Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
IL TRIBUTARISTA: “CERTEZZA DEL DIRITTO A RISCHIO”
«Per come è formulata la norma vale senz’altro il principio del “favor rei” e quindi le norme del codice di procedura penale sulla retroattività delle misura più favorevole», spiega Alessandro Giovannini, ordinario di diritto tributario a Siena e presidente dell’Associazione italiana professori di diritto tributario.
Quindi Berlusconi potrebbe certamente avvantaggiarsene e vedersi annullare la condanna penale per frode fiscale, con tutto quello che ne consegue.
«Il problema — aggiunge però Giovannini — è che non si capisce perchè sia stata inserita questa nuova soglia del 3% perchè nella vecchia legge le soglie già c’erano».
I difensori di Berlusconi però sembrano divisi: uno sostiene che lo sconto si può applicare anche al l’ex Cavaliere ed un altro no. Lei cosa ne pensa?
«La nuova norma si inserisce in una legge già esistente che riguarda tutti i tipi di reati in materia tributaria, sia quelli di fatto minori come la dichiarazione infedele, sia quelli di maggiore antigiuridicità , come la frode. E non specificando consente una applicazione all’intero complesso dei reati»
Per correggere il pasticcio dunque basta specificare che la soglia del 3% non riguarda la frode, come pare sia intenzionato a fare Renzi?
«Personalmente credo che questa legge vada ritirata e rimeditata complessivamente»
Solo per questo «incidente» o anche per altre ragioni?
«I punti critici sono tanti. Ad esempio la norma sull’abuso del diritto finisce per creare un meccanismo ancora più macchinoso di quello attuale visto che rimette completamente tutto in mano alla giurisprudenza. In pratica lo slogan con cui è stata presentata la legge, ovvero la “certezza del diritto”, risulta vanificato dalla legge stessa».
Eppure l’intenzione era questa: semplificare, dare certezze alle imprese, alleggerire i tribunali…
«Peccato che il prodotto finale sia un altro. Ma poi ci sono altri aspetti che non funzionano, come la norma sul patteggiamento che di fatto viene impedito, visto che chi patteggia va incontro alla confisca dei beni, mentre se si va al dibattimento e si sana la posizione debitoria con il Fisco la confisca non c’è più. In questo modo nessuno seguirà più questa strada creando un effetto a valanga negativo sul processo penale, ingolfando ulteriormente la macchina giudiziaria».
Torniamo alla questione del 3%. A parte il «regalo» a Berlusconi, questa norma risponde a pieno alla filosofia delle delega che puntava a semplificare e ad alleggerire il carico giudiziario nell’interesse generale non di uno solo.
«Il problema non è tanto il fatto del 3, del 2 o dell’1%: il problema è che in questo modo si è aggiunta una soglia ad un sistema che già prevedeva delle soglie all’interno dei singoli reati sotto le quali non scattava la sanzione penale. Per cui mi chiedo: perchè è stata aggiunta?».
Paolo Baroni
(da “La Stampa“)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
L’EX SINDACO PIU’ ASSENTEISTA D’ITALIA (82% NEL 2012, 59% NEL 2013) CHE PER EQUIPARARE IN BASSO VUOLE TOGLIERE DIRITTI A TUTTI
Matteo Renzi è stato per due anni consecutivi il sindaco più assenteista d’Italia (con il 59% di
assenze in consiglio comunale nel 2013 e addirittura l’82% nel 2012), ma adesso che è diventato premier ritiene giusto che in futuro paghi col licenziamento “un impiegato pubblico che sbaglia, partendo dai furti e arrivando all’assenteismo a volte vergognoso“, e su questo principio si dichiara “pronto al confronto in parlamento“.
Ma c’è ben poco da confrontarsi: forse Renzi ignora che la legge italiana ha già introdotto da diversi anni la possibilità di licenziamento a seguito di un procedimento disciplinare per i dipendenti pubblici ladri o nullafacenti, che falsificano documenti, dichiarano il falso, riportano condanne penali definitive o hanno una insufficiente valutazione del rendimento nell’arco di un biennio.
Il licenziamento non è ancora previsto, invece, per le cariche elettive ricoperte in seno alle istituzioni pubbliche, che consentono ancora di assentarsi a piacimento dal luogo di lavoro, come ha potuto fare il “sindaco d’Italia” quando era ancora sindaco di Firenze.
L’ipotesi alternativa all’ignoranza del premier sulla normativa in vigore è che queste dichiarazioni siano funzionali alla preparazione del terreno per una inconfessabile agenda politica: rendere licenziabili anche senza una giusta causa tutti i dipendenti pubblici a prescindere, in modo da poterli trasformare in esuberi a convenienza, per semplici ragioni di efficienza economica e indipendentemente dalla loro onestà e dal loro rendimento.
Del resto, i licenziamenti senza giusta causa sono appena stati legalizzati nel settore privato con il crudele sillogismo alla base del “Jobs Act”: Voglio diritti uguali per tutti.
C’è qualcuno senza diritti. Allora togliamoli a tutti per affermare nobili principi di uguaglianza.
In questo modo la disparità di trattamento tra precari e contrattualizzati è stata eliminata alla radice: adesso sono tutti licenziabili a piacimento, fannulloni e stakanovisti.
E’ il libero mercato, bellezza, dove i problemi si possono scaricare dai piani alti fino ai livelli più bassi della piramide sociale.
Il passo successivo sarà quello di far notare che adesso i dipendenti pubblici hanno più diritti di quelli del settore privato, e in nome dell’uguaglianza bisognerà negare questi diritti con un nuovo livellamento verso il basso, che renderà tutti i lavoratori ricattabili perchè nessuno sarà più tutelato da licenziamenti arbitrari, nemmeno chi lavora sodo e si trascina in ufficio anche con la febbre.
Una ipotesi che il giuslavorista Ichino aveva frettolosamente descritto come realtà già in vigore per effetto del “Jobs Act”, costringendo Renzi a smentirlo: “il Jobs act e il disegno di legge Madia sono due cose diverse – ha dichiarato il premier – per questo ho chiesto di togliere il riferimento al pubblico impiego dal Jobs act“.
Nella nuova sinistra, infatti, non bisogna essere impazienti come Ichino: i diritti vanno tolti poco per volta, una legge dopo l’altra, senza strappi bruschi e convincendo il popolo che è l’unica strada possibile verso l’”uguaglianza reale”, cominciando dai precari per poi risalire ai contrattualizzati del settore privato e culminare con la rimozione delle tutele di quelli che nel nostro immaginario collettivo sono i tutelati per antonomasia.
E dopo il regalo di Natale del Jobs Act, si intravede già che cosa ci porterà la primavera grazie al botticelliano ministro Madia e alla sua annunciata riforma del pubblico impiego: raccogliere a sinistra quello che aveva seminato Brunetta da destra, aggiungendo alla possibilità di licenziamento senza giusta causa per i dipendenti pubblici altre forme mascherate di licenziamento, come il demansionamento che altri chiamerebbero mobbing o il trasferimento forzato in un raggio di cinquanta chilometri da casa, pagando il rifiuto con la perdita del posto.
La “perla” di Renzi sui ladri e i fannulloni, dipinti come inamovibili anche se è già possibile licenziarli, non è una gemma isolata, ma va incastonata in quel teatrino della politica dove i “rottamatori dei diritti” hanno costruito sapientemente nel corso degli anni un ricco cast di personaggi: i “lavoratori flessibili” di Maroni, da flettere fino allo schiavismo, i “dipendenti pubblici fannulloni” di Brunetta su cui far convergere l’odio dei meno abbienti, gli “annoiati dal posto fisso” di Monti che rifiutano le sfide della modernità , i “disoccupati schizzinosi” della Fornero che non lavorano per colpa loro, e dulcis in fundo i “contrattualizzati privilegiati” di Renzi, spogliati delle loro misere tutele per renderli nudi tanto quanto i precari davanti ai loro datori di lavoro.
A questo si aggiunge l’artificio retorico dei futuri contratti a “tutele parziali” che vengono spacciate per “tutele crescenti”: a parità di condizione sociale dovremo decidere se le tutele che un tempo coprivano tutti vanno fatte crescere nei contratti destinati al giovane o all’anziano, al neoassunto o allo specializzato, allo sposato con prole o al divorziato, al disabile o alla vedova.
Il risultato di questa compartimentazione dei diritti è la perdita di ogni umana solidarietà tra lavoratori, dove i nemici sono sempre altri lavoratori: gli autonomi evasori se sei tassato alla fonte, gli statali fannulloni se sei libero professionista, le caste delle libere professioni se sei un dipendente pubblico, i giovani rampanti se sei anziano, gli anziani baroni se sei giovane, i precari malpagati che svalutano la tua professione se sei assunto, gli assunti privilegiati se sei precario.
Il meccanismo culturale che porta le classi meno abbienti a sbranarsi politicamente e culturalmente a vicenda, sgretolando ogni brandello residuo di solidarietà tra onesti lavoratori, è stato illustrato in modo magistrale già da tempo da Alessandro Robecchi, che fa i conti con un imprescindibile “dato ideologico” (grassetti miei):
“la vera vittoria del renzismo – scrive Robecchi – [è] aver trasferito l’invidia sociale ai piani bassi della società . Quella che una volta si chiamava lotta di classe (l’operaio con la Panda contro il padrone con la Ferrari) e che la destra si affannava a chiamare “invidia sociale“, ora si è trasferita alle classi più basse (il precario con la bici contro l’avido e privilegiato statale con la Panda). Insomma, mentre le posizioni apicali non le tocca nessuno (nè per gli ottanta euro, nè per altre riforme economiche è stato preso qualcosa ai più ricchi), si è alimentata una feroce guerra tra poveri. Una costante corsa al ribasso che avrà effetti devastanti. Perchè se oggi un precario può dire al dipendente pubblico che è privilegiato, domani uno che muore di fame potrà indicare un precario come “fortunato”, e via così, sempre scavando in fondo al barile. Si tratta esattamente, perfettamente, di un’ideologia”.
Sul palco di questo teatrino ideologico dove i pupi sono spinti a darsi randellate a vicenda, gli unici che non sono esposti ai fischi e al lancio di pomodori sono i burattinai che restano dietro le quinte a custodire l’ideologia: i finanzieri con la residenza fiscale all’estero che pontificano alla Leopolda contro il diritto di sciopero, i banchieri che tappano i loro buchi privati di bilancio grazie ai miliardi erogati con decretazione d’urgenza, le multinazionali che fanno profitti in Italia ma li fanno tassare in altri paesi grazie a quel legalissimo e convenientissimo gioco delle tre carte chiamato elusione fiscale, i vip alla Ezio Greggio che portano in dote a Montecarlo i profitti maturati nella televisione italiana, i faccendieri alla Briatore che si spacciano per grandi capitani d’industria con “sogni” e visioni innovative mentre sono semplicemente degli ex latitanti con conoscenze altolocate
Il dibattito sul diritto di licenziare i dipendenti pubblici come ultima frontiera verso l’uguaglianza dei diritti (negandoli a tutti in egual misura) si preannuncia come intenso e appassionante.
Ma prima di affrontarlo, fermiamoci un attimo a riflettere su altri dibattiti già persi in passato.
Com’è finito il dibattito sul precariato? Con Maroni che approva la legge sedicente “Biagi”.
Com’è finito il dibattito sulle pensioni? Con la Fornero che alza l’età pensionabile. Com’è finito il dibattito sulla macelleria sociale? Con l’aumento di Monti dell’Iva e delle accise per non toccare profitti finanziari, patrimoni e redditi milionari.
Com’è finito il dibattito sull’articolo diciotto? Con Renzi che lo rottama dipingendo una tutela come privilegio.
A questo punto non ci vuole un indovino per capire come andrà a finire il dibattito sui dipendenti pubblici da licenziare a convenienza e assumere a progetto con contratti stagionali, come già avviene del resto per gli insegnanti.
Da qui il dubbio: anzichè accanirci sui dibattiti, non sarebbe meglio mettersi a studiare perchè finiscono sempre nel modo peggiore per chi lavora, che casualmente coincide con quello auspicato da chi comanda?
Del resto, vista la scelta tra Gesù e Barabba, cosa possiamo aspettarci da un popolo imbevuto dall’ideologia del teatrino quando viene chiamato a scegliere tra il dipendente pubblico (archetipo del parassita) e l’intraprendente finanziere con residenza fiscale all’estero, archetipo del determinato e salvifico uomo di successo che porterà in italia gli investitori, ma solo a condizione che si smetta di scioperare nel settore dei trasporti?
Alla dozzina di discepoli del keynesismo, ostili al potere politico dei macellai sociali e al potere religioso del culto neoliberista, non resta che restare nelle catacombe del mondo intellettuale dove saranno pereguitati come “professoroni”, mentre cercano di predicare la buona novella del ‘900, quella a cui avevano creduto in molti: un mondo che verrà , dove la spesa pubblica è orientata al lavoro socialmente utile come “moltiplicatore keynesiano dell’economia”, e non a Ilva, Banche, Confindustria, Mercanti d’armi, mafie private camuffate da servizi pubblici, grandi opere inutili, e tutto per poi piangere miseria ogni luglio, licenziando anche gli insegnanti che si riassumeranno con certezza il settembre successivo.
Se il rischioso percorso della licenziabilità è la strada che ha deciso di intraprendere la maggioranza politica del paese, non possiamo che inchinarci alle regole del gioco democratico. Ma in ogni caso io introdurrei per gli sperimentatori di queste ricette economiche un principio di “accountability”, obbligandoli a rispondere delle loro decisioni.
I detrattori del pubblico impiego che applaudono con la bava alla bocca le ipotesi di licenziabilità senza giusta causa dei dipendenti statali dovrebbero mettere per iscritto la loro presa di posizione, per renderne conto politicamente (o almeno moralmente) nel caso in cui questa ennesima sforbiciata alla rete di tutela del lavoro dovesse innescare in Italia la spirale che dalla crisi porta verso la profonda e conclamata depressione economica, terreno fertile per la trasformazione del conflitto sociale in guerra civile.
Per quanto mi riguarda, è palese che lo Stato col pubblico impiego fa girare l’economia italiana più di quanto non faccia la grande industria, e che piegare anche il settore pubblico alla logica del profitto (per alcuni fortunati che resteranno nella macchina statale a prescindere dal loro rendimento) significa condannare il paese alla miseria (per tutti quelli che non avranno santi in paradiso e si vedranno licenziati anche lavorando sodo, perchè i bilanci si faranno quadrare coi licenziamenti e i tagli orizzontali).
A conferma del ruolo centrale del pubblico impiego come motore dell’economia, ci sono i dati di realtà raccolti in una ricerca pubblicata dal Forum PA, da cui risulta che i dipendenti pubblici in Italia sono il 14,8% rispetto al totale degli occupati, e di conseguenza rappresentano una fetta consistente della popolazione lavoratrice, che con il suo reddito e le sue spese aiuta a tenere in piedi l’economia del paese, e in molti casi ne compensa anche le diseconomie, come avviene nelle famiglie in cui il reddito di un dipendente pubblico compensa l’intermittenza di reddito di un familiare precario.
Ma si sbaglia chi pensa che i dipendenti pubblici “sono troppi e vanno sforbiciati in qualche modo”, come suggerirebbe l’ideologia renziana: in Francia i dipendenti pubblici sono il 20% degli occupati, in Inghilterra il 19,2%, e sono molti meno anche in termini assoluti e in rapporto alla popolazione complessiva.
In Italia abbiamo 3,4 milioni di dipendenti pubblici pari al 5,6% della popolazione, contro 5,5 milioni in Francia (dove rappresentano l’8,3% della popolazione) e 5,7 milioni in Inghilterra, che corrispondono al 10,9% della popolazione britannica.
E dopo aver scoperto che ci sono paesi dove il settore pubblico viene sostenuto senza timore, invece di essere minacciato con ipotesi di licenziamenti giustificati solo dalle esigenze della macelleria sociale, possiamo chiederci quali possono essere i rischi potenziali legati ad un crollo del pubblico impiego.
Se il settore pubblico diventa “licenziabile a prescindere” anche se non ci sono motivi di licenziamento, la conseguenza è che i dipendenti pubblici diventeranno ricattabiili e corruttibili, perdendo ogni potere di contrattazione e ogni rivendicazione di diritti di fronte alla minaccia di licenziamento.
Visto che non sono dipendente della pubblica amministrazione italiana potrei anche fregarmene se la scure dei macellai cadrà su altri, ma azzerando le tutele del pubblico impiego crollerà inevitabilmente anche il reddito, con l’applicazione della collaudata formula “se non ti sta bene così ti licenzio, ti demansiono finchè non ti stufi o ti trasferisco anche se hai figli a carico, tanto ne trovo a migliaia disposti a fare la fila per condizioni peggiori delle tue“.
E se crolla il reddito in un settore che genera il 14,8% del lavoro in Italia c’è il rischio concreto che crolli l’intera economia del paese e che la crisi acuta si trasformi in una depressione economica esplosiva, che a quel punto colpirà tutti, dipendenti pubblici e non.
E da qui le domande cruciali di fronte al vento di tempesta che sta soffiando sul pubblico impiego: cari innovatori, rottamatori, cambiatori di verso, costruttori di futuro, twittatori, coraggiosi visionari di governo e profeti dell’ideologia renziana: vale davvero la pena di rischiare la depressione economica per battere cassa in modo miope con tagli che generano risparmi sul breve periodo ma negano lo sviluppo economico sul lungo termine?
Vale davvero la pena di colpire un settore strategico del nostro sistema economico e lavorativo, legittimando questo azzardo con il risentimento atavico indirizzato verso il settore pubblico?
Vale la pena di cavalcare questo risentimento per l’ennesimo attacco ai lavoratori tra i più deboli e ai redditi tra i più bassi?
Ha senso negare che questo risentimento nasce anche da una classe politica che oggi pretende di colpire l’assenteismo altrui con il licenziamento, ma ieri non è stata in grado di arginare il proprio assenteismo nemmeno con delle semplici sanzioni morali, che avrebbero evitato di affidare il governo del Paese al sindaco più assenteista d’Italia?
A tutte queste domande solo il tempo potrà dare risposta.
Nel frattempo si apra pure il dibattito sulle sorti del pubblico impiego, anche se postumo e con decisioni già prese altrove.
Carlo Gubitosa
(da “L’Espresso”)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
DROGA, OMICIDI, ARMI: COMANDANO LE MAGGIORI FAMIGLIE LEGATE ALLE COSCHE CALABRESI, HANNO CONTATTI E SANNO MUOVERSI… SULLE SPALLE PORTANO DECENNI DI CARCERE, OGGI, PERà’, SONO UOMINI LIBERI
Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti.
Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu.
In curriculum mette anche qualche anno di università . Da qui il soprannome di Dutturicchiu. Giuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo.
Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere.
Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia.
Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono.
S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena.
Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria.
Siciliani, ma soprattutto calabresi perchè come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ‘ndrangheta”.
Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza.
U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perchè l’interlocutore confermi l’appuntamento.
Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori.
Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca.
I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro.
Calabrò ha una partita di kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano.
Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”.
Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva.
Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese.
Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”.
Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”.
Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga.
Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.
Contatti e relazioni.
Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990.
Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu.
Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà . La sua scarcerazione risale al febbraio scorso.
Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”.
Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò.
Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Arturo Parisi. Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito.
Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita.
Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano.
Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato.
Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso.
E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà , un altro uomo del clan è in fuga dal 1994.
Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore.
Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollica, trafficante legato ai servizi segreti militari.
In città , dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ‘ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).
Occhio al passato
E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo.
Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”.
Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti.
In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano.
Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore Barbaro e Domenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia.
Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ‘ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia. Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro.
Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico.
Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu.
Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato.
Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14 anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”.
Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ‘ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.
Arriva anche Cosa nostra
Milano capitale di ‘ndrangheta, ma non solo.
Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati.
Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ‘ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo.
Da sempre è in contatto con la ‘ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi.
All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.
Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovano da fantasmi.
Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta e Francesco Giordano detto don Nicola.
Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Ben-fante lo chiamano Nino Palermo.
Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città .
Davide Milosa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
DALLE TARGHE CLONATE PER MASCHERARE I SUBAPPALTI ILLEGALI AI LEGAMI FAMILIARI CON I BOSS: I DOCUMENTI RISERVATI DELLA PREFETTURA DI MILANO
Te lo confidano a mezza voce i penalisti: «Ci sono aziende che ormai non possono più lavorare
perchè uno dei soci è pregiudicato, e ci chiamano per un consiglio, ma che possiamo fare?».
Lo sussurrano informalmente i poliziotti: «I mafiosi qui hanno finito di scherzare e sentirsi impuniti, li possiamo toccare sui soldi, come insegnava Giovanni Falcone».
Chi ufficialmente potrebbe parlare, tace in pubblico.
Ma il dato di fatto è certo. È cominciata nei territori del Nord una guerra dura e silenziosa alla mafia imprenditrice, alla “zona grigia”.
E l’Expo di Milano è la trincea più avanzata.
“Repubblica” ha potuto osservare alcuni documenti riservati. Ne ha tratto cinque episodi, sufficienti a raccontare un “sistema”.
Un’impresa di costruzioni era entrata nella White List delle aziende affidabili per i cantieri Expo e poteva stare tranquilla.
Invece è finita “out”: mandava sul cantiere della Tangenziale est esterna auto, camion e ruspe con le targhe clonate.
Cioè affidava ad altri imprenditori, molto meno “puliti”, gli importanti lavori che aveva otbravi tenuto.
E per evitare i controlli, aveva ideato la “furbata”: mettere le proprie targhe, autorizzate, su mezzi non autorizzati, e guidati da dipendenti d’aziende che erano state in qualche caso già cacciate dai cantieri.
Via tutti, dunque, senza possibilità di rientrare.
Un’altra impresa gode – è facile “apparecchiare” le carte – della liberatoria antimafia. Ma s’indaga lo stesso: una delle titolari è sposata con un detenuto, esperto nel traffico internazionale di stupefacenti.
Il capitale sociale serve, viene accertato, «alle spese legali e al sostentamento dei familiari », e questo motivo basta e avanza per sbattere fuori dai cantieri quest’azienda.
E anche la terza azienda appare a prima vista specchiata, ma ha assunto – attenzione: i detective solitamente sono scettici riguardo alle coincidenze – esclusivamente operai che arrivano da un piccolo paese del crotonese.
È una forma di campanilismo oppure c’è altro? E chi sono questi lavoratori?
Vengono censiti e “radiografati”: o sono uomini con precedenti penali, oppure risultano legati (si legge) «a cosche di grande spessore criminale».
Tra i “paesani”, infatti, c’è chi si occupa di prostituzione, chi viene trovato con armi e, un giorno, sul cantiere appare, nonostante non c’entri nulla, un pregiudicato condannato per il 416 bis, l’associazione mafiosa.
Via dall’Expo e dintorni anche questa ditta.
La quarta azienda è a conduzione familiare, ha contratti sia con la metropolitana di Milano che con la tangenziale.
Attende il sì per entrare nella White List ed è tutto all’insegna del «no problem», finchè l’amministratore unico «viene trovato in possesso di due pistole con matricola abrasa e un numero consistente di cartucce».
Emerge una parentela: questo “amministratore calibro 9”, sino ad allora incensurato, è nato nella stessa famiglia di un capomafia «strettamente collegato – così nel documento riservato – ai vertici di Cosa Nostra».
Via anche questa.
E anche la quinta impresa è a conduzione familiare: viene gestita da due giovani fratelli, immacolati, mai un guaio con la legge.
Si occupano del “movimento terra”. Sono anche e costano poco. Purtroppo per i due, è il papà che fa squillare il campanello d’allarme.
Ha un fascicolo penale alto come un vocabolario e frequenta moltissimi pregiudicati.
Le colpe dei padri ricadono dunque sui figli – e tra poco spiegheremo perchè a Milano sta passando questo principio che può far discutere – e vanno cacciati.
Questo è l’ordine della prefettura, la chiamano in burocratese «interdittiva».
Contro questa mano pesante dello Stato, alcune imprese sono scese in campo e hanno combattuto i divieti con l’arma della legalità .
Hanno fatto ricorso al Tar, ma hanno perso.
Consiglio di Stato, tappa successiva: hanno perso anche lì.
Dunque, siamo di fronte ad un assoluto inedito: che cosa sta succedendo a Milano? Che cosa costringe il resto dell’Italia dell’antimafia seria a guardare con grandissima attenzione quello che succede intorno a Expo?
Un rapido passo indietro.
L’Italia aveva dichiarato al mondo che l’Expo sarà un evento “mafia free”. Su questo slogan hanno convinto alcuni scettici, tra i quali gli americani.
Ma lo slogan “mafia-free” è la sintesi di un concetto che appare come una rivoluzione copernicana della lotta alla mafia imprenditrice.
Lo possiamo riassumere così: «Se “appalti pubblici” vuol dire (anche) soldi pubblici che dallo Stato vanno alle aziende, spetta o no allo Stato impedire che i “suoi” denari possano entrare nelle casse di imprese che non convincono?».
La prefettura di corso Monforte è diventata una specie di avamposto avanzato della nuova guerra.
Non dichiarata mai apertamente, mai ufficialmente. Ma in corso.
Sono state infatti emesse 68 «interdittive», che proibiscono di partecipare ai lavori.
I divieti riguardano 48 imprese sulle 367 che sono state controllate: vuol dire che il 13 %, più di una su 8, non supera l’esame.
«Se un privato accetta queste aziende, sono affari del privato, ma lo Stato vuole che i suoi cantieri siano cantieri senza criminali. E noi – dicono dalla prefettura – non abbiamo bisogno delle certezze che ci sono nel diritto penale per stabilire che un’azienda sia permeabile dalle organizzazioni criminali. Cioè, possiamo fare a meno degli elementi indiziari che possono portare in carcere, ma non per questo abbiamo meno scrupoli. Seguiamo alcuni “indicatori” e in questo modo impediamo ai soldi pubblici di finire in mani non corrette».
Ed è così che «Ci sono state più interdittive a Milano che sulla Salerno-Reggio Calabria», ha detto Raffaele Cantone, presidente dell’Autority anticorruzione.
Funziona a Milano una sorta di gruppo misto – composto da antimafia e Asl, ispettorato del lavoro, vigili e funzionari della prefettura – che sta mettendo in ginocchio i “manager squali”.
Questa pattuglia interforze va sui cantieri, ma dietro le quinte lavorano altri due gruppi più specializzati, il Gia (gruppo antimafia) e il Gicex (Gruppo Interforze Centrale per l’Expo 2015).
Appena si accende un allarme rosso – e può essere un allarme “banale”: mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del cantiere, presenza di personale non identificato e autorizzato, garbugli amministrativi, uso disinvolto del badge – l’azienda viene “attenzionata” dal gruppo misto e passata al setaccio dai detective, che possono incrociare le varie banche dati, da quelle del ministero dell’Interno a quelle “bancarie”.
Un lavoro certosino: sino alle vacanze di Natale escluse, sono stati controllati 1.436 tra auto, carri, e ruspe, 3.099 persone, 367 società .
C’è stata un’evoluzione continua dei controlli: nel 2009 c’erano stati due accessi nei cantieri, tre nel 2010, sette nel 2011, sedici nel 2012, che diventano 18 l’anno dopo, ma nell’anno 2014, quando il prefetto Francesco Paolo Tronca è ormai convinto dell’efficacia della «procedura alla milanese» diventano 54: «Le forze attive, liberate dal la- voro burocratico che si è accollata la prefettura – hanno raccontato dalla prefettura milanese lo scorso maggio alla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi – eseguono cinque accessi al mese sui cantieri, che consentono di controllare plurime aziende (…). Coloro che adesso fanno cinque controlli al mese, prima stavano alla scrivania, oggi stanno nel fango del cantiere».
È questo cambiamento “amministrativo” nel metodo di contrasto ai clan e ai loro affari a segnare una svolta concreta.
Le voci “milanesi” stanno circolando tra varie prefetture e gli apparati dello Stato. Questo metodo, viene detto, può estendersi ovunque, si può azzerare («legalmente, facilmente») la possibilità delle aziende grigie di avvicinarsi al “piatto ricco” degli appalti pubblici.
Siamo agli inizi, dunque, di nuovi metodi di contrasto alle mafie: di una questione che da Milano può rapidamente scendere lungo la penisola, per arrivare alle regioni al alta densità mafiosa passando dalle nuove emergenze di Mafia Capitale.
E un altro di questi “sistemi” è stato potenziato dalla procura milanese.
Qui, è noto, l’antimafia ha condotto varie inchieste che hanno portato in carcere circa 400 persone legate ai clan calabresi e prodotto documenti impressionanti, che hanno fatto il giro del mondo.
Come la votazione per alzata di mano del capo-rappresentante di tutti i “locali” (cosche) in Lombardia.
O come il giuramento di affiliazione alla ‘ndrangheta nel nome di Mazzini, La Marmora e Garibaldi. Ma accanto ai blitz, è stata avviata una strategia mirata a colpire il professionista che sa di lavorare per i mafiosi, ma finge di non saperlo, di non essersene accorto. Il commercialista che prestava lo studio per le riunioni d’affari (inchiesta Valle), l’ufficiale dei carabinieri carico di encomi che in pensione aveva aperto l’agenzia privata d’investigazioni e security (caso Tnt), il prestanome degli usurai, l’addetto alla dogana: tutti questi (e altri) non erano imputabili, ma sono stati dichiarati «sorvegliati speciali». Cioè hanno avuto il divieto di uscire prima delle 7 del mattino e di non rincasare dopo le 21, non possono avere armi e non devono «frequentare pregiudicati».
Una sanzione, ma anche un’umiliazione: come spiegare nella cerchia di amici come mai non si va più a cena fuori?
La richiesta delle misure di prevenzione è costante e la strategia ha un’altra appendice, che riguarda le banche.
Alcuni direttori sapevano di trattare con i mafiosi? Sì, allora gli istituti di credito sono stati sospesi nei rapporti con questi clienti, al posto del direttore colluso è arrivato un curatore: è successo già tre volte.
Ilda Boccasini, procuratore aggiunto antimafia, con a fianco il procuratore capo Bruti Liberati, dice: «O si sta con la mafia o si sta con lo Stato».
In Italia, a cominciare da Milano, sembra che le sfumature di grigio sporco non siano più di moda.
Piero Colaprico
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
E IL COSTO A CHILOMETRO DI UN’AUTOSTRADA IN ITALIA RIMANE IL TRIPLO RISPETTO A FRANCIA E SPAGNA
Che un viadotto costato 13 milioni duri 7 giorni dall’apertura perchè cede un tratto di manto stradale non può essere considerato normale.
Siamo però in Italia, dove nessuna opera pubblica è realizzata in modo normale.
Oggi non abbiamo elementi per affermare che cosa sia andato storto in questo caso e di chi sia la responsabilità .
Ma nessuno si stupirebbe se si venisse a scoprire che c’è stata qualche carenza tecnica rilevante, magari negli studi sul terreno, nel progetto o nelle stesse procedure di gara. Anche le pietre sanno come vanno le cose negli appalti pubblici.
I bandi sono fatti spesso male, per non dire malissimo.
Talvolta anche i progetti sono carenti, con gli esecutivi che sono impercettibilmente più dettagliati dei definitivi e gli esperti conoscono bene quanto sia importante questo fatto.
Il motivo è semplice: se i bandi fossero scritti con le mani anzichè con i piedi e i progetti esecutivi fossero perfetti, non ci sarebbe bisogno delle varianti in corso d’opera.
Nè del contenzioso infinito che accompagna regolarmente ogni opera pubblica piccola e grande. E neppure degli arbitrati.
Con il risultato che i costi sarebbero più umani, l’esecuzione più rapida e il prodotto migliore.
Il caso della linea C della Metro di Roma, con le sue 45 (quarantacinque) varianti dice tutto.
Come dice tutto il costo di un chilometro di autostrada o di ferrovia ad alta velocità , che in Italia è triplo rispetto a Francia o Spagna.
Per non parlare delle 395 (tante ne sono state censite) opere mai finite, delle quali 150 nella sola Sicilia.
Nè si può trascurare un altro aspetto decisivo.
Chi fa il collaudo di un lavoro pubblico spesso riceve quel compito per ragioni diverse dall’effettiva competenza, più legate alla retribuzione che l’incarico porta con sè. Incarico, peraltro, che non dà luogo all’effettiva assunzione di responsabilità .
Con la conseguenza che alla fine, nonostante le laute prebende, chi ha messo il bollino su un ponte, un viadotto o una strada mai viene chiamato a rispondere.
Queste cose le sappiamo da 20 anni, ma nessuno ha mai voluto cambiare le regole.
Ci sarà un motivo?
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
“UN ENTE SU TRE RISCHIA IL FALLIMENTO”: INCERTO IL DESTINO DEI 20.000 DIPENDENTI
Il grande freddo arriverà a fine primavera. A dirlo sono i gufi o, al contrario, Cassandre
incomprese?
I funzionari dell’Upi, l’Unione delle Province italiane, riassumono la situazione con un dato: «Calcoliamo che a fine marzo il trenta per cento delle Province sarà impossibilitato a presentare il bilancio di previsione del 2015».
Frase sibillina per chi non mastica di finanza pubblica. Ma la traduzione è drammatica: senza bilancio di previsione, le Province rischiano il dissesto e il commissariamento.
Una su tre è sull’orlo del baratro.
Si dirà : ma non dovevano comunque scomparire?
«In realtà dice Marco Zatini, sindacalista della Provincia di Firenze — quelli che rischiano davvero sono i dipendenti e i cittadini. I primi perchè non sanno quale sarà il loro futuro, i secondi perchè verranno tagliati i servizi».
I dipendenti delle Province italiane sono 43 mila e di questi 18-20 mila verranno trasferiti ad altri enti perchè, dice la riforma Delrio, sono oggi impegnati in funzioni che passeranno a Comuni e Regioni.
«Sarà la più grande operazione di trasferimento nella storia della pubblica amministrazione italiana», dicono all’associazione delle Province.
Un trasloco che rischia però di bloccarsi per mancanza di soldi.
Perchè la storia della riforma ha tre problemi da risolvere: il gran numero di dipendenti dichiarati non più utili nelle nuove amministrazioni provinciali, la distribuzione ad altri enti locali dei compiti un tempo attribuiti alle Province e i soldi che scarseggiano.
Tre nodi intrecciati con conseguenze potenzialmente drammatiche
A rendere esplosiva la situazione è stata la legge di stabilità che ha preteso dalle Province il versamento di un obolo di un miliardo alle casse dello Stato.
Inizialmente c’era una logica. Le Province italiane hanno un bilancio complessivo di 8 miliardi di euro.
Di questi, 2 sono destinati agli stipendi e 6 ai servizi al cittadino.
Dimezzando i dipendenti grazie alla riforma Delrio, le Province avrebbero risparmiato un miliardo di euro e lo avrebbero potuto girare allo Stato mantenendo inalterata la spesa per i servizi al cittadino.
La Legge di stabilità è arrivata a metà di questo processo e ha imposto una accelerazione: le Province devono pagare il miliardo già nel 2015 anche se le funzioni e il personale non saranno trasferite e peseranno dunque sui loro bilanci.
Di conseguenza, le amministrazioni provinciali dovranno tagliare servizi ai cittadini per il valore complessivo di un miliardo. Chi non lo farà , rischia il dissesto.
In default sono già andate nei mesi scorsi due amministrazioni, una di una località ricca come Biella e una del povero Sud come Vibo Valentia.
A Vibo il Presidente, Andrea Niglia, ha deciso di non pagare a dicembre stipendi e tredicesime: «Devo ringraziare per la loro comprensione tutti i 379 dipendenti del nostro ente provinciale. Ma siamo veramente in difficoltà . Abbiamo denaro sufficiente a scaldare le scuole solo per quaranta giorni. Così quest’anno niente tredicesime: Babbo Natale ci ha portato il carbone ».
L’alternativa sarebbe quella di trovare presto una sistemazione ai 20 mila dipendenti in sovrannumero, come si dice con un eufemismo. 6.000 potrebbero essere assunti nei centri per l’impiego, dove già lavorano oggi come dipendenti provinciali.
Il loro nuovo datore di lavoro dovrebbe essere l’Agenzia nazionale per l’impiego che dovrebbe essere istituita dai decreti del Jobs act.
Il condizionale è obbligatorio e vale anche per i 1.000 precari degli stessi centri. Rimarrebbero così 14.000 persone in esubero.
Nelle settimane scorse si è tentato di far passare un norma sul prepensionamento di chi nel 2018 avrà raggiunto i 62-63 anni. Ma l’emendamento è saltato. Avrebbe consentito di mandare in pensione circa 4.000 dipendenti.
Secondo il semplice gioco dell’anagrafe invece andranno in pensione entro il 2019 circa 2.000 persone.
Ne rimarranno così 12 mila da sistemare in quattro anni. «Anche se venissero tutti collocati nelle amministrazioni regionali e comunali, rimarrebbe il problema delle funzioni non trasferite», fanno notare all’Upi.
Il rischio è che i dipendenti in esubero delle Province sostituiscano i posti lasciati liberi dai pensionati di Regioni e Comuni ma non si portino dietro la loro funzione.
Se un cantoniere finisce nella pianta organica della Regione, chi ripara la strada?
Il secondo problema è l’enorme tappo sociale che si creerà nelle pubblica amministrazione.
Quanti precari degli altri enti perderanno il lavoro per far posto ai dipendenti in esubero provenienti dalle Provincie?
Eppure senza un trasloco rapido, i bilanci delle Province faranno crack.
Perchè non potranno garantire gli stessi servizi dello scorso anno con un miliardo in meno da spendere.
Lunedì scorso la Provincia di Terni ha diffuso uno scarno comunicato stampa: «Il servizio viabilità ha a disposizione soltanto 300 quintali di sale a fronte di una necessità di almeno due tonnellate e mezza».
Pertanto, «in caso di nevicate o ghiacciate improvvise, le operazioni di emergenza potrebbero non essere garantite in tempi rapidi».
Dal grande freddo si salvi chi può.
Paolo Griseri
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
TRA IL 20 E IL 24 DICEMBRE UNA SERIE DI FAVORI DI FORZA ITALIA A RENZI… LA NORMA INSERITA A CONSIGLIO DEI MINISTRI CONCLUSO DALLA MENZIONE, LA VIGILESSA AMICA DI RENZI
Per capire quale sia la “manina” o la “manona” che ha avuto mandato di scrivere la norma “salva-Berlusconi” occorre riavvolgere la pellicola del nastro al 20 dicembre, quando a palazzo Madama, nella notte, Forza Italia vota una sorta di salva-Renzi, consentendo cioè al governo di non andare sotto sulla legge di stabilità e poi di incardinare la legge elettorale secondo i desideri di palazzo Chigi.
E poi occorre seguire il film fino al 24, quando — guarda caso dopo il consiglio dei ministri della salva-Berlusconi — i due contraenti del “patto del Nazareno” si sentono per telefono per gli auguri. Già , per gli auguri.
In mezzo, tra il 20 e il 24, c’è l’intervista di Berlusconi a Repubblica, in cui per la prima volta l’ex premier apre a uno di sinistra al Colle: “Il problema — dice — non sono le radici politiche. Ma che sia un presidente della Repubblica equilibrato, un garante”. Parole su cui arriva, pronto, il segnale di Renzi.
Il quale la sera stessa, ospite da Fabio Fazio, chiede al Pd di non “ostacolare”.
E poi al Messaggero rivendica l’inscalfibilità del Nazareno: “Berlusconi — dice Renzi — è stato decisivo nel votare convintamente nel 1999 Ciampi e nel 2013 Napolitano. Non vedo alcun motivo per cui dovrebbe star fuori stavolta”.
Fuori dalla proiezione del film, visibile per tutti e che in parecchi dentro il Pd stanno rivendendo in queste ore, ci sono le scene più “hard”, meno proiettabili.
Perchè fin qui, siamo alla dinamica politica che attiene il Quirinale e le riforme. Il non detto è il prezzo vero del Nazareno.
Ovvero l’agibilità politica di Berlusconi.
Sia Gianni Letta sia, soprattutto, Denis Verdini i cui contatti con Luca Lotti sono quasi quotidiani dopo la famosa notte del 20 assicurano a Berlusconi che Renzi è ben consapevole del “regalo” fatto da Forza Italia che, a sua volta, avrebbe mandato un “segnale”.
“Segnale che arriverà ” sono proprio le parole che usa l’ex premier per spiegare ai suoi l’atteggiamento morbido verso Renzi su ogni dossier e che spiegano quello che, anche nella cerchia ristretta, notano come un buon umore insolito tra Natale e Capodanno.
E qui siamo alla parte del film che va in scena nelle stanze del governo, dove prende forma “il segnale”.
Raccontano oggi fonti del Tesoro che l’irritazione di Paodan e delle sue strutture è davvero tangibile.
Perchè hanno avuto l’effetto del classico sale sulla classica piaga le parole indirizzate da Stefano Fassina al Tesoro: “Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità . Il ministro era d’accordo oppure non se ne era accorto”. È la seconda che ha detto: non se ne era accorto.
Semplicemente perchè non poteva accorgersene. Chi ha parlato con il viceministro Casero in queste ore, visibilmente contrariato anche lui, è arrivato alla conclusione che la “norma salva Berlusconi” sia stata inserita nel testo a consiglio dei ministri concluso.
E a consiglio dei ministri concluso una norma del genere può essere inserita solo dal dipartimento degli affari giuridici di palazzo Chigi con la copertura politica del premier.
Ovvero da Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze, la fedelissima che risponde solo a Renzi e Luca Lotti.
Dunque, il segnale “salva-Berlusconi” si è materializzato dopo la riunione del governo e prima dei contatti natalizi tra il premier e Silvio Berlusconi, approfittando – sussurrano i maligni – del fatto che i giornali non sarebbero usciti per due giorni. Anche perchè, spiegano fonti del Tesoro, il testo originario in pre-consiglio era “perfetto” per tutti.
E sarà forse anche perchè ha fiutato l’irritazione del Tesoro che Renzi alla fine della giornata di ieri ammette che c’è una sua responsabilità .
Proprio però nella gestione del caso in parecchi vedono un segnale inquietante da parte del premier: “La proposta tornerà prima in Consiglio dei Ministri, poi alle Commissioni, quindi di nuovo in Consiglio per l’approvazione definitiva entro i termini stabiliti dal Parlamento e cioè entro marzo 2015” ha fatto sapere palazzo Chigi.
Significa che la discussione è sospesa e rinviata a dopo le elezioni del Quirinale. Anche questo è un segnale verso Arcore. Perchè il cuore del Nazareno è l’agibilità politica di Berlusconi
Dal 20 al 24 dicembre Renzi e Berlusconi si aiutano a vicenda fino alla tanto contestata norma.
Tutti gli indizi portano al giglio magico di Palazzo Chigi
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
LEGATI DALL’ARTE, DALLA PASSIONE E DALLA SIMPATIA
“Massimo, ho scritto una canzone mi fai un film?”. Pino Daniele e Massimo Troisi. Due grandi
artisti dal cuore matto. Due compagni di avventure artistiche uniti anche nella morte.
“O saie comme fa ‘o core”, era proprio uno dei testi che aveno scritto insieme.
“Erano legati dall’arte, dalla passione, dalla simpatia, dall’essere simboli della cultura napoletana che insieme sono riusciti a far conoscere a tutti. Ma anche la malattia cardiaca che li ha portati alla morte”.
Gianni Minà li ospitò in una puntata di “Alta classe”, organizzata per festeggiare Pino Daniele.
“Quella volta io e Pino – racconta Minà ad Huffpost – non potemmo far altro che ridere e ridere. E ridere ancora. Massimo prese in mano la situazione e iniziò a improvvissare”.
Quello che ne venne fuori fu uno dei momenti più intelligenti e ironici della televisione italiana.
Indimenticabile la battuta di Troisi sull’agenda del conduttore: “Minà chiama tutti, pure a Fidel Castro. E ‘o bell’ è che tutti gli rispondono! Per esempio, volete sapere comm’ è arrivato a me? Ha preso l’agenda e alla “t”, dopo i fratelli Taviani, Little Tony, Toquino ce steva Troisi…”.
Qual è il ricordo che ha di quella puntata di “Alta classe”?
“Quando programmammo le puntante di ‘Alta classe’ con Sergio Bernardini, pensammo subito a ospitare Pino Daniele con un partner come Massimo Troisi. I due erano così amici, che il cantante non avrebbe mai accettato l’invito se non ci fosse stato il suo compagno di ‘avventure artistiche’. Erano ragazzi del popolo, ma molto sofisticati. Non avevano l’abitudine di andare in trasmissioni televisive. ‘La televisione avvelena’ dicevano”.
Ma quella volta dissero di sì. E fu una delle sporadiche apparizioni televisive della coppia…
“Io e Pino non potemmo far altro che ridere. Le battute le diceva Massimo. Tra gag e situazioni esilaranti riuscivamo a stento a parlare. I due erano molto amici. E li univa anche un ‘cuore matto’. Soffrivano di cuore, tanto che si curavano nello stesso centro a Huston, in Texas. Ma il “cuore matto” era anche quello che batteva per la musica e per l’arte. Non erano intellettuali ma hanno contribuito a far esplodere la musica popolare napoletana e italiana. Bisogna dire grazie a questi artisti. Il blues jazz di Pino Daniele, il rock di Edoardo Bennato, la ricerca musicologica di Roberto De Simone, le jam session di James Senese, Tullio de Piscopo, percussionista per eccellenza. Il cinema di Massimo Troisi e il teatro di Lina Sastri, Beppe Barra, Leopoldo Mastelloni. Era la scuola napoletana che ha fatto epoca”.
Conserva un ricordo particolare di Pino Daniele?
Quando mi chiese un percussionista e io portai i bravissimi cubani Prof Augusto Enriquez and Iso Mambo Band. Per lui la musica era regina. Non si accontentava mai. Cercava sempre di alzare l’asticella. Era meticoloso e sereno. Diceva che bisogna sempre dare il meglio, con una qualità superiore perchè altrimenti si tradisce il pubblico. Una frase meravigliosa di un uomo che viene da popolo”.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 5th, 2015 Riccardo Fucile
ERA IL 14 DICEMBRE: “NESSUN RIMPIANTO, FACCIO E DIMENTICO”…”IL MIO VERSO PIU’ BELLO? DEVO ANCORA SCRIVERLO”
Sull’orlo dei sessant’anni garantisce che ancora tiene la cazzimma sufficiente.
“Qualche volta devo tirarla fuori perchè questa società ti costringe a difenderti, specie nel mio ambiente in cui le persone a modo sono una minoranza. Ma poi neanche esiste più un ambiente musicale: ogni dieci anni cambia tutto radicalmente e tu devi attaccarti alle cose che non ti fanno deragliare. Rinunciare è più facile che stare in gioco. Se sono ancora qua forse è perchè non mi sono mai considerato un cantautore ma un musicista che suona, e i musicisti che suonano non hanno età . La musica ti tiene in vita fino all’ultimo giorno”.
Lo cantava fin dal principio, “la musica è tutto quel che ho”, in Nero a metà , l’album che portò duecentomila napoletani in piazza del Plebiscito, il 19 settembre del 1981, e che ancora oggi dà il titolo alla nuova versione del disco e al tour di Pino Daniele e della sua band, la stessa di allora.
Riempita l’Arena di Verona a settembre, ha fissato altre sei tappe invernali: ieri era a Roma, martedì e mercoledì la rimpatriata blues sarà di scena a Napoli e poi a Milano il 22 dicembre. Imponente in uno dei tanti giubbotti mimetici in stile militare della sua collezione, ci accoglie nel suo ufficio romano, un piano seminterrato che odora di nuovo nel quartiere Prati.
La tazzulella ‘ e cafè è nel bicchierino di plastica, gli onori di casa li fa Alessandro, il maggiore dei cinque figli avuti da due mogli. Nero a metà , Pino, lo è ancora. Artista in chiaroscuro.
Gentile e ombroso, cordiale e riservato, loquace finchè si parla di musica ma geloso del privato e del passato.
Semplicemente, non gli importa e non si dà importanza. Si è sempre definito “napoletano atipico” in quanto sedicente “antipatico” (“Ho sempre combattuto lo stereotipo del napoletano fanfarone simpatico a tutti i costi” ha spesso dichiarato).
Rimase famosa, perchè ripresa dalla Rai, la sua risposta live a quello che dal pubblico lo aveva stuzzicato con affetto: “Non sai parlare”. “L’importante è che saccio sunà “. E cosissìa.
Non ama i bilanci, non ama troppo raccontarsi, celebrarsi, storicizzarsi, enfatizzarsi, analizzarsi.
Lui è qui e ora. Vai mo’. “Io faccio e dimentico. Il verso più bello forse lo devo ancora scrivere”.
Non può ragionare diversamente uno che alle superiori buttò giù un album struggente e altissimo come Terra mia e una poesia in musica come Napule è, destinata all’immortalità al pari di tanti altri capolavori della tradizione partenopea.
Poteva pure fermarsi subito lì, dove tanto nessuno lo avrebbe raggiunto. “Non lo so se è un capolavoro, di sicuro non me n’ero accorto quando l’abbiamo composta a casa di Rino Zurzolo, lui aveva quattordici anni e suonava il contrabbasso, io sedici e mi arrangiavo da autodidatta con la chitarra. Eravamo tutti e due innamorati di Luigi Tenco, ci scambiavamo poesie per divertimento, scritte in italiano, tra i banchi di scuola, all’Istituto tecnico commerciale Diaz. Dià z, come si dice a Napoli. Se ci sta il genio e fai qualcosa che rimane, te ne rendi conto solo dopo, quando vedi che una canzone come quella entra nella vita delle persone, nel quotidiano, e non ne esce più. Io allora non pensavo che avrei fatto il cantante e tanto meno che avrei inciso un disco. La certezza che questa passione sarebbe potuta diventare un mestiere l’ho avuta solo dopo il secondo elleppì, dopo il successo di Je sò pazzo. Lì ho capito che potevo guadagnarmici da vivere. Solo a quel punto ho anche iniziato a studiare seriamente la chitarra. E non ho ancora finito”.
La prima elettrica, una Eco X27, la portava a spasso nel cuore storico popolare di Napoli, dov’è cresciuto, tra il Pallonetto, il Monastero di Santa Chiara e piazza del Gesù; dopo il diploma, Giuseppe Daniele suona in un gruppo chiamato Batracomiomachìa, come il poemetto greco del VI secolo avanti Cristo (battaglia tra topi e rane, la traduzione), accompagna Jenny Sorrenti, la sorella di Alan, Gianni Nazzaro, va in tour con Bobby Solo.
“Esperienza breve e divertentissima con un grande professionista, un vero innamorato, nonchè profondo conoscitore, del rock. Andammo a fare serate in Belgio e Francia. A quei tempi c’erano molte più opportunità , più occasioni per imparare sul campo. Quattro strumenti e si andava, oggi ci sono ragazzi che incidono il secondo disco senza essere mai saliti su un palco”. Ma Pino Daniele, per come poi lo conosceremo, nasce dall’incontro con James Senese.
“La sua band, Napoli Centrale, nella quale entrai come bassista, fu la scintilla per iniziare a pensare cose diverse. Erano tempi di disagio e di denuncia. La musica aveva una funzione sociale che oggi non ha più, sfruttava la sua forza per veicolare un messaggio, stimolare il pensiero e gli stati d’animo, sfogare una rabbia”.
Masaniello è cresciuto, Masaniello è tornato. Coi capelli corti e il toscano tra le labbra.
Ma Pino Daniele non è stato solo Masaniello. È stato, nell’arco di quarant’anni e ventritrè album, un po’ di tutto: lazzaro felice, musicante, uomo in blues, scarrafone, boogie man.
Dopo aver inventato un sound e un linguaggio ha poi esplorato, ricercato, rimaneggiato tra Africa, Mississippi, Brasile, Medioriente e Mediterraneo.
Qualche volta scoprendo sentieri, altre disorientando perfino i seguaci più fedeli: può essere la stessa persona quella che ha concepito versi come ” ‘ a vita è nu muorzo ca nisciuno te fa dà ‘ ncopp’a chello ca tene” (e cento altri inarrivabili) e quella che canta “che Dio ti benedica, che fica” o “punta dritto verso il cuore se vuoi vincere in amore/ come un lampo a ciel sereno sei arrivata come un treno”.
Ecco. Con tutto il rispetto. “Rifarei tutto il percorso. Di solito non mi riascolto, ma sì, qualcosa ho fatto che, dopo, mi dico “Oh Signore, ma che è?”.
L’esperienza serve a poco se non a capire la cosa più importante, e cioè che il come conta più del quando e del quanto.
Si deve acquisire un metodo e non inseguire il mercato, non fare cose che non ti appartengono. Ci sono stati periodi in cui mi sono fatto condizionare. Il successo ti cambia, ti stranisce.
Si emoziona un bambino alla prima comunione, figuriamoci un ragazzo che si ritrova duecentomila persone davanti ad ascoltarlo”.
E forse non è facile nemmeno ritrovarsene un giorno appena tremila, sotto il palco, dopo aver riempito gli stadi o i templi come l’Apollo a New York e l’Olympia di Parigi. “Magari sempre tremila, ci farei la firma… Ogni stagione ha il suo clima. Bisogna anche saper tornare alla normalità , all’intimità “.
La lista delle collaborazioni e dei duetti è infinita, ma sul serio: da spalla di Bob Marley a San Siro a Biagio Antonacci, da Gigi D’Alessio a Eric Clapton. Wikipedia ne conta centocinquantuno.
Anche qui nessun rimpianto, nessuna delusione: “Le collaborazioni servono a capire. Io ho sempre cercato gli altri per “messaggiare” la mia creatività . Mi sono sempre divertito molto con tutti, anche se coi grandissimi ho trovato difficoltà “tecniche” per stare al passo: parlo di gente del livello di Clapton o Al Di Meola, Pat Metheny, Wayne Shorter, Chick Corea, Gato Barbieri. Non ho mai tenuto la contabilità per sapere se alla fine ho dato più di quel che ho preso”.
Ma alla fine, gira e rigira, si torna in scena coi “compagni di vita”. Zurzolo, Senese, Marangolo, Di Rienzo, Esposito, De Piscopo, Vitolo, Cercola…
“E si torna ragazzini nonostante l’età . Siamo una macchina che cammina spedita, basta poco per riavviarla ogni volta. Abbiamo vissuto tournèe bellissime, ci conosciamo a memoria, qualche volta ci siamo scazzati come accade tra amici, ma quando ci ritroviamo è tutto come trentacinque anni fa. Le canzoni di allora hanno un vestito nuovo, non si possono fare uguali. Ma ha un senso farle sentire a chi non le ha conosciute prima, senza malinconia nè nostalgia”.
Nè troppe spiegazioni: “Non sono cambiato, sul palco parlo sempre poco. Io non faccio l’intrattenitore, non sono uno showman. Quando uno studia e si sacrifica tutti i giorni, il palco è un momento di grande serietà e rispetto per la musica. Giudicatemi per quello”
Emilio Marrese
(da “La Repubblica”)
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