Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
SUL SITO DI SANTORO LA TESTIMONIANZA-DENUNCIA DI DUE POLIZIOTTI IN PIAZZA A ROMA : “SENTIVAMO LE RICHIESTE DI AIUTO DEI COLLEGHI IN PIAZZA SAN GIOVANNI, MA NON CI DAVANO L’ORDINE DI INTERVENIRE PER NON SGUARNIRE GLI OBIETTIVI POLITICI”
Sul sito di Servizio Pubblico il racconto di poliziotti-sindacalisti in piazza a Roma il 14
ottobre. “Sentivamo le richieste di aiuto dei colleghi in piazza San Giovanni, ma non ci davano l’ordine di intervenire”.
Per non sguarnire gli obiettivi politici: “Ci hanno sacrificato per salvare il palazzi del potere”.
E’ la dura accusa di due poliziotti, sindacalisti al Primo reparto mobile di Roma.
Due celerini insomma, Gino e Angelo che raccontano gli scontri di Roma del 15 ottobre in un’intervista a Michele Santoro su Servizio Pubblico, il sito messo in piedi per sostenere l’avvio del nuovo progetto editoriale del giornalista.
“Sentivamo via radio i colleghi chiedere aiuto”, spiegano, “dicevano ‘li abbiamo da tre lati, ci stanno accerchiando’, ma nessuno dava l’ordine di interventire”.
I black bloc, spiegano ancora, hanno “preso” piazza San Giovanni alle 16,30, ma l’ordine di intervenire “ci è arrivato solo alle 18,30, non capiamo perchè”.
Da qui l’accusa a chi ha gestito l’ordine pubblico il 15 ottobre: evidentemente, i poliziotti impegnati in piazza San Giovanni, quelli che hanno subito l’incendio del blindato e vere e proprie cariche da parte dei manifestanti violenti, “sono stati ritenuti sacrificabili per garantire la sicurezza di una zona ristretta”.
La “zona ristretta”, come si capisce chiaramente dall’intervista rilasciata a Servizio Pubblico, sono “Palazzo Chigi e gli altri palazzi del potere”.
Per arrivarci, i manifestanti avrebbero dovuto superare “quattro sbarramenti”.
E’ per non sguarnirli, affermano i due poliziotti-sindacalisti, che sono stati abbandonati al loro destino i colleghi di piazza San Giovanni.
In un frangente in cui, dicono Gino e Angelo, qualcuno “voleva il morto, ma tra i poliziotti”.
La loro testimonianza conferma peraltro altre dichiarazioni rese da molti loro colleghi e quanto da noi sostenuto fin dal primo momento del verficarsi degli incidenti.
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
“UNA MISURA PALESEMENTE ILLEGGITIMA”: IL PARERE DEL PROF. AZZARITI DELLA SAPIENZA DI ROMA….”UNA REINTERPRETAZIONE IN CHIAVE CENSITARIA DI UN NOSTRO DIRITTO FONDAMENTALE, UNA FOLLIA COSTITUZIONALE”
Una misura «palesemente illegittima». Di più: «Una follia costituzionale».
Gaetano Azzariti, docente di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, non ha dubbi: «Quella del ministro dell’Interno rischia di essere una reinterpretazione in chiave censitaria di una nostra libertà fondamentale».
Insomma non è pensabile obbligare gli organizzatori di una manifestazione a prestare garanzie patrimoniali per gli eventuali danni provocati
«L’articolo 17 della Costituzione è chiaro: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Punto e basta. La nostra Costituzione non prevede il pagamento di un obolo e la libertà di riunione non può certo subire alcun impedimento di carattere economico».
Non ci sono limiti al diritto di manifestare?
«Leggiamo l’ultimo comma dell’articolo 17: “Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità , che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. È chiaro? Il diritto di manifestare non ha altro vincolo se non quello dell’ordine pubblico, questo è il cuore della libertà costituzionale di riunione».
Chi difende allora la cittadinanza dai danni provocati da un corteo?
«È chiaro che gli atti vandalici sono comportamenti penalmente rilevanti, che chiamano in causa responsabilità personali anche per quanto riguarda il risarcimento dei danni. Per il resto tali reati non rappresentano una cattiva utilizzazione della libertà di riunione, al contrario limitano quella libertà , esercitata dalla maggioranza pacifica dei manifestanti».
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
LA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE A PROVA DI MANGANELLO: GIULIANO FERRARA CON I MANICI DI PICCONE, MARONI CHE MORDEVA I POLPACCI AGLI AGENTI, LA RUSSA CAPOPOPOLO QUANDO MORI’ L’AGENTE MARINO… SONO GLI STESSI CHE OGGI CHIEDONO IL PUGNO DI FERRO
In una foto c’è Giuliano Ferrara con un bastone in mano a Valle Giulia nella battaglia
simbolo della rivolta studentesca del ’68.
Nell’altra, è il 1977, lo stesso è chiamato a “risolvere” una bega interna alla sinistra davanti all’Università di Torino.
Il 2 marzo di quell’anno, la Fgci le aveva prese dai compagni di Lc e dell’Autonomia. Il giorno dopo gli uomini del servizio d’ordine del Pci e della Cgil capitanati da Ferrara scaricano da un furgone un fascio di manici di piccone da distribuire ai compagni.
Per qualche ora, sulla scalinata e nell’atrio di Palazzo Nuovo, le due sinistre se le suonano di santa ragione.
Poi le cariche e i lacrimogeni della polizia.
Altra epoca.
Come sembra appartenere al secolo passato, non fosse per i protagonisti, quello che accadde il 12 marzo 1973 a Milano.
Durante una manifestazione non autorizzata del Msi, dal corteo furono lanciate contro la polizia due bombe a mano: una ferì un passante e un celerino, l’altra lasciò a terra senza vita Antonio Marino, poliziotto 22enne.
Ignazio La Russa, segretario del Fronte della Gioventù in Lombardia e oggi ministro della Difesa, era lì in prima fila.
Passano gli anni, ma la piazza rimane una palestra politica importante per chi è destinato a ricoprire incarichi istituzionali.
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il deputato Pdl Fabio Rampelli finirono in carcere nel maggio 1989, quando provarono a bloccare il corteo presidenziale di Bush padre diretto al cimitero di Nettuno.
Ottobre 1996: la pm Tiziana Siciliano spedì agli onorevoli Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, Mario Borghezio, Davide Caparini e Roberto Martinelli, un invito a comparire per i fatti di via Bellerio, quando gli esponenti del Carroccio impedirono alla Digos di perquisire la sede del partito così come richiesto dalla procura di Verona che indagava sulle Camicie Verdi.
All’attuale ministro dell’Interno veniva contestato di aver afferrato “per le gambe” un sovrintendente e un ispettore capo intervenuto in soccorso del primo, azzannandolo ai polpacci.
L’ispettore sarebbe poi stato strattonato “violentemente” da Bossi che gli avrebbe strappato “il giubbino e la giacca d’ordinanza”.
Frattanto l’on. Caparini “ingaggiava una colluttazione con gli agenti per impedire loro di scendere le scale”.
Maroni prese 4 mesi e 20 giorni.
Altra epoca.
Oggi sono tutti in prima fila contro la violenza.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
“QUANDO RIFIUTAI E TORNAI A CASA, SENTIRMI DIRE DA MIA FIGLIA 18ENNE CHE ERA FIERA DI ME E’ STATA UNA GIOIA ENORME CHE QUESTI CORRUTTORI NON PROVERANNO MAI”…”DIMMI CINQUE COSE CHE DESIDERI E L’ACCORDO E’ FATTO”: A MERLO OFFRIRONO LA POLTRONA DI VICEMINISTRO DEGLI ESTERI
“Aldo ti devo parlare subito, subito”. La voce dall’altra parte del filo è dolce quasi come un
confetto.
Aldo Di Biagio, deputato di Fli eletto nel 2008 per la circoscrizione Europa.
Siamo a dicembre, nel pieno del mercato dei parlamentari, i telefoni dei possibili “aquistabili” sono incandescenti, il tempo stringe, la maggioranza langue e la fiducia per il governo è una questione di vita o di morte.
Di Biagio, doppia nazionalità italo-croata, passato in An, finiano doc, una vita nel patronato, nel sindacato e nel volontariato, sposato, padre di tre figlie, ha voglia di raccontarlo tutto il “disgusto” provato e confessa: “Se Fini non fosse stato cacciato e non fosse nato Fli me ne sarei andato nel Gruppo misto, non ne potevo più di vedere ruberie di ogni tipo, nani e ballerine come figurine telecomandate, scene indecenti”.
I rapporti con la collega-imprenditrice inviata in avanscoperta, poi nel caso in cui il terreno si fosse rivelato fertile la mano passerebbe ad altri per sottoscrivere il nobile “contratto ”, sono sempre stati cordiali.
Lei lo attende nel corridoio, lui le va incontro: “Sai Aldo, da te ci aspettiamo un atteggiamento serio e coerente. Guarda al futuro, fatti una fondazione e noi ti diamo 1 milione e mezzo di euro di Finmeccanica”.
“Mi dispiace ma la mattina voglio continuare a guardarmi allo specchio per trovarci proprio quella persona coerente e seria che sono”.
Lei lo guarda incredula.
“Ci siamo salutati cordialmente, non aveva fatto altro che eseguire il mandato ricevuto da Verdini, queste sono le loro regole vergognose, o le accetti o sei fuori. Capisco che di questi tempi potrebbe sembrare retorico, ma tornare a casa e sentirsi dire da mia figlia più grande che ha 18 anni ‘sono fiera di te’ è stata una gioia enorme che questi non proveranno mai” aggiunge con orgoglio di padre.
La compravendita, il punto più alto della bassezza della politica berlusconiana non è un reato a meno che, come nel caso di Di Biagio, la merce di scambio non sia Finmeccanica, società partecipata dallo Stato, dunque soldi pubblici.
Perchè non si è rivolto alla magistratura?
“Non credo sia stato un caso che la proposta mi sia stata fatta nel corridoio! Comunque il peso della mia parola è sufficiente a provare il ‘reato politico”.
La notte Di Biagio l’ha trascorsa in bianco al fianco di Luca Bellotti (Pdl passato a Fli tornato all’ovile).
“Cercavo di sostenerlo mentre riceveva telefonate a raffica da Verdini e da Berlusconi fino a che non si è scaricato il cellulare”.
Ah sì, la famosa notte raccontata così da Berlusconi alla festa dei giovani del Ppe: “Fini avrebbe fatto meglio a restare con noi perchè molti dei suoi sono pronti a fare ritorno alla ‘casa madre’, ho fatto incontri tutta la notte anche se avrei preferito incontrare belle ragazze”.
E cosa gli diceva Verdini?
“La domanda da manuale: dicci cinque cose che desideri, quale problema vuoi che ti risolviamo?”. Tempo buttato via visto che Bellotti alla fine ha ceduto per un posto da sottosegretario al Welfare.
E cos’altro?
“Sapevo che il suo impianto di pannelli solari non navigava in buone acque, non è difficile immaginare come si sia conclusa la trattativa ” risponde allargando le braccia e ripete: “Scene indecenti come quella volta in Brasile”.
Quando al fianco di Berlusconi c’era il fido Lavitola. “Sì anch’io ho partecipato a quella missione: pseudo imprenditori italiani, puttanieri, ricottai che accreditati da Lavitola si presentavano in compagnia di ragazzine che sgomitavano per essere scelte. E lui, il nostro presidente del Consiglio si scambiava i numeri di telefono.
Da rabbrividire.
Per rendersi conto della credibilità di cui gode all’estero, la conduttrice di un famoso programma brasiliano di satira con indosso una pelliccia e sotto nuda, ha cercato di farsi riprendere mentre si gettava tra le sue braccia”.
Ma c’è un’altra storia di compravendita fallita rimasta top secret, quella del deputato Ricardo Merlo, eletto con 53.000 preferenza nella corcoscrizione America Latina.
Denis Verdini è andato nel suo appartamento romano per chiedergli: “dicci 5 cinque cose che desideri”.
Poi ha telefonato a Berlusconi e glielo ha passato. Infine la carta segreta ritenuta vincente: una poltrona da viceministro agli Esteri
“Io posso fare accordi sulla base di un progetto politico, ma un obiettivo non si può raggiungere a qualunque prezzo altrimenti perde di valore. Noi siamo contro la corruzione, contro quelli che fanno politica non per la gente, ma per se stessi” e con un sorriso sornione Merlo aggiunge: “Poi io non ho bisogno di soldi”.
Il suo movimento — che conta anche la senatrice Mirella Giai — si è astenuto dal votare la fiducia.
“Poi ci siamo resi conto che questo governo non fa il bene del Paese e degli italiani all’estero perchè non si può prescindere da onestà , trasparenza e credibilità . Berlusconi è ancora qui, ma è già passato. à‰ tempo di costruire il futuro”.
Sandra Amurri
(da “Il Fatto Quotdiano”)
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
A CAUSA DI IRREGOLARITA’ NELLA GESTIONE DEI FONDI ASSEGNATI AL SETTORE LATTIERO-CASEARIO E PER L’ASSENZA DI VERIFICHE, LA UE CHIEDE I SOLDI INDIETRO…SE NON SI PAGA SAREMO DEFERITI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA E SI AGGIUNGERA’ PURE UNA MULTA MILIONARIA
Questa volta il conto è di quasi 78,5 milioni di euro.
Quasi 71 milioni da restituire al più presto a Bruxelles “come rettifica proposta per gli esercizi finanziari 2005-2007 per controlli tardivi nel settore dei prodotti lattiero-caseari”, a cui vanno ad aggiungersi 7,6 milioni di aiuti agricoli per spese effettuate in modo irregolare.
Un assegno non facile da staccare visto il periodo di vacche magre, è il caso di dirlo, per un Paese alle prese con tagli selvaggi e una quadratura di bilancio che proprio non arriva.
E il capitolo di spesa maggiore di quanto chiede la Ue (71 milioni) sono legati alla gestione delle cosiddette quote latte.
Si tratta di fondi della Politica agricola comune (Pac) dei quali sono responsabili gli Stati membri, sia della loro ridistribuzione sul territorio che del loro effettivo utilizzo, ad esempio verificando le domande che gli agricoltori compilano per ottenere i pagamenti diretti.
Succede che la Commissione, vista il numero dei beneficiari in Europa, fa 100 controlli a campione ogni anno.
Verifica anche che le eventuali “correzioni” apportate dagli Stati membri siano efficaci a garantire che i fondi europei siano stati spesi correttamente.
Sì perchè come ha confermato un recentissimo rapporto Ocse, una fetta rilevante degli aiuti Ue all’agricoltura finiscono a chi di aiuto non ha proprio bisogno, o peggio ancora a chi con l’agricoltura non centra davvero niente .
E di magagne quest’anno la Commissione ne ha trovate parecchie, e non solo in Italia. Sorpresa sorpresa la Svezia, ad esempio, dovrà restituire ben 76,6 milioni di euro per “carenze nel sistema di identificazione delle particelle agricole (Sipa), di informazione geografica (Sig), nei controlli amministrativi e nelle sanzioni relativi alle spese per gli aiuti per superficie”.
La Danimarca dovrà dare indietro 22,3 milioni per carenze nei sistemi Sipa e Sig, nei controlli in loco e nel calcolo delle sanzioni”.
E poi ancora Cipro 10 milioni, il Regno Unito 6 milioni e l’Olanda 2,2 milioni.
Nessuna pietà nemmeno per la Grecia, che dovrà restituire 10 milioni.
Bruxelles sta diventando piuttosto attenta alla spesa dei fondi comunitari, soprattutto perchè gli aiuti all’agricoltura costituiscono una bella fetta dell’intero bilancio europeo.
Nel periodo 2007-2013 la quota della spesa agricola costituisce addirittura il 34% dei 142 miliardi di euro spesi dall’Ue, a cui va aggiunto l’11% dedicato allo sviluppo rurale.
Ovviamente la Commissione europea non può essere ovunque, quindi questi finanziamenti vengono principalmente amministrati dagli Stati nazionale e dalle Regioni, che a loro volta lanciano dei bandi per aggiudicarli e dovrebbero essere responsabili dei controlli sul loro utilizzo.
Nel caso dell’Italia proprio i controlli, guarda caso, sono il principale problema.
Infatti i 71 milioni di euro da restituire si riferiscono proprio a controlli carenti e solo per l’anno 2005-2007, il che lascia intendere che ci potrebbero essere altre rate da pagare.
E in questo caso chi apre il portafogli?
Non potendo indagare tutti i beneficiari di questi finanziamenti, a pagare sarà Roma, quindi tanto per cambiare le casse pubbliche. E non è finita qui.
Come nel caso di altri fondi stanziati in modo irregolare, vedasi gli aiuti di stato per le calamità naturali del 2002-2003, l’Italia non è un fulmine a restituire l’illegittimo a Bruxelles.
E allora cosa succede? Solita trafila: Corte di Giustizia, sollecito di pagamento e multa aggiuntiva.
Tra l’altro proprio in questi mesi a Bruxelles è in corso la revisione della politica agricola comune.
La Commissione europea ha annunciato un paio di giorni fa una proposta che vedrebbe da un lato maggiori controlli e dall’altro un tetto ai finanziamenti massimi per ogni Stato.
Se approvata così come proposta, la nuova Pac comporterà per l’Italia un cospicuo taglio ai 5,5 miliardi di euro che ogni anno riceve da Bruxelles, tra aiuti diretti ai produttori e misure di sviluppo rurale.
Alessio Pisanò
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
A BOLOGNA UNA FESTA POST BUNGA-BUNGA: “SERVE UN RINNOVAMENTO, LA POLITICA DI SILVIO ANDAVA BENE 15 ANNI FA, NON OGGI”…. “ALFANO? UN BUON SOSTITUTO”
Eccoli i ragazzi del post-berlusconismo, quelli che guardano già oltre. 
Dopo essere stati post-fascisti, abituati come sono stati a mettere passati scomodi alle spalle, per questi orfani di Gianfranco Fini archiviare anche un personaggio mai troppo amato come il Cavaliere sarà molto facile.
In realtà lo stanno già facendo. Aspettano solo la fine della legislatura, poi il nome Berlusconi finirà tra le reliquie.
Alla prima festa provinciale della Giovane Italia di Bologna, l’ala giovanile del Popolo della libertà , non va in scena nessun party in stile Palazzo Grazioli, di quelli tra consumati tra soubrette, barzellette e schitarrate di Apicella.
Pochi saluti romani, nessuna croce uncinata (almeno alla presenza di chi scrive, ndr), questi ragazzi e ragazze al 99 % provenienti dalle file di quella che fu Alleanza nazionale, al bunga bunga preferiscono musica identitaria, un trancio di pizza, una birra, e soprattutto niente canne.
Se parlando di politica sembrano tutti addestrati a non mettere mai in discussione il partito, lo sconcerto per gli scandali sessuali che hanno travolto il loro premier è condiviso e imbarazza.
“Il problema diventa tale quando le donne che si porta nella camera da letto vengono candidate nei listini bloccati piuttosto che in altri ruoli”, spiega Lavinia, milanese di 25 anni con un passato quasi decennale di militanza tra le file dei giovani di An.
Runa ha 23 anni, è bolognese.
Da dietro i suoi giganteschi occhiali colorati racconta i suoi valori: onore, patria, rispetto dei patti, famiglia.
Di fronte a questi valori l’immagine delle donne venuta fuori dalle vicende del premier non la mettono a suo agio nella sua azione politica.
“Stare dietro a un banchetto col simbolo del Pdl ti fa ricevere degli appellativi poco simpatici quando sei una donna”.
Runa, come molti dei suoi colleghi di partito guarda già oltre, e anche se difende l’azione del suo partito nel governo, nel futuro per l’attuale presidente del Consiglio non c’è spazio: “Secondo me ci vorrebbe un rinnovamento, la politica di Berlusconi andava bene 15 anni, non adesso”.
Enrico, 21 anni, non ha peli sulla lingua per definire il suo pensiero a riguardo: “Una persona di destra ha dei valori, l’identità del proprio paese, la famiglia, la vita. Sicuramente per i ragazzi che fanno militanza le vicende del nostro premier non sono state un toccasana”.
Allora non sarà un caso dunque che anche per le vie di Bologna il nome di Berlusconi sia sparito dai manifesti elettorali: quel nome imbarazza.
Su chi dovrà succedere a Berlusconi, tuttavia, c’è molta incertezza tra questi ragazzi.
Un nome torna sulla bocca di molti, quello di Angelino Alfano.
Colpisce che non salti fuori un nome ex An, ma del resto, quello che fino a un anno fa sarebbe stato il naturale successore non c’è più.
“Quella dell’addio di Fini è una pagina dolorosa per ognuno di noi. Credevamo in lui e abbiamo scelto di fare politica perchè c’era lui”, raccontano un po’ tutti.
Intanto, sul fronte musicale della festa, dopo un canzone rockettara dal ritornello evocativo, Eja eja alalà , arriva un brano abbastanza inaspettato, l’Avvelenata di Guccini, cantato a squarciagola da tutti i quaranta-cinquanta presenti.
Naturalmente nel punto dove la canzone parla di “compagni”, la variazione sul pezzo è unanime e l’urlo si alza chiaro: “Camerati!”.
Poco prima una ragazza spiega il suo parere sulla recente vicenda della legge bavaglio, che ha visto per qualche giorno a rischio la stessa esistenza del sito di Wikipedia: “Levare la libertà di espressione no, ma mettere un freno quando è troppo è giusto”.
Cos’è “troppo” quando si parla di libertà di espressione e Wikipedia non è chiaro. Insomma, non saranno berlusconiani, ma del resto questa Giovane Italia è cresciuta a pane, nutella e Almirante.
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
I POLITICI TRATTARONO PER PAURA DI ESSERE UCCISI: NEL 1992 NEL MIRINO DEI BOSS C’ERA UN ELENCO DI MINISTRI… LA SVOLTA NELLE INDAGINI GRAZIE A NUOVI DOCUMENTI E ALLE RIVELAZIONI DEI PENTITI
Oggi sappiamo perchè, al tempo delle stragi, c’è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l’ha voluta Totò Riina, ma l’ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.
E fra loro c’era anche – come riportava una nota del Viminale alla fine dell’inverno 1992 – quello che veniva considerato «il futuro presidente della Repubblica», ossia Giulio Andreotti.
Dopo diciannove anni avvolti nell’omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: con l’uccisione dell’eurodeputato siciliano Salvo Lima e quella di Giovanni Falcone qualcuno era finito anche lui nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato – a uomini di fiducia dei reparti investigativi – di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle.
Pezzi da novanta della politica che i mafiosi – a torto o a ragione – consideravano «traditori».
Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva dimenticato tutto.
La lista nera che hanno ricostruito i magistrati è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l’acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell’Interno su «strategie destabilizzanti» ed «eventi omicidiari» che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese.
Il documento – di cui leggerete alcuni stralci qualche riga più sotto – è diventato pubblico il 10 ottobre scorso, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano.
Un dibattimento che è diventato, di fatto, un «pezzo» della trattativa fra Stato e mafia.
Ma torniamo all’elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori.
Si apre con quello che era allora il ministro per gli interventi straordinari per il Mezzogiorno Calogero Mannino, un ras in Sicilia.
E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni.
Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sè Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula.
E Salvo Andò, catanese, socialista, ministro della Difesa.
C’era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che 19 anni fa era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima.
Sono loro i primi nomi che compaiono nell’indagine dei magistrati di Palermo.
Dalla montagna di carte – centinaia di interrogatori, confronti all’americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti – sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il «movente», probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il «papello», quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato.
Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi.
Il filo che seguono i pm siciliani – indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido – parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè nell’isola di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992.
Fatto fuori dai Corleonesi perchè «non ha rispettato i patti».
L’omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia.
Il primo che paga un altro conto – che poi è sempre lo stesso – è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l’elezione di fine primavera alla presidenza della Repubblica.
Ma il delitto Lima lo «brucia», gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale dove il 24 maggio – dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci – salirà Oscar Luigi Scalfaro.
È comunque già subito dopo il delitto Lima che il ministero dell’Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all’alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare, ai carabinieri e alla finanza.
Porta la data del 16 marzo del 1992.
Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano «nel periodo marzo-luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonchè sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti».
Più avanti il telegramma di Parisi invita «at più attenta vigilanza» per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini.
Quello di Parisi non è un «avviso» di routine. Ed è subito evidente.
Passano quattro giorni e il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti riferisce di «un piano destabilizzante» in un’audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato.
Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono.
C’è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle «fonti confidenziali» che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore.
Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre «fonti». Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.
Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare «dello scherzo di un pataccaro», il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo.
Come siano andate le cose poi, è noto.
Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c’è la strage di Capaci.
Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c’è la strage di via Mariano D’Amelio.
È fra Capaci e via Mariano D’Amelio – ne sono convinti i procuratori di Palermo – che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono.
Nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l’8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all’Interno è preso da Nicola Mancino.
Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia e alla fine si salverà con una prescrizione.
Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993.
E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di «pace».
Attilio Bolzoni e Francesco Viviano
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
L’ AVVISO DI CHIUSURA INDAGINE PER FALSO IDEOLOGICO NOTIFICATO A 15 PERSONE, TRA CUI 4 CONSIGLIERI PROV. MILANESI DEL PDL E LA ATTUALE COLLABORATRICE DI NICOLE MINETTI
Lo scrive il procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, nell’avviso di chiusura delle
indagini per falso ideologico, notificato a 15 persone, tra cui 4 consiglieri provinciali milanesi del Pdl e Clotilde Strada, collaboratrice di Nicole Minetti e all’epoca responsabile del partito per la raccolta delle firme.
Nell’atto si parla di “firme apocrife”.
In particolare, le indagini degli inquirenti hanno accertato la falsità di 618 firme presentate per la lista “Per la Lombardia” di Formigoni (a sostegno del listino ne vennero presentate circa 3800 in totale e la quota necessaria per legge è di 3500) e di 308 firme per la lista della circoscrizione provinciale milanese del Pdl.
Secondo gli inquirenti, poi, il sistema di falsificazione delle firme per le elezioni del 28-29 marzo 2010 era già stato messo in piedi tra gennaio e febbraio.
Clotilde Strada, come si legge nell’avviso di chiusura che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, ha agito “in qualità di vice responsabile del settore elettorale del Pdl Lombardia, ma in concreto unica effettiva responsabile dell’attività di raccolta delle firme dei sottoscrittori necessarie per la presentazione delle liste”.
E ha agito in “concorso” con i consiglieri provinciali Massimo Turci e Barbara Calzavara, anche loro indagati, assieme agli altri due consiglieri della Provincia, Nicolò Mardegan e Marco Martino. Strada, stando al capo di imputazione, avrebbe consegnato a Turci e Calzavara, nell’ambito di un “disegno criminoso”, gli “elenchi dei sottoscrittori” delle liste “già compilati con le generalità complete e le firme apocrife”.
I consiglieri, che dovevano autenticare le firme in qualità di “pubblici ufficiali”, attestavano invece “artatamente” di avere “previamente identificato ciascun sottoscrittore con il documento”, quando in realtà non lo avevano fatto.
E in più, sempre stando all’imputazione, attestavano “falsamente” come “vere, autentiche ed apposte in loro presenza” firme che non lo erano.
Al consigliere Turci è contestato di avere da solo autenticato 536 firme false del ‘listinò di Formigoni e 205 di quello del Pdl.
Tra gli indagati anche il consigliere provinciale di Varese del Pdl Franco Binaghi, il sindaco di Magenta (Milano) Luca del Gobbo, il consigliere provinciale di Pavia Gianluigi Secchi e quello provinciale di Monza Massimo Vergani.
L’inchiesta era nata a seguito di un esposto in Procura dei Radicali di Marco Cappato che, dopo aver dato battaglia nei tribunali amministrativi per chiedere l’annullamento delle elezioni, si erano presentati con tre scatoloni con dentro oltre 500 firme da loro ritenute false.
Nel corso delle indagini era anche stato sentito come teste Guido Podestà , presidente della Provincia di Milano ed ex coordinatore lombardo del Pdl.
Nella primavera del 2010 il listino dell’attuale presidente della Lombardia, fu momentaneamente escluso dalla competizione elettorale (per essere poi riammesso all’ultimo momento).
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Ottobre 19th, 2011 Riccardo Fucile
E’ UNA PROTESTA CON RADICI PROFONDE….DEBITI E RICCHEZZA NON SONO EQUAMENTE DISTRIBUITI: LA CRISI E’ NATA FUORI DAI NOSTRI CONFINI MA POI HA FATTO ESPLODERE I NOSTRI PROBLEMI DI FONDO
La minoranza violenta di Roma è riuscita a rovinare una manifestazione che doveva lanciare un doppio importante segnale politico: alla base non c’era infatti solo il disagio dei giovani che come in tutti i paesi occidentali sono le principali vittime della crisi, ma anche la sempre più evidente incapacità dell’Italia di creare nuova ricchezza e nuovi posti di lavoro.
La protesta italiana ha radici diverse e più profonde rispetto agli altri Paesi perchè i nostri problemi sono iniziati ben prima della crisi finanziaria.
Anche se gli slogan sono quelli di New York e Londra contro il debito e le banche, alla base c’è il fatto ben più concreto che “un quarto dei giovani italiani oggi è senza lavoro” (lo ha detto Mario Draghi giovedì, proprio mentre i manifestanti cominciavano a radunarsi) per colpa di un sistema politico che negli ultimi venti anni, dominati dai governi di centrodestra, ha fatto peggiorare tutti gli indicatori di benessere, dal reddito pro-capite, all’occupazione, alla condizione femminile.
I giovani italiani non protestano solo perchè non vogliono accollarsi il debito accumulato dalle generazioni precedenti.
Se fosse così, avrebbero torto perchè a essi verrà consegnata anche una consistente ricchezza immobiliare e finanziaria.
Il problema è che debiti e ricchezze non sono equamente distribuiti e le seconde sono sempre più concentrate nelle mani di pochi e soprattutto di chi non paga le tasse o le paga molto meno delle uniche due categorie oggi tassate: lavoratori dipendenti e pensionati (probabilmente come i genitori di gran parte dei manifestanti).
Dunque la protesta di Roma doveva essere una grande occasione per richiamare l’attenzione sui grandi problemi del Paese e per sfatare forse definitivamente la tesi cara a Berlusconi secondo cui l’Italia è toccata marginalmente dalla crisi.
È vero invece il contrario: la crisi è nata fuori dai nostri confini, ma ha fatto esplodere tutti i problemi di fondo e richiede risposte urgenti, che il governo più screditato della storia non è palesemente in grado di dare.
È successo ai dimostranti pacifici di Roma, in modo ancora più clamoroso, quello che è successo ai No-Tav: una minoranza teppista rischia di oscurare le molte e solide ragioni del dissenso.
Qui la posta in gioco è ancora più alta e le forze di opposizione devono finalmente dimostrare di essere capaci di incanalare e dare uno sbocco a una protesta ancora confusa, ma assolutamente fondata.
Se si vuole davvero cambiare bisogna ripartire da Roma.
Marco Onado
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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