Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
“LA MIA SINISTRA PARLA DEI TEMI CARI A SANT’EGIDIO”….”SE VINCO, REDDITO MINIMO A 10.000 GIOVANI”
Il giorno dopo Ignazio Marino è come il giorno prima. Prudente.
Ha incassato il risultato del ballottaggio, ha «dormito benissimo» ma è già in moto per il secondo turno, «mai dare nulla per scontato».
Un abbraccio con militanti ed elettori al Capranica e poi la sera da “Ballarò”, confronto indiretto con il sindaco di Roma Gianni Alemanno, uscito pesto dalle urne.
«L’irregolare Marino», come lo definisce Goffredo Bettini, ammette di aver fatto molta strada da solo: «Il Pd mi ha aiutato moltissimo dal momento in cui è stato eletto Guglielmo Epifani. Prima c’è stata invece una situazione di attesa, diciamo di non operatività , alimentata dal combinato disposto delle dimissioni del segretario nazionale e da quelle, quasi contestuali, del segretario cittadino».
Insomma, non è stata una passeggiata e non lo sarà neanche in questi 15 giorni.
Gli sembra perciò opportuno non esercitarsi sul tema allargato degli effetti del voto romano sul governo Letta. Il medico chirurgo, avverso alle larghe intese, recide con il bisturi ogni domanda: «Io parlo ai cittadini romani. Non mi sto occupando del destino del governo nazionale. Trovo già molto impegnativo concentrarmi sul destino del governo di Roma capitale».
Marino e adesso qual è la strategia?
«Adesso la cosa più importante è non rilassarsi. Il Campidoglio e i Municipi sono ancora da conquistare con il voto. Si può liberare Roma solo se ognuno fa lasua parte».
Non pronuncia mai la parola vittoria. Scaramanzia?
«Nel mio vocabolario non ci sono guerra, sconfitta, lotta, battaglia. Userei un termine da sala parto. Qui si tratta di far rinascere Roma, al di là di vinti e vincitori, di amici degli amici e nemici. C’è un progetto al servizio di una città che ha smarrito il senso di comunità e lo deve ritrovare. Penso al 40 per cento dei giovani senza lavoro, ai tanti cinquantenni licenziati, alle 50 mila famiglie senza casa. Questa città ha vistocrescere del 20 per cento i reati di violenza sessuale, del 12 per cento gli omicidi. È una città dove si consumano esecuzioni capitali per strada, nonostante il sindaco uscente avesse messo, 5 anni fa, la sicurezza come priorità della sua agenda».
Per vincere – la parola la uso io – bisogna conquistare i voti degli elettori Cinque Stelle e di Alfio Marchini.
«Con questi elettori è possibile fare un patto su quei temi che sono loro quanto miei. Mi riferisco alla riduzione dei costi della politica, alla democrazia partecipata, al rigore nella gestione del bilancio invocato da Marchini. È dal 2009 che mi batto per questecose e continuerò a farlo con orgoglio anche in queste due settimane».
Pensa di parlare anche agli elettori del centrodestra?
«Sì, a quelli delusi e disgustati, quelli che non si sono mai riconosciuti nelle assunzioni per chiamata diretta all’Atac, quelli che credono come me nel merito e avrebbero preferito ingaggiare autisti veri nella Azienda dei Trasporti di Roma e non cubiste, ex pugili ed ex picchiatori neri».
Grillo dice che chi vota Pd e Pdl vota l’Italia peggiore.
«Non ho la sua violenza verbale e non possiedo una cultura divisoria. A suo tempo difesi Grillo quando si prese la tessera del Pd per partecipare alla corsa per la segreteria. Io vedo una città con enormi potenziali. C’è spazio per tutti quelli che vogliono dare una mano».
Alemanno dà colpa anche al derby per come sono andate le cose.
«Sono giustificazioni surreali. Ha avuto 5 anni per gestire i trasporti e i rifiuti. Basta con i vittimismi, ci vogliono le proposte».
Per esempio?
«Per esempio. Comune e Regione possono lavorare insieme per utilizzare un bando europeo che darà lavoro e reddito di cittadinanza a 10 mila giovani tra i 18 e i 29 anni. È quello che faremo io e Zingaretti, presidente della Regione ».
Il Pd l’ha aiutata?
«Moltissimo da quando è diventato segretario Epifani».
Prima?
«C’è stata una fase di attesa, non operativa, con le dimissioni di Bersani e del segretario cittadino. Zingaretti ha fatto un po’ il vicario e ne è nato un rapporto solido, non sull’amicizia ma sui contenuti, dai trasporti alla sanità , dall’energia alla casa. Non mi ha mai fatto sentire solo. Un rapporto molto positivo per la città ».
Vendola parla di lei come «uomo libero». C’è chi la vede troppo schiacciato a sinistra…
«Mi occupo dei senza casa, dei disabili, degli aiuti alle giovani coppie. Sono i temi di Sant’Egidio. Non capisco perchè, se ne parlo io, devo essere un pericoloso estremista».
Il primo provvedimento del sindaco Marino?
«Le dico il primissimo: rendere pubblica e trasparente ogni singola virgola del bilancio comunale, inclusi gli stipendi delle figure apicali, quelle che guadagnano 100 volte di più di un operaio ».
Alessandra Longo
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
NELL’ASSEMBLEA DEI GRUPPI E’ LITE TRA VERDINI E QUAGLIARELLO
Il risveglio è da giorno nero, in via dell’Umiltà .
La botta incassata dal Pdl con i definitivi delle liste assume contorni più marcati, da partito in crisi.
I sondaggi sbandierati nelle ultime settimane sono smentiti dalle urne.
Silvio Berlusconi resterà silente e lontano da Roma, in Sardegna, per tutta la settimana, immerso nelle sue carte processuali.
E il partito gli va in frantumi nel giro di 24 ore.
L’assemblea dei gruppi parlamentari che lui diserta si trasforma in autocoscienza collettiva, va avanti per ore e riprende in serata fino a notte.
Braccio di ferro sulla legge elettorale da riformare, sull’accordo col Pd che regge a stento. In realtà , ancora una volta, i falchi, con Verdini, Fitto, Santanchè in testa, tornano a scatenarsi e a mettere in discussione la lunga gittata del governo Letta. Dall’altro lato, i ministri Quagliariello e Alfano, Schifani e Cicchitto e le altre «colombe».
L’esecutivo non si mette in crisi, ma va incalzato, «tenuto sulla corda», ordina il capo da Villa Certosa.
«È il male minore, ma deve dare risposte serie prima dell’estate», dice riferito ai soliti Imu, Iva, Equitalia, detassazione delle assunzioni.
Nè il leader sembra intenzionato a spendersi per i ballottaggi: stavolta non ci mette la faccia. Non a caso.
Gli ultimi report trasmessi da via dell’Umiltà sono da brivido.
Il Pdl è rimasto fuori dal Consiglio regionale in Val d’Aosta, fuori dal ballottaggio ad Avellino, dove perfino il candidato Udc ha avuto la meglio.
Altrove il partito è al ballottaggio – Roma, Viterbo, Imperia, Brescia, Lodi, Barletta e Siena, tra gli altri – ma il candidato parte sempre sfavorito.
La lista è in calo quasi ovunque.
Solo in Calabria il governatore e coordinatore Giuseppe Scopelliti canta vittoria, ma si è votato in centri minori.
Nell’assemblea dei gruppi, riuniti a Montecitorio, i capi Schifani e Brunetta aprono tra gli applausi esprimendo «solidarietà a Berlusconi da 20 anni oggetto di persecuzione», ma la tensione sale subito.
Anche per quel che sta accadendo fuori.
Le agenzie di stampa iniziano a pubblicare stralci delle imbarazzanti rivelazioni contenute nel libro-intervista di Luigi Bisignani Clicca qui .
Il faccendiere chiama pesantemente in causa Alfano e Schifani, parla di “Giuda” che nel partito avrebbero cercato, nel 2012, un’alternativa a Berlusconi.
Il vicepremier segretario arriva in assemblea inritardo e, racconta chi è presente, compulsa nervosamente il telefonino e le agenzie.
Nel frattempo in riunione lo scontro si fa dirompente tra Verdini e Quagliariello.
Il pretesto è la riforma «trappola», come la bolla il coordinatore, alla quale lavora il ministro.
Poi l’affondo si allarga al governo.
«La gente non arriva a finemese, ci chiede provvedimenti concreti, altro che riforme», tuona il toscano. Con lui, Santanchè, Fitto, Romani, Capezzone, la Polverini. Cicchitto irrompe: «Basta coi coordinatori regionali calati dall’alto. Berlusconi deve essere sostenuto da un partito democratico ».
Lui, come i ministri, sono convinti che il governo debbadurare a lungo per fare le riforme.
Gli altri, i «falchi», sempre più insofferenti, anche nei confronti della segreteria del partito.
«La verità – ragiona il senatore Augusto Minzolini in Transatlantico – è che con questo governo pensavamo di aver messo il Pd in gabbia, i risultati dicono altro».
Carmelo Lopapa
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
DA SARAGAT A FORLANI: LE SCUSE DEI POLITICI PER NON AMMETTERE LA SCONFITTA
E non ci vuole stare. Beppe Grillo alza le braccia al cielo e dinanzi ai pochi voti ottenuti dal MoVimento Cinque Stelle lancia nel cyberspazio un post pieno di battagliero sarcasmo, che però sa anche di rabbiosa autocommiserazione.
Può succedere, a chi perde. Di prendersela in qualche modo con l’elettorato che non capisce, o capisce troppo, «tiene famiglia » e perciò difende i propri privilegi.
Così il dopo-elezioni si configura come un tempo utilissimo, una specie di cartina al tornasole per capire di che pasta umana sono fatti i leader, specie quando sono soli, nudi e sconfitti: non solo nelle urne, ma anche nel proprio ego
Accade spesso, ed è tipico dei «pennivendoli», come li chiamano Grillo e diverse generazioni di politici, osservare con appagata e crudele curiosità le reazioni dei perdenti, spesso traendone ulteriori risorse narrative per condire i loro articoli.
Ma un tempo, specie quando vigeva la legge proporzionale e le differenze percentuali erano minime, gli sconfitti pateticamente facevano finta di nonaver perso — e lo stesso Grillo ieri un po’ c’è cascato, senza troppa convinzione cercando di far notare che in questo turno il M5S ha «raddoppiato» i suoi consiglieri. Ma pazienza.
In passato, quando i risultati si mettevano male, sia la Dc che il Pci spedivano in sala stampa figure di secondo piano — Costante Degan, per dire, o Luca Pavolini — per salvare il salvabile, a volte nemmeno quello, e in ogni caso soddisfare il pasto dei giornalisti.
Allorchè i numeri erano inconfutabili e la batosta troppo evidente da nascondere o camuffare dietro figure di gregari, i capi procedevano di solito al rito dello scaricabarile.
Il più celebre e altisonante, nel 1953, dopo l’insuccesso della legge truffa, venne officiato da GiuseppeSaragat, che era un uomo anche letterariamente molto coltivato, e che in quella remota circostanza accusò «un destino cinico e baro».
Ma era anche quello, a ben vedere, un modo per attribuire la disdetta elettorale a un evento esterno, comunque trascendente la propria responsabilità .
Si è anche scritto che nel 1968, una volta al Quirinale, per via di una delusione delle urne, come in un cartone animato lo stesso Saragat prese a calci un televisore.
Anche Fanfani, del resto, faceva scene turche; mentre De Gasperi si ammalava, Berlinguer s’incupiva e Craxi si mostrava brusco, ma assai più prudente di quanto si possa immaginare. Posto davanti a una debacle, d’altra parte, per misteriose ragioni Forlani sembrava perfino allegro; così come nel 1987 De Mita — di cui resta agli atti una magnifica foto, disfatto su un divano, con una mano sulla capoccia come a dire: «Che botta! » — passò giorni e giorni a Nusco invitando e ricevendo visitatori con un bloc notes in mano: «Ma perchè — gli chiedeva — ho perso quei sette punti?».
Ecco. Sia come sia, saper perdere con stile è anche un’arte. D’Alema, per dire, non sarà un simpaticone, ma nel 2000, dopo il disastro delle regionali, se ne andò rapidamente e con grande dignità .
Bersani, tredici anni dopo, un po’ meno. Di Fini si sono addirittura perse le tracce.
Ma pure al netto di rimpianti e nostalgie, sul piano della pura tecnica converrà fare un pensierino sul fatto che se Saragat invocava il Caso, per chiamarsi fuori ieri Alemanno ha tirato in ballo nientemeno che Roma-Lazio.
Tra la potenza mitologica e il derby corre una gamma neanche troppo vasta di scuse e pretesti atti a salvare la superbia del potere, dalla par condicio alla televisione cattiva, dagli errori di comunicazione alla giustizia a orologeria.
E tuttavia, di tutti possibili parafulmini, il più allarmante è quello di attribuire la colpa dello sconquasso agli elettori «che non hanno capito » — il che di norma vuol dire «non mi hanno capito».
Difficile a questo punto tralasciare la grande lezione di Berlusconi, per il quale l’ideastessa di sconfitta non rientra nel novero degli schemi psicologici e anzi finisce per violare l’ordine mentale alla base del suo potere e del suo personaggio.
Ciò nondimeno egli è riuscito a perdere parecchie volte, ma senza mai ammetterlo, sempre attribuendo l’irreale condizione a qualcosa di incommensurabilmente bislacco, o contronatura. Con la stessa naturalezza, per giunta, con cui una volta riuscì a definire «coglioni» chi non lo avrebbe votato.
A tal fine si ricorda con quanta impudica disinvoltura il Cavaliere arrivò anche a tirare in ballo i brogli — e in più di un caso, e perfino in via preventiva — come risolutiva contingenza alla base di una sua «mancata vittoria ».
Una giustificazione che lo rendeva vittima.
Anche se la più fantasmagorica notazione a discolpa risuonò, tra finzione e realtà , scherzo, capriccio e utile inventiva, il giorno in cui esaminando i disastrosi numeri di una batosta, gli scappò detto: «I risultati veri sono quelli dei miei sondaggi» — e la faccenda suonava strana, beh, non era già la prima, nè sarebbe stata l’ultima.
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica“)
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Maggio 29th, 2013 Riccardo Fucile
PER SEGUIRE IL TOUR SI ERA PRESO L’ASPETTATIVA. ORA MOLLA TUTTO
“Ho deciso che quella di oggi sarà l’ultima puntata di Mi scappa la diretta. E ho deciso di
lasciare questo Paese. Sono un vigliacco, non ho intenzione di continuare a lottare. Non ce la faccio più. Il risultato elettorale di ieri è l’ultima goccia. Basta”. Salvo Mandarà si è svegliato da poco, nel suo appartamento di Abbiategrasso.
E come ogni mattina, si mette davanti alla telecamera e registra la puntata del suo canale casalingo: 15 minuti di analisi del mondo, rigorosamente a 5 Stelle.
Ieri, però, è l’ultima. Ventiquattro ore dopo aver assistito al tracollo elettorale del Movimento che era diventato quasi la sua ragione di vita, decide che ne ha abbastanza.
Prende le valigie e se ne va. Sei mesi fa, era dicembre, si era addirittura preso l’aspettativa dal lavoro per dedicarsi anima e corpo alla campagna di Grillo.
Lui, ingegnere elettronico, siciliano trapiantato al Nord, si era inventato l’hang out, una versione riveduta e corretta della video chat, una sorta di comunità virtuale in cui si poteva mandare in diretta un comizio in corso a Treviso, commentarlo da Tokyo e corredarlo con immagini in arrivo da Londra.
“Rimarrà nei libri di storia” dicevano di lui gli attivisti che lo ammiravano sotto al palco di piazza San Giovanni, a febbraio.
Sempre lì, a un passo da Beppe a riprendere con quello strano aggeggio ogni frammento dello Tsunami Tour, su e giù dal camper dove, suo malgrado, gli avevano affibbiato l’ingrato compito di lavare i piatti.
E adesso basta. “Viviamo in un Paese in cui 8 milioni e 700 mila persone votano M5S e danno l’illusione a un coglione come me che gli italiani si siano svegliati — dice Mandarà nel video d’addio -. Invece non è così, forse solo un milione o due di quelli si è svegliato davvero, gli altri si sono girati dall’altra parte e hanno ricominciato a dormire. Io non voglio più vivere in uno Stato di merda come questo perchè c’è un popolo di merda. Sono un vigliacco, avete ragione a pensarlo. Ma io qui non resto”.
Non tutti la prendono bene. C’è chi gli rimprovera di mollare tutto alla prima sconfitta.
Il deputato Ferdinando Aliberti scrive su Facebook: “Sto piangendo. Piango perchè se Salvo scrive questo vuol dire che qualcosa s’è rotto. Non l’Italia, quella è rotta da decenni, ma nella lotta che abbiamo iniziato insieme. Sì, sono triste e delle elezioni non me ne fotte un cazzo”.
Lo sconforto è tale che Mandarà è costretto a replicare, a spiegare in un post che la disfatta elettorale non è l’unica ragione, che ha problemi a casa, che vuol far crescere suo figlio in un altro posto.
“Se fossi single e senza figli, rimarrei qui in trincea…” prova a convincerli Salvo.
Ma la verità è che qui la guerra ha preso un’altra piega. E si è costretti a imbracciare nuove armi.
Mentre il simbolo dell’autarchia informativa fa i bagagli, quindici parlamentari sono in partenza per Milano.
Venerdì comincia il primo turno di corso di comunicazione televisiva. Lezioni di piccolo schermo tenute da esperti scelti da Grillo e Casaleggio che prima o poi toccheranno a tutti i deputati e senatori.
Hanno capito che la Rete non basta, ma non vogliono farsi schiacciare dal mezzo.
Conoscere le regole è indispensabile per non farsi manovrare. E poi, da questa batosta elettorale, alcuni Cinque Stelle hanno cominciato anche a capire quanto è importante il rapporto con il territorio.
Fa tanto di vecchia politica, così come la condizione necessaria per mantenerlo: la settimana corta.
Dopo tre mesi in Parlamento deputati e senatori si stanno liberando della retorica del lavoro dal lunedì al venerdì.
Se si sta sempre nei palazzi, è difficile spiegare fuori quello che si sta facendo. Così, tra una proposta e l’altra, si insinua anche quella di dedicare l’inizio e il fine settimana alle attività nei dintorni di casa.
Sarà uno degli argomenti di cui discuteranno probabilmente anche nell’assemblea congiunta di domani, la prima dopo il flop delle amministrative.
Per i malpancisti, i risultati delle urne rappresentano un ulteriore prova del fatto che il Movimento sta sbagliando.
“Caporetto era niente”, fulmina il deputato friulano Aris Prodani.
“Non si può incolpare chi non ci ha votato. Bisogna ritornare a sentire la base, i simpatizzanti e gli elettori, per capire se si aspettavano altro, se sono delusi”, dice il deputato Walter Rizzetto. Si sarebbe “giocato la partita in altro modo”, il senatore Lorenzo Battista .
E Mara Mucci da Imola dice: “È arrivato il momento di iniziare a parlare di politica”.
Presto, visto che i ballottaggi sono tra poco più di una settimana e i Cinque Stelle possono muovere la bilancia in molte città . A Roma per esempio.
La sfida tra Ignazio Marino e Gianni Alemanno è considerata alla stregua di un nuovo caso Grasso. Astenersi e rischiare di far vincere un nemico o scegliere il “meno peggio”?
Marino è molto apprezzato dai grillini, che hanno sottoscritto molte delle sue proposte di legge da senatore.
Marcello De Vito, il candidato sconfitto, per evitare di caricarsi di una responsabilità eccessiva aveva parlato dell’ipotesi di una consultazione on line tra gli attivisti.
Ieri sera, però, un tweet del M5S Roma lo ha anticipato: “Votare è un dovere, votare Marino o Alemanno un errore”.
Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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