Ottobre 15th, 2011 Riccardo Fucile
GIA’ CONSIGLIERE REGIONALE, ANNALISA VESSELLA, MOGLIE DEL DEPUTATO DEI RESPONSABILI, DIVENTA ANCHE AMMINISTRATORE DELL’ISTITUTO DELL’AGRICOLTURA…LEI SI DIFENDE: “HA PAGATO IL MIO CURRICULUM”
Una premiata ditta che cresce. 
Anzi, per dirla con la plastica metafora politica già usata del deputato coniuge Michele Pisacane, “la salumeria” si sta ingrandendo.
Difatti lei, Annalisa Vessella in Pisacane, è ormai folgorata sulla via della politica, e forse anche degli scambi di favore post-fiducia governativa.
Mentre lui, Michele Pisacane, ex controverso sindaco di Agerola che ha abbandonato l’Udc per entrare nel gruppo salva-premier Iniziativa Responsabile, fa finta di niente e continua a esternare la sua fiducia al premier.
Sorprendente, la carriera di lei: da sconosciuta “moglie di” delle colline stabiesi, che viene letteralmente spinta dal marito deputato a gestire una (fittizia) campagna elettorale col cognome di lui e perfino col pancione giunto a nove mesi di gestazione pur di aggiudicarsi un posto di consigliere alle ultime regionali in Campania, ora approda ai vertici di un’importante società di Stato.
Da poche settimane, infatti, il consigliere regionale Vessella è diventata anche “amministratore delegato con ampi poteri” dell’Istituto per lo sviluppo agricolo Isa, il cui socio unico è il ministero per le Politiche agricole, diretto da Francesco Saverio Romano, il parlamentare ancora sotto inchiesta per collusioni mafiose.
Suo marito intanto, ieri ricompariva in tutte le foto gallerie dei siti internet accanto a Silvio Berlusconi esultante per il voto di fiducia.
Pisacane seduto, il premier e Denis Verdini, Nicola Cosentino e tutti gli altri in piedi accanto a lui.
Inutile chiedere spiegazioni.
La Vessella non si capacita dei dubbi. “Scusate, ma è una bellissima esperienza fare l’amministratore delegato ed essere utili alla propria gente, visto che l’istituto Isa finanzia le imprese degli agricoltori. E poi ci siamo riuniti appena un paio di volte, la nomina è di poche settimane fa. Vogliamo dire che anche questa nomina è frutto del legame con mio marito?”, si ribella lei.
Suo marito non c’entra proprio niente, vero?
“No, sono onesta – ragiona il nuovo ad di Isa – . Mio marito ci poteva entrare con l’elezione di consigliere, lui è da sempre conosciutissimo e amato sul territorio, io ero la moglie e durante la campagna elettorale anche incinta, quindi non potei fare nulla. Ma stavolta no, stavolta è solo il mio curriculum a contare, sono stata dirigente, sono laureata in Giurisprudenza”.
Nessun imbarazzo ad essere passata, in un anno, dal ruolo di estranea alla politica a un seggio di consigliere e a un posto di amministratore di una società pubblica che dispensa decine di milioni l’anno?
“E perchè? Ci si imbarazza quando uno non sa da dove cominciare, quando sta lì e non sa come agire, invece io ho avuto quel posto in ragione della mia esperienza, e tra l’altro non posso manco dire “ho fatto questo o quello”, perchè è presto. Posso dire che riuscirò a fare insieme le due cose, cioè anche il consigliere regionale, e certo, sacrificando il mio privato, il ruolo di madre e moglie, come purtroppo capita a tante donne… “.
Coraggio, Vessella.
Quindi non c’entrano niente i voti di fiducia di suo marito, e i legami di lui con il ministro Romano?
Val la pena ricordare, infatti, che proprio tra il ministro e il marito della beneficiata, Pisacane, si è instaurata un anno fa quella liason che andò a rafforzare il pacchetto di voti utile al centrodestra per drenare i rischi del crescente dissesto del Pdl.
È infatti il 28 settembre 2010 quando Saverio Francesco Romano, Pisacane, Calogero Mannino, Giuseppe Drago e Giuseppe Ruvolo aderiscono al Gruppo misto, e fondano la componente Pid, ovvero Popolari di Italia Domani.
Anche Pisacane, raggiunto durante il viaggio da Roma ad Agerola, si mostra infastidito: “Mia moglie è brava, le ho fatto i complimenti. Perchè fate sempre le stesse domande? Mamma mia, di mia moglie so solo che sta bene e camperemo tutti e due cento anni”.
Sua moglie, invece, dirà : “Le letture fuorvianti dei fatti non le amo, ovviamente ciascuno è padrone di pensarla come vuole”.
Altra eleganza, rispetto alla prosaicità di un vecchio volpone della politica come suo marito.
Che, ai tempi della polemica sulla moglie usata come ferma-posto in consiglio regionale, si spazientì e disse: “Se c’è un lavoro da fare e uno fa il salumiere, non credo sia giusto privilegiare la salumeria degli altri, vi pare?”.
Conchita Sannino
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 15th, 2011 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA AL PRESIDENTE DELLA CAMERA RILASCIATA AL DIRETTORE DE “LA STAMPA”….”VOGLIONO ANDARE A VOTARE PER EVITARE IL REFERENDUM E BERLUSCONI SI RIPRESENTERA'”
“Ven-du-ti! Ven-du-ti! Ven-du-ti!”.
Il coro degli «Indignados» che si preparano alla grande manifestazione di oggi alza forte la sua voce fino alle finestre dello studio del presidente della Camera.
Gianfranco Fini non nasconde la sua preoccupazione: «Speriamo che non succeda niente. Questi giovani sono sinceri nell’esprimere il loro disgusto per la situazione in cui siamo. Molti di loro hanno buone ragioni per essere indignati, anche se forse non è giusto parlare solo di antipolitica. Se non c’è più la politica, infatti, anche l’antipolitica diventa difficile».
Ammetterà , presidente Fini, che quello che è successo nell’ultima settimana tra il governo e la Camera non è stata proprio un’iniezione di fiducia per l’opinione pubblica.
«Non posso darle torto, ma non credo che ci si potesse aspettare una conclusione diversa. Era chiaro che il governo avrebbe preso la fiducia, e altrettanto che da oggi tutto ricomincerà come prima».
Negli ultimi tre giorni è successo di tutto: le opposizioni sull’Aventino, il Quirinale costretto a intervenire due volte per contenere uno scontro insanabile, e alla fine Berlusconi che ottiene 316 voti di maggioranza e canta vittoria.
«Voto più, voto meno, non cambia molto. Se Berlusconi pensa di poter governare con una maggioranza così stretta, provi pure. Negli ultimi mesi non mi pare che ci sia riuscito. Forse, per la prima volta, ne è consapevole: per uno come lui, grande comunicatore, ridursi a fare un discorso mediocre come quello di giovedì vuol dire che ha rinunciato al grande orizzonte e alle riforme epocali che si aveva sempre sognato».
Lei è proprio convinto che Berlusconi cominci a rassegnarsi alla fine del berlusconismo?
«Con questi numeri e con le difficoltà che ha dovuto fronteggiare fino all’ultimo, inseguendo i dissidenti uno per uno, non solo non è in grado di realizzare le riforme, ma neppure di prendere i provvedimenti necessari per la crisi economica. I tagli annunciati da Tremonti sono già apertamente contestati dai ministri interessati. È stato Cicchitto, il capogruppo del Pdl, e non un membro dell’opposizione, a dire chiaramente che il decreto sviluppo, dalla gestazione lunga e sofferta, non potrà certo essere a costo zero. Parlava chiaramente al Presidente del consiglio e al ministro dell’Economia. Scajola per le stesse ragioni ha spiegato che la sua fiducia è a termine. Inoltre la Bce ha appena ribadito che i paesi più a rischio, tra cui l’Italia, devono prepararsi a una manovra aggiuntiva. Mal contati, di qui a fine anno, mancano ancora una ventina di miliardi di euro. Un governo come questo non è assolutamente in grado di trovarli per mettere a posto i conti».
Eppure Andreotti diceva che per un governo è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia.
«Altri tempi. Berlusconi è il primo a sapere che c’è una grande distanza tra le cose che ha promesso e quelle che ha realizzato. Basta leggere i sondaggi per accorgersi che la delusione s’è ormai fatta strada anche tra i suoi sostenitori».
E allora cosa farà ?
«Proverà a vivacchiare più o meno fino a Natale, farà di tutto per ottenere l’approvazione di nuove leggi ad personam, indispensabili per trasformare quelli che lo riguardano in processi “pret a porter”, tagliati su misura per garantirgli l’impunità con la prescrizione breve o altri espedienti. Poi andrà alle elezioni. Presto, molto prima di quanto ci si possa aspettare, sarà Bossi a staccare la spina. Andremo alle urne a marzo 2012».
Ne è sicuro?
«Si voterà con l’attuale legge, per rinviare il referendum. Non solo io, tutti hanno capito che andrà così e cominciano a prepararsi a questa scadenza. Lei ha qualche dubbio al proposito?».
Non è questo. E’ che se il governo è uscito da questa prova con un risultato assai magro, non mi pare che l’opposizione possa cantare vittoria. Doveva essere il passaggio decisivo per archiviare Berlusconi e dar vita a un governo di larghe intese e a una nuova fase politica, e s’è visto com’è finita.
«È vero: anche questa che era un’ipotesi ragionevole, l’unica che poteva permettere di affrontare seriamente i gravi problemi imposti dalla crisi economica e tentare di varare le riforme più urgenti, è franata di fronte all’ostinazione di Berlusconi di non accettare di fare un passo indietro e guardare solo al suo interesse personale».
Presidente Fini, ma come si poteva pensare che Berlusconi accettasse un nuovo ribaltone?
«Guardi che nessuno ha mai pensato a un ribaltone. Anzi, il punto di partenza di qualsiasi ipotesi era che sarebbe stata praticabile solo col consenso del Pdl e costruita attorno alla maggioranza che ha vinto le elezioni. Il segno di discontinuità chiesto a Berlusconi, data la gravità della situazione, non significava che sarebbe dovuto andare all’opposizione».
Ma dall’interno del Pdl, chi aveva offerto appoggio a una prospettiva del genere?
«Apertamente Pisanu, e con più timidezza lo stesso Scajola, che si sono battuti fino alla fine per convincere il premier a pilotare lui stesso questo passaggio. E riservatamente, mentre la trattativa era in corso, sono stati in molti a farsi vivi, spingendo nella stessa direzione. Parlo di personaggi di prima fila del Pdl, ministri, dirigenti del cerchio più vicino al presidente del consiglio».
E lei che lo conosce da tanto tempo e così da vicino ha sperato davvero che stavolta Berlusconi potesse mollare?
«Io sono stato a sentire e ho dato le mie risposte a chi mi faceva domande. Quando il governo è stato battuto sul rendiconto, pensavo che l’occasione di un chiarimento fosse arrivata. E non perchè ci fosse un obbligo giuridico — che non c’è – alle dimissioni. Ma un atto di sensibilità , un gesto politico, nel rispetto della chiarezza e di una prassi consolidata, questo c’era da attenderselo. Tra l’altro, se si fosse dimesso, Berlusconi, com’è accaduto in passato anche a governi diversi dal suo, sarebbe stato probabilmente rinviato alla Camera per verificare se avesse ancora la fiducia».
Di nuovo invece Berlusconi non s’è fidato.
«Pervicacemente, non ha voluto dimettersi. Ed è venuto in aula a dare dello sfascista a chiunque si proponga di dare al nostro Paese un esecutivo più adeguato alle necessità del momento. Confesso che ho trovato insopportabile sentir pronunciare l’accusa di sfascio da chi è riuscito a distruggere in tre anni il suo governo, il suo partito, la sua maggioranza e la credibilità internazionale dell’Italia».
Sia sincero: mentre lo ascoltava si sarà detto che con Berlusconi non c’è niente da fare.
«Mi sono reso conto che il governo, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto la fiducia e che l’ipotesi di un altro governo usciva almeno per ora dall’orizzonte di questa legislatura».
E non s’è rammaricato dell’ingenuità delle opposizioni che avevano creduto ai segnali di fumo che venivano dal Pdl?
«Non credo che fossero segnali di fumo. E le opposizioni, nel corso di questi quattro giorni hanno fatto di tutto per dare la propria disponibilità a un cambiamento. Poi si sa: in un contesto del genere, giocano tanti fattori, le volontà dei singoli, le pressioni, le piccole convenienze, il trasformismo, che è una malattia diffusa e, ahimè, non è una novità . E in ogni caso quattro deputati della maggioranza non hanno votato la fiducia.
Se si andrà a votare con l’attuale legge Porcellum, e con il premio di maggioranza come posta, non crede che ci si andrà di nuovo con due schieramenti e non con i tre attuali?
«No, sono sicuro che saranno tre. La novità sarà il Terzo polo, che ha grandi potenzialità e potrà intercettare tutto lo scontento che viene dagli elettori di centrodestra e anche parte di quello del centrosinistra. Per questo, dobbiamo arrivare al voto con un maggiore amalgama, una spinta unitaria, un’unica identità programmatica. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo riuscirci».
Se le elezioni saranno nel 2012, pensa che Berlusconi sarà nuovamente candidato premier?
«È molto probabile. Se non lo chiede lui, sarà il suo partito a chiederglielo. Non vedo vere alternative nel Pdl».
E lo considera ancora un avversario forte?
«Le dico la verità : molto meno del passato. Anche se in Parlamento riesce ancora a trovare i numeri di cui ha bisogno, le amministrative a Milano e Napoli e il voto dei referendum hanno dimostrato che Berlusconi ha perso la sua presa su gran parte del paese reale».
Non teme che con la stanchezza e l’esasperazione che c’è in giro nei confronti del Palazzo, Berlusconi possa essere tentato dal cavalcare di nuovo il vento dell’antipolitica?
«Con lui tutto è possibile, ma credo che finirebbe col farsi ridere dietro. Se è vero che con la crisi della politica, se non sapremo reagire, tutti corriamo il rischio di apparire come personaggi di un palcoscenico immobile, di quel teatrino — e credo sia il primo a saperlo – Berlusconi è diventato la prima marionetta».
Mercello Sorge
(da “La Stampa”)
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Ottobre 15th, 2011 Riccardo Fucile
I NUMERI RISICATI NON GARANTISCONO LA STABILITA’ DEL GOVERNO MA PRECLUDONO ANCHE LA POSSIBILITA’ DI UN GOVERNO DI TRANSIZIONE… TUTTI ORMAI SONO PRONTI ALLE ELEZIONI IN PRIMAVERA CON IL PORCELLUM
E ora al voto in primavera. 
La legge dei numeri, inesorabile anche in politica, sembra parlare chiaro.
Il 316 con il quale il governo di Silvio Berlusconi può tirare a campare, pare il prefisso delle elezioni anticipate.
Il voto di ieri ha notevolmente ridotto le probabilità di due scenari.
Quello della maggioranza di poter durare fino al 2013, comprando voti per strada, e quello dell’opposizione di allestire un governo tecnico, di decantazione, di emergenza nazionale, o come si chiama adesso.
A distanza di dieci mesi dal fatidico 14 dicembre, la maggioranza di Berlusconi è appesa ancora al filo di un voto.
La campagna acquisti del premier, in pratica l’unica sua occupazione in questi mesi, non ha prodotto risultati.
Un voto in più della maggioranza è pochissimo in condizioni normali, meno di niente in piena emergenza economica.
Dalla prossima settimana ricomincia il balletto. Basta un malato, un assente, un malpancista dell’ultima ora, un ministro in missione estera, e il governo andrà ancora sotto.
Sull’altro fronte è però tramontata l’ipotesi di costringere Berlusconi al famoso passo indietro per varare un governo di transizione che rassicuri i mercati e approvi una nuova legge elettorale.
La fronda all’interno di Pdl e Lega è troppo debole o timida per autorizzare scenari di nuove maggioranze.
È sempre più probabile, dunque, che si arrivi al voto a primavera, con l’orrendo “porcellum” che in fondo piace a tutti i segretari di partito.
Sperando che il sacro mercato, ora diventato “speculazione internazionale”, abbia pietà della povera Italia.
Un clima sospeso e febbrile ha accompagnato l’ultimo dei cinquantatre voti di fiducia chiesti dal governo. Voci di mosse e contromosse si sono inseguite per tutta la mattinata a Montecitorio, fino alla comunicazione del voto finale.
A quel punto tutto il teatrino dei retroscena si è smontato e a nessuno importava più del caso Sardelli o delle scelte dei radicali per farsi notare nel bene o nel male, senza mai risultare decisivi, nel bene e nel male.
Come nelle partite di calcio, un minuto dopo contava solo il risultato. 316 voti, uno in più della maggioranza. Uguale elezioni a marzo.
Di questo infatti, un minuto dopo, hanno preso tutti a discutere. Non delle riforme promesse ancora una volta, dopo quindici anni, dal presidente del consiglio.
Non di governi istituzionali o tecnici, che magari servirebbero pure al Paese (per mettere in sicurezza i conti pubblici e riformare la “porcata” di Calderoli prima di tornare alle urne), ma che sembrano sempre più difficili da immaginare e da costruire.
Semmai tutti discutevano di quando e soprattutto come arrivare al voto in primavera.
Se Berlusconi avrà la forza d’impedire primarie, se candiderà ancora sè stesso o farà il ventriloquo di Alfano.
Se Bossi troverà un accordo con l’ala di Maroni o procederà all’epurazione dalle liste, come gli suggerisce il “cerchio magico”.
Se Bersani troverà un “papa straniero” alla Prodi per mettere d’accordo le anime del centrosinistra o affronterà il sanguinoso scontro delle primarie contro Vendola, Di Pietro e magari Matteo Renzi.
Per scendere ai dettagli, comunque non irrilevanti, ci si chiedeva anche se Berlusconi riuscirà ad arrivare al voto con una Rai militarizzata o se per esempio i vertici Rai si decideranno a rimuovere il direttore del Tg1 Minzolini, rinviato a giudizio per reati contro l’azienda segnalati dalla Corte dei conti. Qualcuno ricorderà che la Rai chiuse un programma di gran successo alla prima puntata, “Raiot”, perchè “comportava il rischio di una possibile azione legale contro l’azienda”.
Insomma ieri 14 ottobre 2011, è forse cominciata la campagna elettorale. Nella migliore delle ipotesi, durerà cinque mesi.
Con un governo che non governa più da almeno un anno.
Un bel lusso per un Paese che sta diventando l’epicentro della crisi mondiale. È un’astuzia chiedere i voti di fiducia sempre il venerdì pomeriggio, quando i mercati stanno per chiudere.
Purtroppo però il lunedì riaprono.
Curzio Maltese
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 15th, 2011 Riccardo Fucile
IL CARROZZONE DEGLI ISTITUTI CON 4.671 DIPENDENTI CHE DOVREBBERO GESTIRE 768.047 ALLOGGI, LE CLIENTELE POLITICHE E I MISERI INCASSI… UN ALLOGGIO RENDE IN MEDIA 87 EURO AL MESE:… PERCHE’ UNO DOVREBBE COMPRARLO, SE PUO’ STARCI PAGANDO POCO O ANCHE DA ABUSIVO ?
Alla tentazione pochi hanno resistito.
Perfino Walter Veltroni, nel 2008, propose di vendere le case popolari per costruirne di nuove con il ricavato.
Tre anni prima il premier Silvio Berlusconi aveva addirittura annunciato «un grande piano di cessione» (del quale peraltro non si è mai avuta notizia) degli alloggi pubblici «lasciati oggi in un degrado inaccettabile».
E Renato Brunetta assicurava di essere impegnato in una «battaglia sovrumana in casa mia» (evidentemente il suo partito) per far passare l’idea.
Finchè, spossato, si è sfogato con la Stampa un giorno del 2009, accusando gli enti locali di remare contro per «ragioni di puro potere».
Che si potrebbero facilmente tradurre in posti di lavoro, clientele, poltrone..
Posti di lavoro ce ne sono, eccome: gli ex istituti per le case popolari hanno 4.671 dipendenti.
Risvolti clientelari, poi, proprio non sono da escludere, considerando il numero degli inquilini: nei 768.047 alloggi che risultavano censiti come occupati tre anni fa in una indagine Censis-Federcasa-Dexia abitano due milioni di persone.
Tutta gente che vota.
Per quanto riguarda infine le poltrone, basta farsi un giretto nei vari siti internet dei vari Iacp, Aler o Ater, le strutture pubbliche che gestiscono il patrimonio.
Qualche assaggio? Il commissario dell’Ater del Comune di Roma è l’ex vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, il destrorso Bruno Prestagiovanni.
Il suo collega dell’Ater provinciale è Massimo Cacciotti, già candidato Pdl alla Regione. Alla presidenza dell’Aler, l’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale, è stato collocato Loris Zaffra, segretario cittadino del Psi craxiano.
Consigliere delegato dell’Acer Bologna è Forte Clò, dirigente comunista a quattro ruote motrici, sindaco, consigliere provinciale, poi responsabile dei Ds per il terzo settore.
Allo Iacp di Caserta il presidente della Provincia Domenico Zinzi, onorevole del Pdl, ha piazzato Vincenzo Melone, ex consigliere provinciale di An. All’Ater di Frosinone è planato Enzo Di Stefano, ex capogruppo nel Consiglio regionale del Lazio della Lista Polverini…
Ma non sono soltanto «ragioni di puro potere» a frenare la vendita delle case popolari. Una possibilità , ricordiamo, che esiste per legge da vent’anni.
Esattamente dal 30 dicembre 1991.
E di alloggi ne sono stati ceduti già numerosi, anche se per incassi decisamente modesti. Fra il 1993 e il 2006 gli inquilini degli ex Iacp hanno comprato 154.768 appartamenti, per un incasso di 3 miliardi 665 milioni.
In media, 23.680 euro per ogni unità immobiliare con una punta, nel 2006, di 27.046 euro.
Assumendo per buono questo valore medio, e ipotizzando che si possano effettivamente vendere agli inquilini tutti gli oltre 768 mila alloggi affittati, l’introito non raggiungerebbe perciò i 21 miliardi di euro.
Un quinto rispetto alla pirotecnica stima di Brunetta, che sei anni fa parlava di un valore catastale di 100 miliardi.
E comunque molto meno di quell’incasso (30 miliardi) favoleggiato ora.
Per giunta, gli immobili sono spesso così malridotti che gran parte delle somme ricavate nel passato dalle cessioni, sostiene la Corte dei conti, sono state spese per manutenzioni straordinarie: in Lombardia il 39,3%, nel Lazio il 46,55%, in Puglia l’80,5%.
Certo il patrimonio è teoricamente immenso.
Il rendimento, tuttavia, è inesistente.
Nel 2006 i ricavi sono ammontati a 471,4 milioni, con una media di 1.041 euro l’anno per ogni appartamento: 87 euro al mese.
Il massimo a Terni, 127 euro. Il minimo a Latina, 39 euro.
Senza considerare le spese per i lavori, gli stipendi del personale, e tutti gli altri costi. Secondo una indagine della Corte dei conti, nel quinquennio 1999-2003 erano stati spesi per la manutenzione straordinaria di ogni alloggio popolare della Campania 4.267 euro, a fronte di un canone medio riscosso pari a 42,12 euro mensili: in cinque anni, 2.527 euro.
Il fatto è che le case popolari sono afflitte anche da due piaghe micidiali.
La prima è quella dell’abusivismo.
Dice l’indagine Censis-Federcasa che gli appartamenti occupati da inquilini senza titolo sono 21.126, dei quali 5.863 nel solo Comune di Roma e 3.409 in quello di Milano.
Le percentuali più alte di abusivismo sono però a Palermo, dove il fenomeno coinvolgerebbe (ma sono dati del 2006) circa 3 mila degli 11 mila alloggi Iacp, cioè oltre il 27%, e a Catania, con il 23,9%.
Sempre secondo quello studio, il capoluogo etneo era nel 2006 il più colpito dalla seconda piaga: la morosità .
La percentuale di affitti «evasi» era al 92,5%.
Un dato astronomico, che faceva impallidire quello di Cosenza, dove superava il 75%. Pur senza avvicinarsi a queste vette inarrivabili, la morosità toccava livelli assolutamente ragguardevoli a Cagliari (44%), nel Comune di Roma (41,2%), a Palermo (34,7%) e a Torino (32,5%).
Nel solo 2006 sono andati perduti più di 80 milioni di euro.
E il tasso di evasione superava di ben tre punti quello del 2001: dal 12,9% al 15,9%.
La risposta ai propositi di vendita, con la previsione di introiti stratosferici, è tutta in questa sfilza di numeri incredibili.
Ammesso che tutti abbiano i soldi, quanti saranno disposti a comprare casa sapendo di poterci restare a vita spendendo una miseria, o magari senza nemmeno pagare l’affitto?
Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)
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Ottobre 15th, 2011 Riccardo Fucile
CONTI IN TASCA: L’ESPOSIZIONE E’ CRESCUTA DEL 13,5% CONTRO UNA MEDIA DEL 5,1%….DAL 1982 LO STOCK E’ PASSATO DAL 63,1% al 121,8% DEL PIL
Da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, nel 1994, sotto i sui tre governi, il debito
pubblico è cresciuto più del doppio rispetto agli esecutivi guidati dai suoi avversari.
Negli ultimi 17 anni, Berlusconi è stato presidente del consiglio per quasi la metà del tempo registrando un incremento complessivo del debito pubblico del 13,5%.
Molto più del 5,1% registrato sotto la guida degli altri quattro primi ministri: Lamberto Dini, Romano Prodi (due volte), Massimo D’Alema e Giuliano Amato.
Il 13 settembre scorso, a Strasburgo, in Francia, Berlusconi spiegò di aver ereditato il debito dalle amministrazioni che lo avevano preceduto.
Il fardello del debito è quasi raddoppiato tra il 1982, quando ammontava al 63,1% del Pil, e il 1994, quando sotto il primo governo guidato da Berlusconi arrivò al 121,8%.
Nel 2007, con Romano Prodi a Palazzo Chigi, il debito è sceso al 103,6%, al livello più basso dal 1991.
“Berlusconi non è stato certo aiutato dalla recessione che lo ha colpito mentre era al governo e dagli alti tassi di interesse che hanno aumentato il costo del debito” dice Paolo Manasse, professore di economia all’Università di Bologna. “Tuttavia – prosegue Manasse – con Berlusconi la spesa pubblica è sempre aumentata, anche negli anni di crescita economica e questo, insieme a scelte come quella di abolire la tassa sulla proprietà nel 2008, ha contribuito ad aumentare il debito pubblico”.
Le tre principali agenzie di rating hanno recentemente tagliato il giudizio sullo stock italiano, proprio mentre il Paese sta lottando per evitare di essere contagiato dalla crisi europea dei debiti sovrano cercando di portare il proprio sotto il livello 120% del Pil. Il fardello più alto d’Europa, dopo la Grecia.
L’8 agosto scorso la Banca Centrale europea ha iniziato a comprare titoli di Stato italiani dopo che i rendimenti erano schizzati alle stelle e la Grecia si avvicinava al fallimento.
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