Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
NEL PD C’È CHI PENSA A DELRIO, RENZI ALLA SCHEDA BIANCA. CIVATI E VENDOLA A UN NOME ANTI-NAZARENO
“Quanti scrutini ci vorranno per eleggere il nuovo presidente della Repubblica? Cinquanta”.
Un alto dirigente democratico vorrebbe fare la battuta sdrammatizzante.
In realtà gli esce un po’ sghemba. La quiete prima della tempesta. Montecitorio, con le riforme bloccate dall’ostruzionismo grillino e i deputati, pronti a spingere i loro trolley verso la stazione, per un weekend casalingo, in attesa della guerra della settimana prossima, assomiglia a un campo di battaglia che aspetta di vedere schierate le truppe.
E ad Arcore si comincia a fare il nome di Veltroni, mentre Nicola Porro, vicedirettore del Giornale, ieri a Otto e mezzo ha messo le cose in chiaro: “Berlusconi vuole la grazie per sè e per Dell’Utri”.
Il problema, come sempre, è nel Pd. Renzi ha mandato segnali continui a Pier Luigi Bersani per cercare di coinvolgerlo nella scelta. O, tradotto, per disinnescarlo.
“Non si capisce qual è la linea che ha Bersani in testa. Non si capisce nemmeno se ce l’ha”.
La battuta è del senatore Stefano Esposito. Balzato agli onori della cronaca per aver presentato il maxi canguro, che ha permesso al premier di portare rapidamente a casa la legge elettorale.
E per aver dato dei “parassiti” alla minoranza del suo partito. Accusa reiterata, pure dopo le scuse: “Fassina? Sputa nel piatto dove mangia, esca dal Pd. Dovrebbe andare via, ma il partito gli garantisce ruoli e posti” ed anche Civati è “un parassita politico” e “odia Renzi perchè più bravo di lui”.
Non esattamente zuccherini. E così c’è un pezzo forte che fu in segreteria con l’ex segretario che si lascia andare a dire che molti dei suoi colleghi di partito “non hanno elaborato il lutto della sconfitta”.
Come chi, tra i renziani, si sfoga: “Io la Finocchiaro non la voto. Non ci posso riuscire”.
Ma la minoranza è tanto polverizzata, e dunque non in grado di garantire accordi, quanto armata: i 29 senatori che hanno firmato il documento Gotor sulla legge elettorale sono fermamente attenzionati.
La maggioranza renziana non è che stia molto meglio.
Il gruppo alla Camera, quello che dovrebbe essere il più compatto, in realtà è sfilacciato. Troppo lasciato a se stesso da chi ha davvero in mano il pallottoliere, come Luca Lotti, che non ha il tempo di presidiare il territorio.
E così, i sospetti si sprecano pure tra i renziani: chi è visto troppo “boschiano”, chi risponde solo al premier, chi potrebbe giocare la sua partita e tradire.
Ieri Renzi ha riunito la segreteria. “Ditemi anche voi come la vedete. Per i primi tre scrutini, è meglio votare scheda bianca”, avrebbe detto.
Dunque nessun candidato di bandiera. I fedelissimi assicurano che lui gioca su quattro-cinque tavoli.
E dunque, anche se ha convocato per lunedì mattina prima il gruppo dei deputati e poi quello dei senatori, anche in quell’occasione starà sul vago.
Non un profilo chiaro, ma un identikit che potrebbe essere adatto a tutti. E a nessuno.
Le carte le scoprirà durante l’assemblea dei grandi elettori, giovedì mattina.
Il tema rimane sempre Nazareno e non Nazareno. L’unico nome sul quale c’è il sì di Silvio Berlusconi è quello di Giuliano Amato.
Renzi potrebbe arrischiarsi a proporlo anche al primo colpo. Lo farà ? I suoi sono pronti a giurare di no: è troppo impopolare, come fa a giustificarlo davanti alla gente?
Sulla Finocchiaro, Berlusconi è possibilista. Ma non piace ai renziani. E lo stesso premier si fida fino a un certo punto.
Poi, è in corso ad Arcore un sondaggio su Walter Veltroni. L’ex premier sta esaminando la pratica. Poi, ancora, c’è il nome del primo degli outsider: Graziano Delrio. Le quotazioni crescono. Molti fedelissimi renziani ci stanno lavorando.
Il suo era il nome originario, poi si è un po’ inabissato nei mesi. Potrebbe essere la soluzione che viene fuori se il caos iniziale fosse fuori controllo. Forse non convince troppo i fiorentini, come Lotti e la Boschi.
Ma è anche vero che il veto ufficiale di Berlusconi potrebbe rivelarsi meno netto. E poi, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio avrebbe dalla sua qualcuno dei Cinque Stelle.
Ma sarebbe poco digeribile per la minoranza democratica. Sempre ammesso che detta minoranza sia in grado di elaborare una strategia.
A un nome del Pd ha aperto, intanto, Angelino Alfano ieri sera a Palazzo Chigi. La fronda anti-Nazareno, intanto, diventa la proposta del dissidente Pippo Civati e del leader Sel Nichi Vendola.
Tra i boatos di palazzo, si racconta che Grillo sarebbe pronto a proporre Prodi due giorni prima dell’inizio dello scrutinio ufficiale: se Renzi dice sì, spacca il Nazareno. Se dice no, spacca il Pd. Il vicesegretario Guerini intanto rassicura: gli M5s “saranno i benvenuti”.
Sarà un weekend di trattative sotto traccia.
Prima della settimana decisiva.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
IN CRESCITA LE AZIONI DI PADOAN: SE LIBERASSE L’ECONOMIA SI APRIREBBE UN GIRO DI VALZER NELLE POLTRONE DI GOVERNO
Nella lista di Berlusconi c’è (anche) il nome di Amato. 
Nella lista di Alfano – che è la stessa di Berlusconi – c’è (anche) il nome di Amato.
Nella lista di Bersani c’è (anche) il nome di Amato.
Napolitano spinge per Amato. D’Alema dice Amato.
Ma Amato sta nella lista di Renzi? È questo il punto, perchè in passato, con un candidato così sponsorizzato, la corsa al Colle sarebbe finita al primo giro.
Invece il premier – che prima del varo dell’Italicum al Senato non scioglierà la riserva – sta trasformando la corsa al Colle in un thriller.
Renzi vive il nome di Amato come un assedio ed è evidente il tentativo di trovare una via di fuga.
Da settimane gli interlocutori provano a interpretarne i segnali, azzardando pronostici sul quirinabile di suo gradimento.
«Il fatto è – ha raccontato Bersani dopo averlo visto – che Matteo si comporta come un pokerista. Sta lì, inizia a sciorinare una lunga lista di nomi, e intanto ti scruta per vedere quali sono le tue reazioni».
L’unica volta in cui tracciò un identikit appena articolato sul candidato ideale, Napolitano era ancora al Quirinale.
«Serve una figura saggia e preparata», disse Renzi: «Perchè nei prossimi anni potrebbe essere chiamato ad affrontare situazioni difficili». Sembrava una preferenza per una personalità politica. Ma non è facile decrittare un oracolo, tantomeno il leader del Pd, capace – come solo lui sa fare – di muoversi su molti fronti contemporaneamente. E infatti, mentre è atteso alla partita della vita, Renzi medita sul restyling da fare al suo governo.
In più di un’occasione si è lamentato dell’operato «a dir poco insoddisfacente» di alcuni sottosegretari che vorrebbe cambiare. Intanto ha chiuso un negoziato con il governatore della Calabria, al quale farà arrivare come «forte sostegno» per la giunta il ministro Lanzetta, che lascerebbe quindi l’esecutivo.
Vorrebbe poi mettere le mani sull’Istruzione – da affidare a un ministro del Pd – prima di presentare la riforma della scuola, e intanto non fa passare riunione di governo senza leggere alla Giannini i sondaggi che danno Scelta civica allo zero virgola.
C’è il sindaco di Milano, Pisapia, che gli ha rappresentato la «personale disponibilità » al ruolo di Guardasigilli, anche se Orlando non intende candidarsi in Campania.
Si tiene pronto nel caso il rapporto con Poletti – che si è logorato – dovesse liberargli il dicastero del Lavoro…
Più che un restyling sarebbe un rimpasto, un vero e proprio Renzi bis, una mossa inopportuna in questa fase, dato che in primavera si tengono le Regionali.
A meno che il premier non intenda incrociare la partita del Quirinale con quella del governo. Perchè se riuscisse a piazzare Padoan sul Colle, sfrutterebbe l’occasione – la sedia vuota dell’Economia – per avviare il giro di valzer.
E Padoan – nonostante le polemiche sulla norma «salva Berlusconi» nel decreto fiscale – ci crede e ci spera nella promozione.
Lo hanno intuito a via XX settembre, visto come il ministro ha ridotto all’osso le trasferte: «Fatemi restare a Roma in questi giorni…», sorride. E gli altri gli sorridono.
Sorridono un po’ meno nel Pd, dove – per il Quirinale – non solo la minoranza ha messo una croce sul suo nome, come su quelli di Bassanini e dell’ex presidente della Consulta De Siervo, ormai ribattezzato «il capo dello Stato del giglio magico».
A differenza di due anni fa, però, l’opposizione interna non compirebbe il gesto sacrificale nel segreto dell’urna. Quando Bersani spiega che «non sarò certo un franco tiratore», è perchè ai suoi ha detto: «Se Renzi ci presentasse un candidato di secondo rango, dovremmo dire pubblicamente che non l’accettiamo».
Ormai il leader del Pd e il suo predecessore sono sull’orlo di un divorzio, perciò non è alle viste un nuovo incontro: una separazione nel voto per il Colle equivarrebbe a una scissione.
«Amato» dice Bersani. Per evitare la rottura ci sarebbe anche Mattarella. E la Finocchiaro.
Ma è Renzi che manca all’appello, e nel Palazzo basta niente per scatenare la psicosi collettiva. Ieri un accenno su Visco, durante una riunione, ha innescato una reazione a catena. E poco importa se il governatore di Bankitalia si è schermito, il punto è che il suo nome è stato pronunciato da Renzi all’incontro con Berlusconi.
Rientrato a palazzo Grazioli, il Cavaliere si è sfogato con i suoi: «Ci manca solo il ministro delle tasse». «Ma no dottore, non è Vincenzo. È Ignazio Visco. L’ha nominato lei a Bankitalia». «Ah sì e non mi ha nemmeno chiamato per dirmi grazie».
E tutti a fissarlo: il «dottore» sta dicendo il vero o sta bluffando?
Perchè di pokeristi al tavolo d’azzardo per il Colle non c’è seduto solo Renzi…
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
PAITA IN CORSA PER LA LIGURIA, DA ASSESSORE SI FECE ASSUMERE SENZA MAI PRESENTARSI… PAGAVA IL COMUNE. LEI: “SOLO POCHI MESI”
Un contratto di lavoro in una società dove i vertici assicurano di “non averla mai vista in ufficio”.
Dove gli amministratori sedevano anche in società in affari con partecipate del Comune di cui lei era assessore.
Dove si ritrovano tanti pezzi grossi del centrosinistra.
Dopo le primarie taroccate, Raffaella Paita, candidata Pd alle Regionali liguri, si trova di fronte un’altra polemica.
Una storia di contratti di lavoro, e contributi per la pensione pagati dagli enti pubblici. Tutto comincia nel maggio 2007 quando Paita diventa assessore al Comune di La Spezia nella giunta dell’attuale sindaco, Massimo Federici (suo sponsor).
Al Comune, che deve pagare i contributi per la pensione, Paita dichiara di essere dipendente della società Sti spa. Vero.
Ma Andrea Pesce, allora amministratore della Sti (promettente società poi finita in bancarotta), racconta: “So che Paita era stata assunta, ma non l’ho mai vista al lavoro”.
Non solo: negli ambienti della Sti c’è chi fa notare che la società “si occupava di archiviazione dati, un ambito apparentemente estraneo dalle competenze di Paita” (giornalista pubblicista).
Non solo: Antonio Desiata (altro amministratore di Sti, mai indagato) sedeva anche in società in affari con partecipate del Comune della Spezia di cui Paita era assessore. La candidata Pd ai cronisti racconta: “È vero, fui assunta, ma in effetti non andai mai a lavorare. Volevo avere una copertura contributiva perchè non sapevo quanto sarebbe durato il mio incarico. Ma dopo pochi mesi, appena ho visto che era destinato a prolungarsi, mi sono dimessa rinunciando ai contributi e dimostrando correttezza. Credo sia un esempio. Secondo me in Regione non c’è un consigliere che non abbia i contributi”.
Un trattamento di favore, la segnalazione di qualche potente locale? “Affrontai un regolare colloquio”.
Una cosa è certa: “Paita — racconta uno dei massimi dirigenti del centrosinistra spezzino che non vuole essere citato — fino al 2002 era stata capogruppo Pds in Comune. Poi, non volendo candidarsi alle elezioni insieme con il suo compagno (quel Luigi Merlo poi vice-sindaco di La Spezia, quindi assessore di Claudio Burlando in Regione e oggi presidente del Porto di Genova), divenne capo di gabinetto dell’allora sindaco”.
Quindi non risultava assunta dal Comune.
Nel 2007, con l’arrivo del sindaco Federici ecco il grande salto nella politica. Diventa assessore. Ma, come tanti politici di professione, si presenta forse il problema di avere un contratto di lavoro che, durante il mandato politico, le consenta il versamento dei contributi per la pensione. Niente di illegale, fino a prova contraria.
Paita risulta all’epoca dipendente di Sti spa. Non una società come tante. Sti era una società “rampante”, pronta al grande salto sulla scena nazionale. Vantava clienti di primo piano, come la Carige poi toccata dagli scandali.
I soci avevano molte partite aperte a La Spezia.
Anche l’acquisto dello Spezia Calcio, poi finito in mano di amici dell’allora onorevole Luigi Grillo (arrestato nel 2014).
A scorrere l’elenco delle persone vicine a Sti e alle sue collegate si ritrova il mondo del potere ligure di questi anni.
Hanno occupato cariche in Sti tra gli altri: Gianfranco Tiezzi, assessore al Commercio del Comune di Genova all’epoca di Marta Vincenzi; Paolo Momigliano, manager vicino al centrosinistra che oggi ritroviamo alla presidenza della fondazione Carige; ancora il commercialista Federico Galantini (che già sedeva nella banca Carispe), vicino a Federici e all’assessore regionale alle Attività Produttive, il burlandiano-paitiano Renzo Guccinelli.
Ma ad attirare l’attenzione sono anche le assunzioni e le sponsorizzazioni della Sti e delle società ad essa legate, sempre molto attente al mondo politico.
Andrea Pesce — manager acclamato da tutti, spremuto e poi abbandonato al suo destino appena si profilarono i guai — nell’inchiesta sulla bancarotta raccontò di collegamenti con l’Idv ligure (anch’esso travolto da scandali e arresti) e di finanziamenti da parte di un’altra sua società alle campagne elettorali come quella dell’attuale assessore del comune di Savona, Elisa Di Padova.
“Non so se mi abbia finanziato”, disse all’epoca Di Padova.
Emerse anche l’assunzione della figlia di Nicolò Scialfa (ex vicepresidente Idv della Giunta Burlando, collega di Raffaella Paita, arrestato nell’inchiesta sulle spese pazze in Regione).
Ancora: si ricordano le sponsorizzazioni alla squadra di pallavolo Igo Volley (che aveva tra i suoi sponsor anche il gruppo Carige e imprenditori legati al centrosinistra). Il presidente onorario era Roberto Fucigna, ex responsabile dell’ufficio gip del Tribunale di Genova.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
LA FEDERCHIMICA: ADEGUARE 200 MILA BUSTE PAGA ALL’INFLAZIONE PIÙ BASSA
La deflazione ha preso in contropiede Confindustria. 
E così in Federchimica hanno pensato di chiedere indietro i soldi ai lavoratori. V
isto che l’andamento dell’inflazione programmata — scrive l’associazione degli industriali in una lettera inviata a Cgil, Cisl e Uil — è stato inferiore al previsto mentre i rinnovi contrattuali si sono basati su previsioni al rialzo, ci dovete indietro 79 euro.
La somma, beffardamente, è molto simile ai famigerati 80 euro elargiti da Matteo Renzi ai lavoratori italiani a basso reddito.
Ed esprime, per utilizzare le parole di Maurizio Landini — che quella lettera ha esibito l’altra sera in faccia al capogruppo Pd, Roberto Speranza, durante la trasmissione Servizio Pubblico — “la libertà dei padroni, oltre che di licenziare, anche di chiederci indietro i soldi”.
Se la richiesta di Federchimica andasse in porto, i circa 200 mila addetti del settore se li vedrebbero tolti, sia pure indirettamente, dal rinnovo contrattuale.
La storia ha inizio il 2 dicembre scorso quando il presidente dei Chimici, Cesare Puccioni, scrive di suo pugno a Enrico Miceli della Filtcem-Cgil, a Sergio Gigli, della Femca-Cisl e a Paolo Pirani, della Ultec-Uil, ponendo loro il problema dell’andamento dell’inflazione.
“Siamo certi siate consapevoli del significativo scostamento in atto tra inflazione prevista al momento del rinnovo del vigente Ccnl e inflazione reale relativa al biennio 2013/2014 e prevista per il 2015”, scrive il capo degli industriali della chimica.
Si tratta di una “situazione eccezionale”, mai verificatasi dal tempo, spiegano gli industriali, che quantificano esattamente quanto da loro versato in più rispetto all’andamento del costo della vita.
I 79 euro (medi), infatti, sono il frutto di un’inflazione riconosciuta, nel triennio 2012-2015, di 6,2% contro un’inflazione reale di 2,5.
Quel 3,7% di differenza corrisponderebbe ai 79 euro che non vengono materialmente richiesti indietro.
Confindustria pensa, piuttosto, che la situazione richieda “la necessità di impegnarsi per individuare tempestivamente soluzioni anche innovative ma rispettose delle disposizioni normative e contrattuali vigenti”.
Per innovazione, Federchimica intende il miglioramento della produttività (quindi lavorare di più), l’efficienza, “l’esigibilità ”, moderna espressione per indicare la limitazione dello sciopero e così via.
Fino a una diversa “complementarietà ” tra contratto nazionale e contratto aziendale che potrebbe significare che quello che è stato dato nel contratto di settore viene detratto in quello di secondo livello.
Federchimica ha chiamato in causa l’articolo 69 del contratto nazionale dei chimici, rinnovati nel 2012, dove si spiega che in caso di “eventuali scostamenti significativi tra l’inflazione prevista e quella reale” le parti si incontrano di nuovo per “attuare la correlata variazione dei minimi entro la medesima vigenza contrattuale”.
Una clausola che, generalmente , è prevista per tutelare i lavoratori in caso di scostamenti superiori a quanto contrattualizzato. Non si erano ancora visti gli imprenditori appellarsi a questa clausola per rivedere al ribasso i contratti.
La lettera ha portato a un incontro con le tre organizzazioni sindacali e a una rottura, almeno per il momento, delle relazioni sindacali. Il segretario della Filtcem-Cgil, Enrico Miceli, ha chiamato in causa Mario Draghi e la sua scommessa sull’inflazione “mentre le imprese puntano ancora sulla deflazione, negando i prossimi rinnovi contrattuali e creando, come sta accadendo nel settore chimico, la rissa”.
Al di là dello scambio di accuse e allo scontro nel settore dei chimici, il punto è capire se quella di Federchimica rappresenti un’iniziativa isolata o, invece, la punta di lancia di un’offensiva degli industriali.
L’accordo sul modello contrattuale, siglato nel 2009 con Cisl, Uil e Ugl — la Cgil non firmò — è infatti scaduto già da un anno e nel frattempo nessun accordo complessivo è stato più siglato.
Anche l’intesa sulla rappresentanza sindacale, il Testo unico del 10 gennaio 2014, è rimasto in un cassetto con le parti sociali distanziate dall’iniziativa governativa sul Jobs Act.
“Il punto — spiega al Fatto Maurizio Landini — è che c’è una tendenza a far saltare i contratti e il rischio che questa iniziativa si allarghi a tutti i lavoratori è evidente. Del resto, se ai padroni si lascia la libertà di licenziare quelli poi ti chiedono anche i soldi indietro”, chiosa il segretario della Fiom.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
IL NUOVO DIRETTORE ESPLICITA I LEGAMI CON RENZUSCONI: “SIAMO INNAMORATI DELLA LIMONATA TRA MATTEO E SILVIO”
“Penso che Renzi e Berlusconi siano la coppia più bella del mondo. Noi siamo innamorati della grande limonata tra i due”.
Intervistato dal Corriere della Sera, il futuro direttore del Foglio, il trentaduenne Claudio Cerasa, ha illustrato in pochissime righe il programma editoriale del giornale che ha come soci Paolo Berlusconi e Denis Verdini e come presidente Giuseppe Spinelli, il ragioniere di Silvio Berlusconi. Non è una gran novità .
Giuliano Ferrara, direttore dal 1996 e che ha deciso di lasciare “perchè non si può fare il direttore per venti anni”, ha sempre “limonato” con i dirigenti del Pd.
La stessa nascita del suo giornale avvenne nell’innamoramento per la Bicamerale allora presieduta da Massimo D’Alema e che rappresentò l’apice degli “inciuci” tra destra e sinistra.
Ancora nel 2006, Ferrara si prodigò per sostenere la candidatura di D’Alema alla presidenza della Repubblica pubblicando, con una esplicita intervista all’allora segretario dei Ds, Piero Fassino, un programma per il Quirinale improntato alla pacificazione nazionale.
Infine, quando, dopo il 2008, l’Elefantino tifava per l’intesa tra Silvio Berlusconi e il Pd, arrivò a inventarsi l’abbreviazione Caw, dove la lettera finale stava per Walter, nome di Veltroni, primo segretario del Partito democratico.
Le limonate, dunque, sono storia antica. Oggi, però, alla guida della “sinistra” italiana c’è un signore che all’attivo del suo primo anno di governo ha la chiusura di, quasi, tutti i giornali della sinistra.
E in questo vuoto, il Foglio può offrirsi come una sorta di house organ del governo Renzusconi con una agilità sorprendente.
Un segnale degli amorosi sensi tra il quotidiano e il partito lo si è avuto con la paginata pubblicata l’altroieri in cui i deputati e i senatori Pd sono stati tutti “schedati” a seconda del loro affidabilità in vista delle elezioni per il presidente della Repubblica.
Una lista dietro cui è sembrata evidente la mano dei colonnelli di Renzi, in primis quel Luca Lotti che ormai è il vero numero 2 dell’entourage renziano.
E la cui prima, vera, biografia giornalistica fu pubblicata proprio da Cerasa nel dicembre 2013. Una pagina di aneddoti e ricostruzioni in cui veniva esaltato “il bambino che da piccolo ha imparato ad azzannare i comunisti”.
Senza cedere alla malizia con cui ieri Dagospia bollava la dipartita di Ferrara — “abbandona la nave che cola a picco?” — le vicende del Foglio si intersecano ai problemi economici di gran parte della stampa italiana.
Come una cinquantina di testate, anche il quotidiano dell’Elefantino percepisce i “contributi diretti alle imprese editoriali” in base al comma 2 dell’articolo 3 della legge 250 del 1990. Nell’ultimo dato disponibile presso il Dipartimento dell’Editoria, i contributi ammontavano a 1,2 milioni di euro che corrispondono a circa il 20% del fatturato del Foglio stando ai numeri pubblicati da Milano Finanza.
Quei fondi, però, si stanno riducendo impietosamente. Il Fondo per l’Editoria è stato via via prosciugato e lo stesso governo Renzi conta di dimezzarlo nel 2015.
Un rapporto diretto con il premier potrebbe essere utile per avere qualche sponda?
Lecito pensarlo. Renzi finora non ha dimostrato grande sensibilità per la stampa politica.
Nel corso del suo governo, infatti, hanno chiuso quasi tutti i quotidiani collocati a sinistra: Liberazione a marzo, poi l’Unità , Europa, Left — che però è stata riacquistata da Matteo Fago — il Salvagente e, ultima in ordine di tempo, Rassegna sindacale che si è trasferita sul web.
I problemi principali emergono per quanto riguarda i quotidiani di area Pd.
L’Unità ed Europa, infatti, avrebbero dovuto essere recuperati dalla nuova società editoriale Eyu (l’acronimo di Europa, Youdem, Unità ) di proprietà al 100% del Pd.
A oggi, però, la situazione è drammatica, soprattutto per i dipendenti dei rispettivi giornali (quasi un centinaio).
Europa è stata chiusa e la testata assorbita direttamente dal Pd che, assicura, la farà tornare presto online.
All’Unità , invece, si attendono ancora le decisioni che prenderà l’editoriale Veneziani che punta ad acquisire la testata.
Un comunicato della Fnsi e del Cdr del quotidiano teme che la vicenda possa concludersi “nel peggiore dei modi” perchè Veneziani vorrebbe rilevare il giornale “senza avvalersi della professionalità dei suoi lavoratori, giornalisti e poligrafici”.
Eppure, il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, aveva garantito che il cambio di proprietà sarebbe avvenuto a condizione di avvalersi “prioritariamente” dei lavoratori della Nie (società in liquidazione) oggi in cassa integrazione straordinaria.
L’offerta di Veneziani è all’esame del Tribunale di Roma ma le componenti sindacali reclamano, da mesi, un incontro immediato con l’editore Veneziani “capofila della cordata di cui fa parte anche la fondazione Eyu del Pd” .
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 24th, 2015 Riccardo Fucile
GRILLINI E SOLE 24 ORE: NEL DDL SULLA RESPONSABILITA’ DEI DIRIGENTI UN EMENDAMENTO AD HOC PER SALVARE IL PREMIER SOTTO PROCESSO DAVANTI ALA CORTE DEI CONTI
Un emendamento “salva-Renzi” nella legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione. A
denunciarlo, chiedendo a premier di “fare immediatamente chiarezza”, è il MoVimento 5 Stelle, secondo cui la proposta di modifica in materia di responsabilità dei dirigenti presentata nei giorni scorsi dal relatore del provvedimento Giorgio Pagliari (Pd) “a prima vista farebbe pensare all’ennesima legge ad personam”, “costruito ad arte per mettere nuovamente fine ai guai giudiziari del premier Renzi”.
In particolare il processo per danno erariale in corso davanti alla Corte dei Conti, che al premier contesta la nomina di quattro dirigenti nel periodo in cui era presidente della Provincia di Firenze e “reiterate irregolarità contabili” nei bilanci del comune di Firenze quando ne era sindaco.
L’emendamento incriminato prevede “il rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale”.
Secondo i 5 Stelle, ne deriva che “per ogni danno erariale provocato da un ufficio e/o ente pubblico, la responsabilità esclusiva ricade solo e soltanto sul dirigente stesso e non su chi è a capo dell’ufficio preposto”.
Interpretazione su cui, pur lasciando un punto di domanda sull’effettiva portata di questa estensione della separazione tra responsabilità dei politici e dei dirigenti, concorda anche Il Sole 24 Ore.
Che in un articolo dal titolo Riforma Pa, spunta la sanatoria per i sindaci nota come nella giurisprudenza della Corte dei conti sia “costante l’applicazione della “esimente politica”, che esclude dalla responsabilità ministri o amministratori locali per scelte che sono il frutto diretto del loro ruolo”.
La nuova norma, quindi, “sembra puntare quanto meno ad allargare il raggio d’azione di questa esimente. Di quanto?”, si chiede il quotidiano di Confindustria.
I deputati grillini, invece, hanno pochi dubbi: “Renzi potrebbe essere esente da qualsiasi responsabilità come presidente della Provincia di Firenze e potrebbe far ricadere tutto sulle spalle dei dirigenti e il processo a suo carico automaticamente potrebbe essere cancellato con un tratto di penna”, scrivono sul sito del gruppo alla Camera. Ricordando che la Corte dei Conti “contesta a Renzi la categoria di inquadramento di quattro persone nello staff” per “un danno erariale di circa 816mila euro”.
Vicenda per la quale il 5 agosto 2011 il premier è stato condannato in primo grado (la prossima udienza è stata fissata per il 15 luglio).
“La Corte prevede il pagamento di una somma totale di 50mila euro, di cui 14mila a carico di Renzi, i restanti a carico di venti persone fra colleghi di Giunta e funzionari”, ma “alla fine del procedimento, e nonostante la condanna, Renzi attribuisce la responsabilità delle assunzioni contestate dalla Corte dei Conti ai funzionari della Provincia” e “impugna in appello la sentenza. La Corte dei Conti riapre il caso con una prima udienza che si è svolta a settembre 2014″.
C’è poi il caso relativo al bilancio del Comune di Firenze negli anni 2012-2013, cioè “proprio sotto l’amministrazione Renzi”, che presentava “una reiterata irregolarità contabile” legata sempre ad assunzioni che andavano oltre le possibilità del bilancio del Comune.
Tornando ai sospetti di una norma ad personam, il M5s sostiene che già “a giugno 2014 compare la bozza del decreto sulla P.A. con il primo tentativo dell’attuale governo di infilarci una norma ‘salva Renzi’.
Colto con le mani nel sacco, il governo affida allo staff di Palazzo Chigi il dietrofront: ‘C’è un errore, lo faremo sparire’”.
“Se vogliamo credere che la prima volta si è trattato di un errore in buona fede, questo secondo tentativo, a distanza di così poco tempo, insospettisce e non poco. Per questo — concludono i 5 Stelle — chiediamo al premier Matteo Renzi di fugare ogni dubbio sul fatto che questa norma possa andare, anche indirettamente, a cancellare il suo processo, sanando così i suoi guai con la giustizia”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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