITA’ DA PARTE DEGLI ITALIANI DI FRONTE A UN INSULTO CHE RIGUARDA TUTTI I CITTADINI….SONO 17 ANNI CHE QUESTO MITOMANE SCHIZOIDE DELEGITTIMA TUTTE LE ISTITUZIONI DELLO STATO
“L’Italia è un Paese di merda”. 
Capisco che il presidente della Repubblica, che pur ogni giorno ci rompe i timpani con la retorica dell’Unità d’Italia, abbia le mani legate perchè quell’espressione Berlusconi l’ha usata in una conversazione privata, peraltro con uno di quegli avanzi di galera di cui il premier italiano ama circondarsi. Capisco, per gli stessi motivi, il silenzio del presidente della Camera e del Parlamento oltre che la dovuta inerzia della Magistratura.
Ma mi aspettavo un sussulto, un soprassalto di dignità da parte degli italiani, che a differenza delle cariche istituzionali non hanno obblighi di forma.
Non per un malinteso senso di orgoglio nazionale, ma perchè quella frase, privata o meno, offende tutti noi, uomini e donne, singolarmente presi, dandoci dei ‘pezzi di merda’.
Mi aspettavo quindi che gli italiani scendessero in strada, non per il solito e inutile sciopero politico alla Camusso, ma per dirigersi, con bastoni, con randelli, con mazze da baseball, con forconi verso la villa di Arcore o Palazzo Grazioli o qualsiasi altro bordello abitato dall’energumeno per cercare di sfondare i cordoni di polizia e l’esercito di guardie private da cui è difeso, e dirgli il fatto suo.
Invece la cosa è passata come se nulla fosse. Encefalogramma piatto.
A parte un articolo sul Fatto del solito Travaglio , che ha trattato l’argomento, se così vogliamo chiamarlo, con la consueta, magistrale ironia.
Ma non è più il tempo dell’ironia, che depotenzia la gravità dei fatti.
Sono 17 anni che costui de-legittima, di volta in volta, impunemente tutte le Istituzioni dello Stato: il presidente della Repubblica, il presidente della Camera, la magistratura ordinaria, la Corte costituzionale, la Cassazione, la magistratura civile, la Corte dei conti, il Tar, il governo (quando non c’è lui), il Parlamento (quando non ne ha il controllo) e adesso, in blocco, il popolo italiano.
Sono 17 anni che costui insulta tutti impunemente: “Pm eversivi”, “Pm sovversivi”, “Pm peggio della criminalità “, “i magistrati milanesi come la mafia”, “magistratura metastasi”, “magistratura cancro della società “, “i giudici sono antropologicamente dei pazzi”, “l’opposizione è criminale”, “i giornali sono criminali”.
E non è che un florilegio minimo di un repertorio che va avanti da 17 anni. Fino a quando tollereremo che questo mitomane schizoide, questa faccia di bronzo, questa faccia di palta, questo corruttore di magistrati (nessuno crederà , sul serio, che Previti abbia pagato in nome proprio il giudice Metta perchè ‘aggiustasse’ il Lodo Mondadori a favore della Fininvest), corruttore di testimoni (Mills), corruttore della Guardia di Finanza, concussore della polizia (caso Ruby), creatore di colossali ‘fondi neri’, campione, attraverso decine di società ‘offshore’, di quell’evasione fiscale che oggi dice di voler combattere (proprio lui che incitò gli italiani a ‘eludere’ le tasse)?
Democraticamente non c’è difesa quando esiste una maggioranza parlamentare che, in spregio a ogni principio di uguaglianza, sforna a raffica leggi ‘ad personam’ ed è persino disposta ad avallare la tesi che la marocchina Ruby fosse creduta nipote del presidente egiziano Mubarak.
E se oggi “l’Italia è un Paese di merda” è perchè abbiamo permesso a questo inqualificabile individuo, con la complicità dei suoi sgherri e ‘servi liberi’, di cacarci sopra per 17 anni.
Massimo Fini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
RIFLESSIONI A MARGINE DEL PRESUNTO GIRO CICLISTICO DELLA PADANIA
Vi è mai successo di fare un sogno in cui le persone compiono gesti assurdi come se fossero normali e vi guardano come se i pazzi foste voi?
Dopo una peperonata sognai un amico che scalava l’Everest in pigiama.
Ma nemmeno tutte le peperonate del mondo riuscirebbero a partorire lo scenario surreale che si dipana davanti ai nostri occhi sbarrati: il giro ciclistico della Padania nel centocinquantenario dell’unità d’Italia.
Autorizzato dalla federazione del ciclismo, finanziato da fior di sponsor, corso da Ivan
Basso e benedetto dal commissario tecnico della nazionale italiana.
Il giro della Padania è un’idea di Bossi e anticipa la sceneggiata del Dio Po toccandone alcuni siti caratteristici.
Se poi restasse qualche dubbio sulla paternità della peperonata, il primo della classifica generale indosserà una maglia di colore verde.
Ma il vero incubo è stata la reazione degli addetti ai lavori.
Un dirigente ciclistico ha detto: c’è anche il giro di Sardegna, eppure non si scandalizza nessuno.
Ho capito, ma la Sardegna esiste, sta nelle cartine geografiche.
La Padania solo nella testa di una parte minoritaria di cittadini del Nord.
Vi raccomando poi la reazione dei politici locali del centrosinistra che hanno negato il passaggio della Corsa Verde nelle province amministrate da loro, frapponendo impedimenti fasulli e scuse arzigogolate.
Mentre bastava dire: non vi facciamo passare perchè la Padania non esiste e quindi non esiste neanche il vostro Giro secessionista, che va fermato per vilipendio dello Stato.
Qualcuno avvisi il ministro degli Interni.
Sarà mica in bici anche lui?
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
IN TEMPI DI CRISI SI PARLA DI METTERE SUL MERCATO ALCUNI BENI DELLO STATO…MA NON ESISTE UN ELENCO COMPLETO: IL DEMANIO TACE, I MINISTRI SI DEFILANO E LE COMMISSIONI RISULTANO INUTILI
Come in una porta girevole, in questi giorni arruffati in cui il governo è alla ricerca disperata di
soldi, l’idea di vendere pezzi del patrimonio dello Stato per fare cassa entra ed esce dalle stanze di palazzo Chigi.
Ma poi si scopre che non esiste neppure uno straccio di censimento della reale consistenza immobiliare, neanche per le caserme che invece, secondo la disinformacja governativa, sarebbero lì belle pronte in attesa di acquirenti vogliosi.
Le caserme e i beni della Difesa (terreni, fari, forti, magazzini, polveriere) ci sono e tanti, presumibilmente con un valore ingente, dell’ordine delle decine e decine di miliardi di euro.
Ma nessuno sa con precisione quanti siano quelli disponibili e tanto meno di quanti metri quadrati si parla.
Sembra impossibile, ma è così.
Ci ha battuto il naso anche Paolo Cirino Pomicino che con grande sorpresa ha dovuto constatare che per la vendita dei beni militari siamo ancora all’anno zero, o quasi.
Ex luogotenente di Giulio Andreotti, ex potentissimo presidente della Commissione bilancio della Camera, più volte ministro ai tempi della Prima Repubblica e infine coinvolto nella vicenda Enimont e condannato, Pomicino è uno che di vendita del patrimonio pubblico se ne intende.
Esattamente vent’anni fa varò la prima società ad hoc, Immobiliare Italia, ed ora non è affatto ostile a questo governo, anzi, in qualche modo ne fa parte.
Su proposta di Gianfranco Rotondi, ministro per l’attuazione del programma, è stato nominato presidente di un Dipartimento di palazzo Chigi, il Comitato tecnico-scientifico per il controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato.
Un incarico «svolto a titolo gratuito», come lui stesso insiste a precisare.
In quella veste Pomicino chiede con insistenza da 11 mesi al ministero della Difesa e a mezzo governo l’elenco dettagliato dei beni. Inutilmente.
Dopo tanto tempo sprecato e una corrispondenza fitta con il ministro Ignazio La Russa, il suo capo di gabinetto, generale di Corpo d’armata Claudio Graziano, il sottosegretario Guido Crosetto, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, sconsolato Pomicino si è rivolto pure ad Antonio Martone, presidente di un’altra commissione governativa dal nome altisonante, Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle pubbliche amministrazioni (Civit), un organismo presentato come uno strumento formidabile per l’efficienza delle mezze maniche statali, voluto con caparbietà dal ministro Renato Brunetta.
Martone, che per quell’incarico prende 165 mila euro all’anno mentre i commissari 135, ha risposto a Pomicino che l’affare non lo riguarda, limitandosi ad esprimere un generico auspicio di circostanza, cioè «che nel frattempo il problema possa aver trovato una soluzione, anche parziale».
Caustico, Pomicino gli ha risposto con una lettera al fulmicotone di tre righe: «Non pensavo che la scarsa efficienza dei dirigenti del Demanio militare non fosse di competenza della commissione da te presieduta».
Quindi lo ha invitato «con amicizia» ad un incontro «per capire finalmente che cosa fa la tua commissione».
Il carteggio tra Pomicino e i ministri è una specie di metro per misurare tutta la distanza che separa le roboanti velleità governative e la sconsolante pedestrità dell’azione effettiva.
La prima lettera è del 15 ottobre di un anno fa. Pomicino chiede alla Difesa «il numero di edifici con il complessivo numero di metri quadrati utilizzati dal ministero e dalle quattro armi».
Dieci giorni dopo il capo di gabinetto del ministro gli risponde buttando la palla in corner: «E’ attualmente in fase di implementazione una mappatura completa e particolareggiata» e senza fissare date e termini promette che quando i dati saranno pronti «sarà cura di questo Dicastero» fornirli.
Passano appena quattro giorni e Pomicino segnala «con grande disappunto» la faccenda a Gianni Letta e al ministro Rotondi.
Facendo fatica a credere che la lista non esista, insinua il dubbio che il capo di gabinetto non abbia comunicato i dati, pur avendoli, perchè «qualcuno» gli ha detto di fare così, presumibilmente il ministro La Russa intenzionato, magari, a gestire in prima persona l’interessante affare della vendita delle caserme.
Pomicino insiste e fa notare che, se «la mappatura è in fase di implementazione», come dice il capo di gabinetto, vuol dire che ci sarebbe un elenco più vecchio, che però non è saltato fuori.
La desolante verità è che probabilmente non esiste proprio alcun elenco.
Una quindicina di giorni dopo, novembre 2010, anche Letta scrive a Pomicino e con il solito stile di dire sempre sì a tutti tanto non costa nulla, gli assicura che «il ministero della Difesa fornirà riscontro agli elementi richiesti».
Due mesi dopo, però, il sottosegretario Crosetto riporta la faccenda al nastro di partenza e annunciando decisive «sinergiche e interattive azioni» tra l’Area tecnico-operativa e quella tecnico-amministrativa del ministero, alla fine comunica a Pomicino che la lista «è in continuo divenire».
Quindi non disponibile. In primavera Pomicino si rivolge al presidente Martone e Martone gli risponde picche.
D’estate Pomicino insiste. Nulla.
Siamo a un passo dall’autunno, Crosetto assicura che la lista negata a Pomicino ci sarebbe e a riprova della sua esistenza manda questi 2 messaggini per telefono.
Primo: «Infrastrutture Difesa 5.815 di cui 1.763 di reale valore».
Secondo: «Esclusi gli alloggi». Punto.
Ottimo e abbondante per la truppa.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
BOCCIATA LA PROPOSTA DI UN’ASTA PER L’ASSEGNAZIONE DELLE NUOVE FREQUENZE TV DIGITALI…. UNA MISURA CHE AVREBBE POTUTO ALLEGGERIRE LA SCURE SUI TAGLI AGLI ENTI LOCALI…. UN ALTRO CASO EMBLEMATICO DEL CONFLITTO DI INTERESSI DEL PREMIER
“In commissione Bilancio ci abbiamo provato, ma è andata male”.
E’ la delusione il sentimento principale fra le file del Partito democratico che al Senato si è visto bocciare per un solo voto (13 contro 12) il suo emendamento alla manovra sull’asta per le frequenze televisive.
La normativa, presentata dai senatori Luigi Zanda e Vincenzo Vita e condivisa anche da Italia dei valori e Terzo polo, puntava a indire un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze generate dal passaggio della televisione dalla tecnologia analogica a quella digitale.
Ma le opposizioni hanno sbattuto contro un muro e il cosiddetto “dividendo digitale” sarà assegnato alle emittenti che parteciperanno alla gara tramite un “concorso di bellezza” (beauty contest): senza che lo Stato guadagni un euro dall’operazione.
Eppure, proprio in questi giorni, è in corso un’altra competizione che riguarda le compagnie telefoniche.
Come nel caso delle tv, i colossi delle telecomunicazioni (Wind, Telecom Italia, Vodafone e H3g) stanno dandosi battaglia per conquistare un’altra porzione di etere (sempre liberata dalla digitalizzazione-compressione dei segnali televisivi) su cui far correre i servizi multimediali della telefonia mobile (la futura rete 4G).
La differenza fra le due gare è che nel caso delle emittenti televisive l’Agcom, e ministero dello Sviluppo economico hanno optato per il beauty contest, mentre per le Tlc si è scelta una normale asta competitiva.
Che, fra proposte iniziali e successivi rilanci, frutterà la bellezza di 3 miliardi di euro.
“E’ un caso di scuola del conflitto d’interessi del presidente del Consiglio — attacca Vita — che dimostra un concetto semplicissimo: finchè Silvio Berlusconi sarà al governo è semplicemente impossibile fare qualsiasi legge che vada a scalfire gli interessi di Mediaset”.
Alle televisioni del premier, assieme a Rai, Sky e altre emittenti, verrà fatto un regalo che se fosse stato messo all’asta avrebbe potuto fruttare fino a due miliardi di euro, andando ad alleggerire i tagli alla spesa pubblica che stanno mettendo in ginocchio gli enti locali.
“E’ un’ingiustizia — dice Zanda — Questa mattina abbiamo ricevuto i rappresentanti di comuni, province e regioni che illustravano come la mannaia del governo li costringerà a cancellare una serie di servizi, dai trasporti alla sicurezza. E la maggioranza cosa fa? Regala un prezioso bene dello Stato alle emittenti televisive”:
Le opposizioni hanno deciso di ripresentare lo stesso emendamento anche in Aula, in modo che, se non verrà posta la questione di fiducia, ci sarà almeno lo spazio per una discussione pubblica.
Perchè “l’interesse del governo è di far passare l’operazione sotto il massimo silenzio, dato che siamo di fronte a una palese ingiustizia: si taglia tutto, ma si regalano miliardi alle televisioni. Mediaset compresa”.
Una prova del massimo riserbo dell’esecutivo l’hanno avuta oggi i giornalisti che cercavano di strappare una dichiarazione al ministro dello Sviluppo economico.
Alla domanda sul perchè la maggioranza abbia deciso di regalare quel patrimonio ai canali televisivi, Paolo Romani non si è neanche degnato di rispondere.
“Non sapeva cosa dire”, scherza Zanda. “E se poi gli scappava la verità ?”, si chiede sarcasticamente Vita.
Entrambi però sono certi che il ministro con la bocca cucita sappia benissimo cosa fare: a partire da domani, quando prenderà il via la gara per l’assegnazione delle super-frequenze digitali.
Che sarà un’allegra sfilata di televisioni, sempre quelle, con tanto di regalo finale. Alla faccia dei tagli e del pluralismo dell’informazione.
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Settembre 7th, 2011 Riccardo Fucile
IL DANNEGGIAMENTO DEI MONUMENTI DEL NOSTRO PAESE E’ FRUTTO ANCHE DELLA POCA PRESENZA DELLO STATO E DEI CONTINUI TAGLI ALLA SICUREZZA…A ROMA LA SERA UNA VOLANTE OGNI 266.000 ABITANTI
Telecamere ce ne sono. 
Solo a Roma 2.500 puntate sulle piazze preziose, le fontane d’ autore, i pezzi della nostra storia.
Solo che non servono a fermare squilibratie vandali.
Spesso sono guaste, più spesso non c’ è nessuno a controllare in diretta quello che registrano.
Dice il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro: «I monitor non vengono osservati per mancanza di personale. Difficile intervenire in diretta, fermare il vandalo subito dopo il fatto. Riuscirci avrebbe un alto effetto deterrente».
Troppe volte non si trova la registrazione: «Succede che i vandali prima di allontanarsi individuino e spacchino anche le telecamere».
I beni artistici italiani da proteggere – è luogo comune mondiale – sono praticamente infiniti.
Dagli anni Settanta ad oggi non si è mai riusciti a realizzare un censimento dei nostri centri storici, ma l’ Italia oggi ospita 47 siti patrimonio dell’ umanità (nessuno come noi), 400 musei statali, 4.000 privati o di enti locali.
Sono mezzo milione gli edifici vincolati, 60 mila sono monumenti nazionali.
Un’ infinità di cose delicate viene affidata alla civiltà di chi vive negli ottomila comuni del paese, tutti con una piazza (almeno) da preservare.
Dopo il finto ordigno piazzato all’ interno del Colosseo lo scorso sette agosto, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha scoperto che da due anni agli ingressi dell’ Anfiteatro Flavio – tre milioni di presenze l’ anno – erano stati tolti i metal detector. Già , nonostante le 38 telecamere fisse e ruotanti (tre sono Speed Dome, possono vedere a 360°), «ci sono esibizionisti che si arrampicano fino all’ attico del Colosseo per il puro piacere di farlo».
Lo racconta un dirigente dei Beni culturali. D’ altronde, quando Sebastiano Intili spaccò la coda di un tritone della Fontana del Bernini di piazza Navona il suo avocato chiese in udienza dieci milioni di risarcimento: «Quell’ opera era fracica, il mio cliente si è ferito a un piede, poteva morire».
Il suo cliente aveva appena detto: «Giudice, me so’ arrampicato così per sfizio, come magnà er cocomero».
In quelle stagioni da sindaco Francesco Rutelli provò a decuplicare le multe per atti vandalici, il suo storico ufficio stampa Michele Anzaldi oggi dice: «Fermare branchi di ubriachi violenti è compito complicato, oggi i vigili non riescono neppure a far rispettare i divieti di sosta nelle piazze d’ arte».
Il direttore degli Uffizi segnala sfregi in aumento a Firenze e così il sovrintendete per i Beni storici della Puglia: «Mancano i soldi per aumentare i servizi di controllo, i Comuni non riescono a inviare pattuglie di vigili urbani, le polizie sono impiegate su altri interventi».
A Roma, la sera, è disponibile una volante ogni 266 mila persone e due terzi degli agenti della municipale lavora in ufficio.
Non si riesce ad ottenere pattuglie fisse sui tre luoghi più conosciuti nel mondo: il Colosseo, piazza Navona, piazza di Spagna, tuttie tre colpiti nel 2011.
Con una spesa di 5 milioni ad ogni appalto rinnovato, da tempo nella capitale si è scelta la strada delle telecamere a sorveglianza: 2.500 installate dalla società Dab e collegate con una sala operativa della polizia municipale e della soprintendenza (dieci persone su quattro turni 24 ore al giorno).
Gli assessori romani Ciardi e Gasperini sostengono che quelle piazzate al Campidoglio inquadrarono persino l’ imprendibile “lupo” Luciano Liboni, ucciso poi al Circo Massimo.
Il sovrintendente Umberto Broccoli, più noto come autore televisivo, assicura che il sistema funziona: «A Roma il vandalismo è diminuito del venti per cento».
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