IL RETROBONUS, CONFINDUSTRIA RIVUOLE INDIETRO 79 EURO
LA FEDERCHIMICA: ADEGUARE 200 MILA BUSTE PAGA ALL’INFLAZIONE PIÙ BASSA
La deflazione ha preso in contropiede Confindustria.
E così in Federchimica hanno pensato di chiedere indietro i soldi ai lavoratori. V
isto che l’andamento dell’inflazione programmata — scrive l’associazione degli industriali in una lettera inviata a Cgil, Cisl e Uil — è stato inferiore al previsto mentre i rinnovi contrattuali si sono basati su previsioni al rialzo, ci dovete indietro 79 euro.
La somma, beffardamente, è molto simile ai famigerati 80 euro elargiti da Matteo Renzi ai lavoratori italiani a basso reddito.
Ed esprime, per utilizzare le parole di Maurizio Landini — che quella lettera ha esibito l’altra sera in faccia al capogruppo Pd, Roberto Speranza, durante la trasmissione Servizio Pubblico — “la libertà dei padroni, oltre che di licenziare, anche di chiederci indietro i soldi”.
Se la richiesta di Federchimica andasse in porto, i circa 200 mila addetti del settore se li vedrebbero tolti, sia pure indirettamente, dal rinnovo contrattuale.
La storia ha inizio il 2 dicembre scorso quando il presidente dei Chimici, Cesare Puccioni, scrive di suo pugno a Enrico Miceli della Filtcem-Cgil, a Sergio Gigli, della Femca-Cisl e a Paolo Pirani, della Ultec-Uil, ponendo loro il problema dell’andamento dell’inflazione.
“Siamo certi siate consapevoli del significativo scostamento in atto tra inflazione prevista al momento del rinnovo del vigente Ccnl e inflazione reale relativa al biennio 2013/2014 e prevista per il 2015”, scrive il capo degli industriali della chimica.
Si tratta di una “situazione eccezionale”, mai verificatasi dal tempo, spiegano gli industriali, che quantificano esattamente quanto da loro versato in più rispetto all’andamento del costo della vita.
I 79 euro (medi), infatti, sono il frutto di un’inflazione riconosciuta, nel triennio 2012-2015, di 6,2% contro un’inflazione reale di 2,5.
Quel 3,7% di differenza corrisponderebbe ai 79 euro che non vengono materialmente richiesti indietro.
Confindustria pensa, piuttosto, che la situazione richieda “la necessità di impegnarsi per individuare tempestivamente soluzioni anche innovative ma rispettose delle disposizioni normative e contrattuali vigenti”.
Per innovazione, Federchimica intende il miglioramento della produttività (quindi lavorare di più), l’efficienza, “l’esigibilità ”, moderna espressione per indicare la limitazione dello sciopero e così via.
Fino a una diversa “complementarietà ” tra contratto nazionale e contratto aziendale che potrebbe significare che quello che è stato dato nel contratto di settore viene detratto in quello di secondo livello.
Federchimica ha chiamato in causa l’articolo 69 del contratto nazionale dei chimici, rinnovati nel 2012, dove si spiega che in caso di “eventuali scostamenti significativi tra l’inflazione prevista e quella reale” le parti si incontrano di nuovo per “attuare la correlata variazione dei minimi entro la medesima vigenza contrattuale”.
Una clausola che, generalmente , è prevista per tutelare i lavoratori in caso di scostamenti superiori a quanto contrattualizzato. Non si erano ancora visti gli imprenditori appellarsi a questa clausola per rivedere al ribasso i contratti.
La lettera ha portato a un incontro con le tre organizzazioni sindacali e a una rottura, almeno per il momento, delle relazioni sindacali. Il segretario della Filtcem-Cgil, Enrico Miceli, ha chiamato in causa Mario Draghi e la sua scommessa sull’inflazione “mentre le imprese puntano ancora sulla deflazione, negando i prossimi rinnovi contrattuali e creando, come sta accadendo nel settore chimico, la rissa”.
Al di là dello scambio di accuse e allo scontro nel settore dei chimici, il punto è capire se quella di Federchimica rappresenti un’iniziativa isolata o, invece, la punta di lancia di un’offensiva degli industriali.
L’accordo sul modello contrattuale, siglato nel 2009 con Cisl, Uil e Ugl — la Cgil non firmò — è infatti scaduto già da un anno e nel frattempo nessun accordo complessivo è stato più siglato.
Anche l’intesa sulla rappresentanza sindacale, il Testo unico del 10 gennaio 2014, è rimasto in un cassetto con le parti sociali distanziate dall’iniziativa governativa sul Jobs Act.
“Il punto — spiega al Fatto Maurizio Landini — è che c’è una tendenza a far saltare i contratti e il rischio che questa iniziativa si allarghi a tutti i lavoratori è evidente. Del resto, se ai padroni si lascia la libertà di licenziare quelli poi ti chiedono anche i soldi indietro”, chiosa il segretario della Fiom.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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