Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
CHI PAGHERA’ IL CONTO?…. IN ARRIVO LA BAD BANK DI STATO
“Rottamazione in banca”, la definisce un banchiere di lungo corso che ha vissuto da vicino la stagione
delle privatizzazioni degli anni Novanta.
“Rottamazione di tabù inveterati come la riforma delle Popolari” di cui si parla da vent’anni senza mai prendere il toro per le corna.
“Rottamazione come la forte moral suasion sulle piccole banche di credito cooperativo”, messe nel mirino da Banca d’Italia che ne ha denunciato inefficienze e opacità gestionale, aprendo la porta alla stagione delle fusioni.
E soprattutto “rottamazione come la costruzione di un veicolo a garanzia pubblica”, meglio conosciuto come bad bank, per alleggerire i bilanci degli istituti di credito dalla marea di sofferenze e liberare risorse per rilanciare l’economia reale, dopo averne negato l’urgenza, e l’esigenza, troppe volte in questa lunga crisi.
“In un paese come l’Italia dove la mole dei prestiti bancari è pari alla cifra mostre del 53% per cento del Pil (molto più di Francia e Germania) e rappresenta il 40% delle passività finanziarie complessive (gli Usa sono al 15% e la Francia al 23%), tutto si tiene”, continua il banchiere.
Per questo senza tracciare il quadro precario del nostro sistema bancario si capirebbe poco di questa recessione infinita e soprattutto di questa rottamazione ormai necessaria, avviata dal governo Renzi ma sospinta ben più in alto dai tavoli che contano a Bruxelles e a Francoforte.
La salute precaria delle banche italiane
Alla radice di tutto c’è che le banche italiane sono tra le meno efficienti in Europa per almeno tre motivi.
Uno. Hanno troppi sportelli e troppi dipendenti. In più negli ultimi anni hanno migliorato troppo poco la produttività .
Due. Hanno pochi derivati in pancia rispetto alle concorrenti straniere, non fanno trading, ma sono meno liquide e fanno molti meno utili.
“I profitti vengono principalmente dall’intermediazione creditizia (raccolta-impieghi), da servizi bancari tradizionali e da una quota non troppo rilevante di commissioni di gestione del risparmio e di collocamento di prodotti assicurativi”, ha colpito e affondato qualche mese fa il Wall Street Journal.
Quasi tutte linee di business mature, molte delle quali con la crisi si sono ridotte.
Tre. “I clienti tipici delle banche italiane sono i piccoli imprenditori, con i quali si guadagna poco e si rischia di perdere molto”, ragiona Fabio Bolognini, autore di uno dei più apprezzati blog finanziari italiani.
“Basti dire che, secondo i dati Cerved, su circa 2 milioni di imprese registrate quasi la metà (900.000) non sono società di capitali, cioè esiste una totale commistione tra patrimonio della famiglia e patrimonio aziendale e tra debiti della persona e dell’azienda. Altre 450.000 imprese sono micro, non arrivano a 2 milioni di fatturato e troppo spesso presentano bilanci poco trasparenti e una situazione pessima di margini, flussi di cassa e debiti.”
Aggiungiamoci i tassi dell’eurozona talmente bassi da non consentire i vecchi super guadagni sui depositi, la corsa a riempirsi di titoli di Stato (valutati alla stregua di titolo spazzatura) per aiutare il debito pubblico e il boom di sofferenze e di crediti incagliati, esplosi con la crisi economica, e si capisce il colpo di grazia ad un sistema già tradizionalmente sottocapitalizzato, oggi in grande difficoltà nel fare il proprio mestiere.
Di più. In Italia la dipendenza del paese dal sistema bancario è ancor più forte che nel resto d’Europa perchè è praticamente l’unico canale attraverso cui passa il credito che serve a far ripartire l’economia reale e attraverso cui capiremo se il Quantitative easing promosso da Mario Draghi produrrà gli effetti di stimolo sperato.
Perchè la bad bank serve come il pane
Arrivati a questo punto promuovere un veicolo di sistema che aiuti le banche a sbloccare il problema “credito-sofferenze-credito” sembra essere l’unica soluzione intelligente (ma fuori tempo massimo?).
Secondo l’ultimo rapporto mensile dell’Abi (gennaio 2015), in sette anni di crisi le sofferenze lorde hanno raggiunto il record di 181 miliardi di euro.
In percentuale agli impieghi totali siamo ormai al 9,5% (7,8% un anno fa; 2,8% a fine 2007), che sale al 16% per i piccoli operatori economici (13,6% l’anno scorso; 7,1% a fine 2007), al 15,9% per le imprese (12,6% un anno fa; 3,6% a fine 2007) e si attesta al 6,9% per le famiglie (6,3% a novembre 2013; 2,9% a fine 2007).
Cento ottantuno miliardi di sofferenze lorde significa che il totale dei Non Performing Loans (NPL), i crediti deteriorati (sconfinanti, ristrutturati, incagli e sofferenze) per i quali la riscossione è a rischio e a fronte dei quali le banche devono effettuare accantonamenti prudenziali, raggiunge l’incredibile cifra di 320-330 miliardi di euro, pari al 16% di tutto il credito bancario in circolazione in Italia.
Un trend confermato dagli ultimi dati sui bilanci 2014.
Consideriamo un numero. Se le prime 11 banche italiane avessero un bilancio 2014 unico avrebbero un margine operativo (ricavi meno costi) pari a 24 miliardi e rettifiche su crediti pari a 25.
In pratica alcune banche italiane hanno lavorato a vuoto nel 2014, altre hanno pesantemente distrutto valore.
Quanto si può andare avanti così?
Le ipocrisie di sistema e l’esempio spagnolo
Il problema è che le esigenze di un intervento di sistema erano già evidenti 2-3 anni fa.
La montagna delle sofferenze cresce almeno dal 2009 ad un tasso del 20-30% annuo senza poterle cedere sul mercato perchè “i prezzi offerti sono troppo bassi e se accettati finirebbero per generare pesanti minusvalenze sui bilanci delle banche che hanno bassa copertura nel monte rettifiche accantonato”, continua Bolognini.
In più il portafoglio immobiliare, molto vasto in Italia, è da anni che non viene sufficientemente classificato e svalutato.
Eppure per lungo tempo sia Banca d’Italia che lo stesso potente sindacato delle banche (Abi) hanno negato la prospettiva della bad bank per evitare di infrangere il mito della solidità del sistema, uscito dalla crisi senza aiuti pubblici (a differenza delle banche straniere).
Su questo alibi hanno prosperato piccoli e grandi cabotaggi, piccoli e grandi conflitti di interesse, tipici di un sistema piccolo e incestuoso come quello italiano.
Banche che hanno preferito restare prudenti nelle svalutazioni per limitare bilanci in rosso e banche che hanno pensato di non dover drammatizzare la crisi sperando che passasse in fretta la nottata.
Così non è stato, anzi. Gli esami europei, prima l’Asset quality review e poi gli stress test della Bce, sono stati un bagno di realtà .
Il re è nudo e oggi le nostre banche pagano un conto salatissimo sull’altare della (supposta) solidità del sistema.
Peraltro non si può nemmeno invocare la solidarietà latina contro il rigorismo tedesco. La Spagna si è mossa in modo opposto all’Italia mettendo mano seriamente al problema delle sofferenze già da tre anni prima con la costituzione del Frob (Fondo de Restructuracià³n Ordenado Bancaria), un’istituzione interamente pubblica, dipendente dal Ministero dell’Economia, con l’obiettivo di forzare i tempi del consolidamento del sistema bancario nazionale e poi con la creazione della vera bad bank, la Sareb.
Non a caso nessuna banca spagnola oggi siede dietro la lavagna dei cattivi stilata dalla Bce.
Chi pagherà il conto?
A questa stregua e per le ragioni che abbiamo descritto è arrivato anche in Italia il momento della bad bank.
Abi e le varie lobby del credito sono capitolate, hanno smesso i toni barricadieri, si acconciano alla grande mediazione ma sanno che dovranno cedere sovranità .
Il Tesoro è al lavoro e le parole del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, non lasciano scampo.
Certo, come sarà il veicolo farà tutta la differenza. Da questo punto di vista l’intervento del governatore qualche paletto lo ha messo: “rispetto della disciplina europea sulla concorrenza” significa niente aiuti di Stato alle banche; “pieno coinvolgimento delle banche nei costi e adeguata remunerazione del sostegno pubblico” significa che gli istituti che hanno accantonato troppo poco pagheranno di più la garanzia dello Stato, necessaria a fare partire il mercato dei NPL.
E qui si torna al numerino del bilancio cumulativo raccontato prima, i 24 miliardi di margine operativo e i 25 di rettifiche sui crediti.
Se scomponiamo quel dato si vedrà che le due banche maggiori, Intesa e Unicredit, hanno fatto accantonamenti massicci in questi ultimi trimestri; il resto del gruppone ha sistematicamente accantonato troppo poco.
Unicredit da quasi tre anni, Intesa da un po’ meno, hanno attivato procedure e cambiamenti organizzativi per gestire meglio i contenziosi e possibilmente imparare a prevenirli.
Molte altre banche medio grandi hanno fatto chi i furbi chi gli incompetenti e adesso pagano dazio, devono accantonare tantissimo per recuperare il terreno perduto, facendo emergere le sofferenze nascoste e, in contropartita, aumentando sensibilmente la percentuale di rettifiche.
Questo significa che le differenze tra banche sono molto marcate per un’operazione comune di sistema che dovrà tenere insieme, nei ragionamenti che circolano al Ministero dell’Economia, alcuni ingredienti obbligati: evitare aiuti di stato, evitare regali alle banche che porterebbero voti facili ai Cinque Stelle, differenziare buone e cattive gestioni e, si sa ma non si dice apertamente, salvare Monte dei Paschi e Banca Etruria.
“Ci vorrà un miracolo per farla”, confermano alcuni operatori di mercato.
Tanto più che Unicredit e Intesa si sono chiamate fuori da operazioni comuni, annunciando di avere progetti indipendenti.
“E poi tra le banche di taglio medio-grande le minusvalenze nascoste sono davvero eccessive, specie tra chi in questi anni ha unito cattiva gestione a veri e propri scandali e pastette.”
In realtà la pressione che arriva da Bankitalia e da Francoforte è molto forte, una soluzione per farla si troverà . Anche se – ammonisce una fonte al Tesoro – “in una operazione in cui le minusvalenze vanno gestite a prezzi di mercato, pagare la garanzia dello stato non sarà affatto gratis per le banche.” Sarà l’ennesimo colpo al loro disastrato conto economico.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
DEPOSITATI COME RISARCIMENTO SU UN CONTO ESTERO DA SLOVENIA E CROAZIA E DESTINATI AI FAMILIARI DELLE VITTIME… IL GOVERNO PRONTO A INCASSARLI MA GLI ESULI DICONO NO
Neanche 90 milioni di dollari (e relativi interessi) potranno guarire le ferite della tragedia delle foibe e dei profughi italiani che fuggirono da Istria e Dalmazia divenute jugoslave. A pochi giorni dalla «giornata del ricordo» e a 70 anni da quegli eventi storici la questione resta d’attualità per via dei 90 milioni che i governi di Slovenia e Croazia hanno depositato su un conto estero e che sono destinati a risarcire il danno patito dagli italiani scappati da Fiume, Pola, Zara e da tutti i territori nel ’45 assegnati a Tito.
Di quei soldi si è parlato in un incontro tenutosi a Roma: ma mentre il governo italiano è intenzionato a incassarli, le associazioni degli esuli si oppongono, sostenendo che accettare i 90 milioni vorrebbe dire chiudere una partita i cui costi sono stati ben più pesanti.
Diritto sancito dal ’75
Dal ’45 le vittime del duplice dramma consumatosi lungo il confine italo – jugoslavo non hanno avuto alcun tipo di riparazione; eppure il trattato di Osimo, firmato nel ’75 tra Roma e Belgrado sanciva questo diritto e a quello dovevano servire i 90 milioni accantonati dai due stati subentrati dopo le guerre balcaniche degli anni ’90.
Parevano dimenticati per sempre, quei dollari, destinati a perdersi come la memoria di quei fatti ormai lontani e invece proprio la tenacia delle associazioni interessate ne ha rimesso al centro l’importanza.
Giovedì si è tenuto un incontro a Roma tra le associazioni dei profughi e il sottosegretario Benedetto Della Vedova dove sono state chiarite le posizioni in campo.
Il governo si è detto deciso a rompere gli indugi e a portare a casa finalmente i 90 milioni. Il problema è a cosa destinarli e se essi rappresentino la giusta riparazione dei torti riservati dalla Storia agli italiani di Istria e Dalmazia.
Troppo poco per riparare i torti
«La mia idea è che il denaro possa essere destinato a un investimento culturale nella città di Trieste – ragiona Ettore Rosato, deputato Pd che sta seguendo la questione – proprio dedicato alla pagina delle foibe e degli esuli. Ma in definitiva sarà il governo a decidere in un secondo momento, una volta incassati i 90 milioni: nulla vieta che essi vengano destinati a indennizzare le famiglie che furono costrette a fuggire ».
Ipotesi che ha suscitato la piena contrarietà delle associazioni dei profughi: queste dicono no non solo a un uso «pubblico» dei famosi 90 milioni ma ne contestano anche la natura. «Non vogliamo che quei soldi paghino la campagna elettorale del Pd» attacca Antonio Ballarin, presidente di Federesuli.
Ma la questione è ben più complessa»: secondo le vittime e i loro familiari accettare il «saldo» offerto da Slovenia e Croazia significherebbe chiudere definitivamente i conti con la storia; l’obiettivo di istriani e dalmati è avviare cause dirette e ottenere la restituzione dei beni loro tolti o un indennizzo equivalente da valutare caso per caso.
In più rilanciano una serie di richieste al governo tra cui quella che i libri di testo scolastici dedichino maggiore spazio agli accadimenti di quei giorni.
Il sottosegretario Della Vedova dal canto suo ha rassicurato che incassare i 90 milioni non pregiudicherà la possibilità di avviare singole cause.
Certo, la strada sarebbe assai tortuosa.
E soprattutto costringerebbe a guardare nuovamente in faccia quegli eventi troppo a lungo rimossi dalla memoria nazionale.
Claudio Del Frate
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
NON AVEVA CITATO IL PREMIO DI PRODUZIONE VARIABILE: INCASSATO NONOSTANTE IL CALO DEI PROVENTI DEI BIGLIETTI
Giovanna Melandri non ha detto tutta la verità sullo stipendio ricevuto dal Maxxi per il 2013. 
Il ministro il 21 novembre del 2013, dopo che i giornali pubblicarono la notizia che sarebbe stata pagata dal Maxxi per il suo ruolo di presidente, disse al Messaggero: “Avrò uno stipendio sobrio: guadagnerò 45mila euro netti all’anno”.
Il consiglio di amministrazione della Fondazione Maxxi, di cui Melandri è presidente, aveva approvato solo due settimane prima, il 6 novembre 2013, una delibera che non solo concedeva al presidente uno stipendio fisso di 91.500 euro lordi (più di 45mila euro netti) ma anche un premio di produzione variabile.
La delibera non è mai stata pubblicata sul sito e la notizia di questo premio è stata divulgata dal Fatto il 24 dicembre del 2014.
In quell’articolo però, ingenuamente, scrivevamo che Giovanna Melandri avrebbe preso il premio a partire da quest’anno per l’eventuale aumento nel 2014 degli incassi dei biglietti e degli altri proventi e contributi.
Poichè la delibera portava la data del 6 novembre 2013, ci sembrava ovvio che il presidente Melandri avrebbe atteso l’anno 2014 per far scattare il meccanismo.
Invece ci sbagliavamo. Giovanna Melandri è già passata all’incasso.
La Fondazione Maxxi è un soggetto formalmente privato ma gestisce in gran parte soldi pubblici e non dovrebbe attribuire un premio di produttività al suo presidente a novembre 2013 per il periodo gennaio-dicembre dello stesso anno.
Qualcuno potrebbe sospettare infatti che, a 55 giorni dalla fine dell’anno, l’ammontare delle voci prescelte dal consiglio per premiare il suo presidente fosse già prevedibile. Giovanna Melandri ha incassato 24mila euro per il 2013, quasi il bonus massimo previsto.
Nella delibera del 6 novembre del consiglio di amministrazione presieduto da Giovanna Melandri (che si astiene) si prevede oltre al compenso fisso di 91.500 euro lordi “un ulteriore ammontare quale componente variabile (premio) da determinarsi in ‘misura fissa’ come sintetizzato nella tabella che segue”.
Il bonus in questo caso è al netto delle tasse ed è in funzione dell’incremento “rispetto al precedente esercizio della sommatoria delle voci di proventi quali: I) biglietteria; II) Contributi di gestione; III) Sponsorizzazioni; IV) Altri ricavi e proventi”.
Segue la tabella: se l’incremento va dal 5 al 15 per cento, il premio è di 12mila euro (netti), se raggiunge la forchetta 15-20 arriva a 18mila euro; se si pone tra il 25 e il 30 per cento il presidente prende un premio di 24mila euro netti.
Esattamente quello che Giovanna Melandri ha incassato. Quasi il massimo.
Solo se l’incremento delle quattro voci avesse sfondato il tetto del 30 per cento, il premio sarebbe stato “quanto deliberato dal Cda”.
Come ha fatto Giovanna Melandri a ottenere questi risultati?
Sul bilancio 2013 della Fondazione Maxxi si scopre che i proventi da biglietti sono scesi nel 2013 nella gestione Melandri dai 912mila euro del 2012 a 905mila euro.
La voce ‘altri ricavi e proventi’ è invece salita da 2 milioni e 50mila euro del 2012 a 2 milioni e 238mila euro del 2013, comunque un incremento inferiore al 10 per cento e ben lontano dalla forchetta 25-30 che fa scattare il premio da 24mila euro.
Le sponsorizzazioni nella relazione del bilancio 2012 sono valorizzate 985mila euro mentre nel 2013 con Giovanna Melandri salgono a 1 milione 216mila euro.
Infine la voce ‘contributi di gestione’ sale da 3 milioni e 972mila euro a 4 milioni e 786mila euro, un incremento che si aggira sul 20 per cento.
A leggere la delibera e il bilancio si ha la netta sensazione che i contributi di gestione siano stati determinanti per l’incremento e quindi per il premio.
I contributi di gestione, secondo la relazione al bilancio, sono quelli pagati dal ministero dei Beni culturali per 4 milioni e 286mila euro e dalla Regione Lazio per mezzo milione.
Se fosse così, Giovanna Melandri avrebbe preso il premio grazie alla generosità del ministero e della Regione, non grazie alla sua abilità (che pure emerge dal bilancio) nel reperire fondi privati per il Maxxi.
Al Fatto però Melandri replica: “Il premio approvato dal cda è collegato unicamente agli incrementi di risorse private che siamo stati capaci di raccogliere, quali sponsorizzazioni, cena di fund raising, il programma di individual and corporate friends”.
Dunque il premio sarebbe stato connesso a un’altra voce, indeterminata e non evidente nel bilancio, invece che alla voce indicata nella delibera del 6 novembre: ‘contributi di gestione’.
Ci sarebbe quindi una delibera firmata Melandri del 6 novembre 2013 che indica un parametro (i contributi dello Stato) presente nel bilancio firmato da Melandri per attribuire un premio a Giovanna Melandri.
Che dice di avere preso a riferimento un parametro diverso per il suo premio. Comunque, alla fine della fiera, quanto guadagna Giovanna Melandri?
Il fisso di 91mila e 500 lordi dovrebbe essere pari a un reddito annuo netto superiore ai 45mila euro di cui il presidente del Maxxi ha parlato nelle interviste.
Nel 2013, per esempio, Giovanna Melandri dichiarava un reddito imponibile di 75mila euro lordi e pagava un’imposta lorda di 25mila euro per un netto di 50mila euro.
Il reddito lordo superiore di 91mila e 500 euro previsto nella delibera dovrebbe portarle in tasca molto più dei 45mila euro dichiarati a cui si aggiungono i 24mila di cui non ha mai detto nulla a nessuno.
Alla fine lo stipendio mensile, tra parte variabile e parte fissa, dovrebbe superare i 6mila euro al mese.
Comunque meno dello stipendio di parlamentare. Il 19 ottobre del 2012 Melandri si dimise da deputato per dirigere la Fondazione del museo di arte contemporanea.
Se non avesse detto: “Prenderò 90 euro all’anno” allora e se avesse detto oggi: “Guadagno un fisso di 50mila e un variabile di 24mila euro netti”, nessuno avrebbe avuto motivo di contestarle il suo Maxxi stipendio e Maxxi premio.
Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
L’EX MAGISTRATO E’ LA CARTA PER USCIRE DALL’IMPASSE E LIBERARSI DI DE LUCA, MA E’ ORIENTATO A DIRE NO
È diventato simbolo dell’ultima soluzione, via d’uscita contro un’altra prevedibile implosione da primarie.
Matteo Renzi ha avuto il primo riservatissimo colloquio con Raffaele Cantone sul tema elezioni regionali in Campania.
Obiettivo: sondare, ed eventualmente pressare in via definitiva, la disponibilità dell’attuale capo dell’Anticorruzione ed ex pm napoletano ad assumere il ruolo di candidato “unitario” alla Regione.
Un dialogo franco e cordiale, ma senza fumata bianca.
Cantone, semplicemente, non ha intenzione di lasciare il lavoro all’Anticorruzione. «Non sarebbe serio – aveva detto in passato, e sembra lo abbia ripetuto – mollare tutto adesso, e cominciare un lavoro da governatore».
Intorno al carico di responsabilità e istanze che ormai investono l’Anac, l’ex pm ha organizzato un lavoro-monstre che riguarda i più importanti cantieri e progetti in corso nel paese.
Nonostante questo, Renzi insiste: «Il tuo è l’unico nome che spingerebbe tutti i concorrenti a fare un passo indietro».
Ergo: a far saltare le primarie dei veleni, consultazioni che il Pd campano ormai si appresterebbe a rinviare per la quarta volta pur di frenare la corsa di Vincenzo De Luca, ex sindaco ormai decaduto di Salerno che non vuol rinunciare alla competizione, in cui si misurano anche l’europarlamentare Pd ed ex assessore regionale bassoliniano, Andrea Cozzolino, e il deputato renziano Gennaro Migliore (ex Sel) – inizialmente proposto come soluzione terza -, oltre ai più recenti Marco Di Lello del Psi e Nello Di Nardo dell’Idv.
Sfida che si ridurrebbe a un’altra muscolare resa dei conti, nonostante pesi su De Luca quella condanna in primo grado, di un mese fa, per abuso d’ufficio: che comporterebbe, pur nel caso di elezione alla poltrona di governatore, una sicura sospensione per effetto della legge Severino.
È la prospettiva di un drammatico deja-vu, il bis degli scontri sulle primarie delle amministrative napoletane del 2011, le stesse che spalancarono la strada a de Magistris, a spingere Renzi in persona a incalzare Cantone.
Al quale, forse, non sfugge che il presidente del Consiglio con quel “sì” risolverebbe il rompicapo campano: a guidare l’Anac potrebbe arrivare infatti il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, pm antimafia che il premier avrebbe voluto come Ministro della Giustizia.
Il contatto diretto tra il premier e il magistrato risale a qualche giorno fa.
Il nome dell’attuale presidente dell’Anac resta infatti l’unico di fronte al quale perfino lo scatenato De Luca è pronto a rinunciare.
Forse, ragionano i diffidenti, perchè sa che Cantone non accetterà mai?
Il magistrato avrebbe comunque opposto anche al premier il suo tondo: «No, grazie». Secondo alcuni, non avrebbe mai smesso di chiedersi, in queste ore, da perfetto ex ragazzo di provincia preoccupato dalla coerenza delle scelte: ma che figura faremmo?
E quale immagine daremmo delle priorità ?
Una regione, per quanto importante, è più rilevante del lavoro in Anticorruzione?
Intanto lunedì, in direzione nazionale, potrebbe tornare il tema Campania.
A nulla sono valsi gli inviti recapitati direttamente dal vicepresidente Guerini e dal sottosegretario Lotti a De Luca affinchè si ritirasse. Per tutta risposta, oggi, in un cinema napoletano, l’aspirante governatore illustra al popolo Pd «le dieci idee da realizzare nei primi cento giorni di governo regionale».
Conchita Sannino
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
“PRONTI A GUIDARE UNA FORZA INTERNAZIONALE DELL’ONU”, MA ALLA FARNESINA RIVELANO: “E’ UNA POSSIBILITA’ REMOTA”
Una missione di peacekeeping sotto la bandiera dell’Onu e coordinata dall’Italia in terra libica. 
Sarebbe questa l’ipotesi allo studio di Palazzo Chigi per tentare di ricomporre la frattura che ha dato origine alla guerra civile e far fronte all’avanzata degli jihadisti dello Stato Islamico in Libia.
Negli ultimi giorni le istituzioni italiane hanno fatto registrare un’improvviso interesse verso la guerra civile che dilania da almeno un anno il Paese, nel quale si susseguono le conquiste territoriali dei fondamentalisti islamici che si ispirano al califfo Al Baghdadi.
Una possibilità , quella della missione di pace, su cui gli analisti di diversi quotidiani collocano in un orizzonte temporale ancora lontano: “Obiettivi che per il momento appaiono come una sorta di miraggio“, scrive La Stampa.
“I tempi però sono lunghi, l’Onu non ha ancora messo a fuoco il problema e siamo lontani da un consiglio di sicurezza che potrebbe varare la risoluzione ad hoc”, spiegano dalla Farnesina al Messaggero.
Era stato Matteo Renzi il 12 febbraio, giorno seguente all’ennesima strage di migranti avvenuta davanti alle coste libiche, a sollevare il tema a Bruxelles nel corso della riunione informale dei capi di Stato e di governo della Ue. Quella della Libia è “un’emergenza europea” al pari della crisi in Ucraina, aveva sottolineato il presidente del Consiglio, che annunciava: l’Italia è “pronta a fare ancora di più”.
Il giorno dopo, il 13 febbraio, al mattino, Angelino Alfano tornava sul tema: “Il presidente Renzi, parlando della Libia, ha individuato il centro del problema — si leggeva in una nota diramata dal ministro dell’Interno — e ancora più è valso farlo in ambito europeo. Oggi, quel Paese è fuori controllo e in preda al caos, con il rischio che si trasformi anch’esso in un califfato islamico”.
Mentre le agenzie di stampa battevano le notizie dell’ingresso dell’Isis nella città di Sirte e l’appello a lasciare il Paese lanciato dall’ambasciata italiana ai connazionali, Paolo Gentiloni andava oltre: in un’intervista a SkyTg24, il ministro degli Esteri spiegava che l’Italia è pronta a “combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale”, sottolineando che “l’Italia è minacciata da quello che sta accedendo in Libia. Non possiamo accettare l’idea che a poche miglia di navigazione ci sia una minaccia terroristica”.
Sui giornali di oggi, 14 febbraio, è Federica Mogherini a lanciare la palla in avanti: “L’Unione Europea ha già individuato misure che possono eventualmente accompagnare e proteggere il processo di formazione di un embrione di governo di unità nazionale in Libia”, spiegava al Corriere della Sera l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, completamente assente nella maratona diplomatica che il 12 febbraio ha portato all’accordo per il cessate il fuoco nell’est dell’Ucraina.
“Mogherini è attenta a sottolineare — continua il quotidiano di via Solferino — che ogni iniziativa europea dovrà essere necessariamente subordinata a un minimo d’intesa fra le fazioni in guerra, quella di Tobruk e quella islamista che controlla Misurata e Tripoli.
L’offensiva del Califfato aggiunge però caos al caos e rende più difficile il dialogo tra le parti, ponendo un’ulteriore sfida alla comunità internazionale”.
“Ho appena parlato con l’inviato speciale dell’Onu per la Libia Bernardino Leon ed il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry per coordinare come procedere”, ha twittato Lady Pesc nel pomeriggio.
Ma la strada, scrive ancora Il Messaggero, è ancora lunga.
Leon, principale sostenitore dei colloqui tenuti tra le parti nelle scorse settimane a Ginevra, “sta tentando di mettere i vari contendenti di fronte a un tavolo.
‘Inutilmente’ secondo il governo Renzi che vuole spingere la comunità internazionale a compiere un passo ulteriore convincendo l’Onu della necessità di una risoluzione che autorizzi l’invio di truppe”.
Ma i tempi sono lunghi: “Per capire come finirà bisognerà attendere ancora uno o due mesi.
‘Prima è impossibile che l’Onu si muova’, dicono rassegnati a Palazzo Chigi”, conclude il quotidiano romano.
Ma secondo gli esperti, quand’anche prendesse il via, una missione di pace sotto il vessillo delle Nazioni Unite non sarebbe la soluzione.
“Un’operazione di peacekeeping o di peaceenforcing in Libia? Difficile se non c’è la pace — spiega in un’intervista a Repubblica Claudia Gazzini, ricercatrice dell’International Crisis Group — o perlomeno un accordo di pace. E purtroppo in Libia le condizioni militari, politiche e di sicurezza sono disperate”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
IL CONSIGLIERE REGIONALE TORTEROLO TAROCCA LA FATTURA DI UNA PENNA… E SALVINI IN LIGURIA, CON TRE INQUISITI SU TRE, VUOLE PURE UNO DEI TRE CANDIDATO GOVERNATORE DEL CENTRODESTRA
Dal calderone delle spese leghiste salta fuori anche un gioco di prestigio: una fattura da 50 euro che in corso d’opera, secondo gli inquirenti grazie a una manina che intendeva ottenere un rimborso maggiore, diventano (molti) di più.
Ecco perchè nei confronti di Maurizio Torterolo, consigliere regionale del Carroccio già indagato per peculato nell’inchiesta sulle spese pazze, scatta anche l’accusa di falso.
La ricevuta è stata scoperta dagli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, impegnati in un’analisi approfondita di tutti i rendiconti.
Sullo scontrino sarebbe visibile una correzione fatta a penna, che di fatto triplica il valore.
La manomissione sarà contestato a Torterolo nel corso dell’interrogatorio fissato giovedì prossimo, lo stesso giorno in cui è prevista l’audizione di Francesco Bruzzone, anch’egli esponente leghista e destinatario di un avviso di garanzia.
Il terzo indagato del partito del Nord, Edoardo Rixi, vicesegretario federale del movimento e candidato governatore alle prossime elezioni regionali, è stato sentito lunedì scorso.
A mettere nei guai la Lega è una serie di voci che all’apparenza, secondo il sostituto procuratore Francesco Pinto, nulla hanno a che fare con l’attività politica.
Voci di spesa di cui adesso gli eletti nell’assemblea regionale, nonostante la sbandierata lotta agli sprechi di Roma Ladrona, sono costretti a fornire giustificazione. Fra i rimborsi più sospetti c’è una mangiata di ostriche al Cafè de Turin di Nizza, soggiorni in montagna e gite fuori porta nei weekend, il 25 aprile e il Primo Maggio, in Italia e all’estero.
L’elenco delle contestazioni è lungo. Si va dai pernottamenti in località montane come Courmayeur, in Valle D’Aosta, e Limone, in Piemonte, a un agriturismo per due a Cogne, passando per alberghi in città d’arte come Venezia e Pisa.
Nel budget regionale sono finiti anche 84 scontrini in uno stesso ristorante di Savona, menù per bambini, pranzi a Pasqua, Epifania e Ferragosto, e una notte passata in un motel di Broni, in Provincia di Pavia.
Un capitolo a parte riguarda i regali di Natale, altra questione che aveva già pesato su vari partiti coinvolti nella stessa indagine: agende, libri, grappe e bottiglie di spumante sono state pagate dai cittadini.
A Francesco Bruzzone, storico esponente ligure del movimento, viene chiesto conto conto di alcuni pranzi di caccia nella zona di Mondovì.
Un contrappasso o quasi per lui, che da rappresentante in consiglio regionale ha sempre portato avanti le ragioni delle doppiette contro le limitazioni del calendario venatorio.
(da “il Secolo XIX“)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
IL NAZARENO NON TIENE PIU’… IL PREMIER MINACCIA LE ELEZIONI
“Forza, forza”. Sono da poco passate le 18, quando Ettore Rosato, vice capogruppo Dem, esce dall’Aula di
Montecitorio per intercettare i deputati Pd che si attardano in Transatlantico. Poi va alla buvette, rastrella chi c’è.
Il Pd ha bisogno di tutti per garantire il numero legale: sta votando le riforme costituzionali a maggioranza, con le opposizioni che sono uscite dall’Aula.
Una dopo l’altra, compresa Forza Italia. Immagine surreale, l’emiciclo semi-vuoto.
Era una settimana che il patto del Nazareno veniva dato in bilico, moribondo, morto.
Ieri diventa evidente a tutti che l’asse tra Silvio e Matteo non è più così forte, per usare un eufemismo.
Le riforme costituzionali sono appese a un filo. E con loro, la legislatura.
Che il gioco si fa duro si capisce durante la notte tra giovedì e venerdì. Verso le due, dopo la rissa tra Cinque Stelle, Sel e Pd, Renzi, di ritorno da Bruxelles, si materializza in Aula.
Chi c’era lo racconta come galvanizzato, sovra-eccitato, sopra le righe.
Non si siede tra i banchi del governo, ma vaga tra quelli dei parlamentari. Ruba i cellulari dei deputati amici, scherza. Poi va dalla Bergamini (Fi) e la avverte: “Se non ci votate le riforme, si va a elezioni”.
Qualche ora dopo, la mattina, si capisce che per una volta le elezioni sembrano un’arma scarica. Renzi le vuole davvero? Se può evitarle, no.
Anche perchè l’Italicum è ancora un miraggio. E il Consultellum conviene di più a tutti gli altri. La situazione con Berlusconi gli è scappata di mano, ha tirato troppo la corda, e la corda si è rotta: nè lui, nè i suoi pensavano che l’ex Cavaliere si sarebbe sottratto dal Nazareno.
Vero perno su cui si tiene la legislatura. E vera opportunità per il premier di bypassare all’occorrenza la minoranza Pd. Adesso, è tutto un altro film.
Alle 13 e 45 di ieri, Matteo torna alla Camera (rigorosamente in jeans) per dettare la linea al gruppo Pd: “Le opposizioni puntano solo a bloccare il governo”.
Ancora: “Non mi faccio ricattare. Se passa la logica per cui l’ostruzionismo blocca il diritto e dovere della maggioranza di fare le riforme è la fine”.
Secondo la riedizione del copione più classico, il segretario-Presidente ribadisce il “solito” concetto (o riforme o voto) e chiede al gruppo di andare avanti come un treno.
In dissenso, intervengono Cuperlo (“Non possiamo votare le riforme con l’Aula mezza vuota”), Fassina, la Bindi.
Bersani minaccia un intervento in Aula contro la linea del segretario, Speranza lo blocca.
Tra i renziani c’è chi crede che il vero obiettivo della sinistra sia portare allo show down la legislatura per andare a votare con il Consultellum.
Si riprende. Il Pd vota a maggioranza. Ai piani alti di Palazzo Chigi confessano: “Ricucire con Berlusconi? Molto difficile”.
Non esiste un vero piano B. C’è l’operazione responsabili, c’è la possibilità che qualcuno di Forza Italia voti con Renzi. Ci sono i fuoriusciti dei Cinque Stelle (ma ieri escono anche loro). “Non c’è una strategia politica — si preoccupano tra i democratici di maggioranza — come si fa a fare le riforme in questo modo?”.
Intanto, la minoranza porta avanti il suo gioco. Sono ancora Fassina e Cuperlo a intervenire in Aula, per chiedere una pausa tecnica e la ripresa dell’Assemblea Pd.
La chiave nelle parole di Pier Luigi Bersani: “Se il Nazareno è finito, perchè rispettarlo?”. Roberto Speranza in Aula accorato ammette: “Abbiamo i numeri per votare da soli, ma sarebbe un errore”.
Ha il mandato di condurre la trattativa a oltranza con i Cinque Stelle. Bersani passa la giornata a chiedere a Sel di “dargli una mano”.
Se si compatta, la minoranza ha qualche possibilità di pesare. Ma comunque, i dem sono tutti dentro, tranne Civati e Fassina.
Ancora una volta rappresentano un Pd spaccato, ma non rompono.
Nel frattempo, Renzi fa partire l’offensiva Twitter e il messaggio al paese: “Da anni la politica non fa le riforme. Noi Ascoltiamo tutti, ma non ci facciamo ricattare da nessuno. Avanti”. Rincara: “La riforma sarà sottoposta a referendum. Vedremo se la gente starà con noi o con il comitato del no guidato da Brunetta, Salvini e Grillo”.
Dovevano essere riforme fatte con tutti, arriva il referendum tipo panacea di tutti i mali. L’obiettivo a breve termine di Renzi è chiaro: votare come può la seconda lettura alla Camera. E poi, cercare una soluzione, da qui al passaggio in Senato.
Le opposizioni da martedì incontreranno il presidente della Repubblica, Mattarella.
Avrà qualcosa da dire sulla Carta cambiata a colpi di maggioranza?
Alle 19 e 30 Renzi riunisce il gruppo di nuovo.La strategia la illustra Matteo Richetti: “Oggi uscire dal problema di votare le riforme a maggioranza non si traduce nel fermarsi. Dobbiamo chiudere questa lettura, ma tenere aperti molti punti. E andare al Senato condividendo i cambiamenti con le opposizioni”.
Per ora, però, si chiude così. Bersani voleva che la trattative con le opposizioni iniziasse da subito. Niente.
Il premier non si fida della minoranza: “Si attaccano a tutto per frenarmi: gli stessi che mi contestavano che facevo le riforme con Berlusconi, ora mi criticano perchè vado avanti senza l’opposizione. Non ho mai visto tanti nostalgici del Nazareno come stasera”, si sfoga.
E dunque: “Non vedo nessun motivo di interrompere la seduta fiume”. Montecitorio vota per tutta la notte. Obiettivo, finire prima dell’alba. Voto finale a marzo, secondo programma.
Poi, chi vivrà , vedrà .
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
BOTTE DA RIFORME
Neanche fa più notizia che, nella politica italiana da sempre capovolta, il Parlamento cacci chi grida “Onestà , onesta!”.
In fondo è la colpa più grave, quella più imperdonabile: un po’ come andare da Rocco Siffredi e pretendere castità .
Regola aurea, per larga parte dei media, è che la colpa ricada a prescindere sul Movimento 5 Stelle: il capro espiatorio perfetto, che sia effettivamente criticabile (e spesso lo è) o che abbia come macchia quella di mostrarsi alterato di fronte ai soprusi (alla Costituzione, mica a loro).
Il Parlamento è uno strano microcosmo: dentro si può fare di tutto, l’importante è che lo si faccia col sorriso.
Sfasciare ogni cosa va bene, però con educazione. Al contrario, se qualcuno scopre che gli hanno appena rubato la macchina e per questo si arrabbia un po’, giocoforza il colpevole diventa lui: troppo maleducato.
Funziona così, e funziona forse al contrario.
La fredda cronaca degli ultimi giorni (e notti) alla Camera mostra un quadro d’insieme scarsamente avvincente.
Regole minime sventrate. Presidenti e vicepresidenti oltremodo parziali. L’evanescente Boschi che assurge a madrina costituente (esce Calamandrei, entra Maria Elena: come sostituire Pelè con Muntari).
Una gestione delle minoranze e delle opposizioni appena illiberale.
Canguri, sedute fiume, insulti. “Dissidenti” che abbaiano ma non mordono.
La Boldrini che ormai imbarazza pure Sel.
Una perdurante involuzione democratica, di fronte alla quale però buona parte dell’informazione italiana — non per nulla al 73esimo posto per libertà di stampa, giusto tra Moldavia e Nicaragua — soprassiede.
Molto meglio raccontare con dovizia la reunion tra Al Bano e Romina: è più facile, è più redditizio.
Un tempo, quando c’era da demolire la Costituzione, si sceglieva agosto perchè la gente era al mare.
Oggi si sceglie Sanremo, perchè la gente al mare non è ma ha comunque il cervello in vacanza.
Così anche l’importanza da dare agli avvenimenti si capovolge: il problema non è che una ghenga arrivista — composta da nominati, eletta con legge incostituzionale — proceda come un bulldozer per trasformare il Senato in un dopolavoro inutile su cui spiaggiare consiglieri regionali spesso indagati e di colpo protetti da immunità , ma che l’opposizione alzi i toni.
Anomalia anche questa, del resto, se fino a ieri l’opposizione erano i Violante (di cui la veemenza è nota) e D’Alema (di cui il berlusconismo è noto).
Accusare l’opposizione di opporsi troppo è come rinfacciare a Tyson di aver picchiato troppo Donnie Long: magari era vero, ma Tyson faceva il pugile. Mica l’impiegato al catasto.
È tornata la Dc, una Dc 2.0 allegramente impreparata e spensieratamente autoritaria, garbata nei modi e carnivora nei contenuti.
Renzi sta a De Mita come Carlo Conti a Bongiorno, e guai a chi non si adegua alla melassa normalizzatrice e restauratrice.
Chi non ci sta — politici e intellettuali, giornalisti e cittadini — è un gufo. Un disfattista. Un eversivo da punire con l’espulsione dall’Aula, ma più che altro dall’informazione. Tipo i 5Stelle, “fascisti” per antonomasia .
Anche se hanno appena proposto una sorta di alleanza part-time a Syriza (noti fascisti) e Podemos (noti nazisti), esigendo che le Alba Dorata (noti democratici) girino al largo.
Anche se avrebbero interrotto l’ostruzionismo alla Camera se solo fosse stato accettato il referendum senza quorum, un’idea che un tempo pareva piacere anche al Pd.
Anche se a scazzottarsi sono stati quelli di Pd e Sel, e prima quelli di Ncd e Lega, e già che c’erano pare anche quelli di Forza Italia (si picchiavano tra loro: così, per ricordarsi di essere vivi).
La narrazione capovolta impone che sia “colpa dei grillini”. Sempre.
Il Pd ha picchiato Sel? “Colpa dei grillini”.
L’Italia è uscita dai Mondiali? “Colpa dei grillini”.
La carbonara è scotta? “Colpa dei grillini”.
Com’è bella questa informazione, e questa politica, tutta al contrario. Così bella che, se ti adegui a guardarla a rovescio, perfino l’anomalia odierna sembra quasi una nuova forma di democrazia.
Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 14th, 2015 Riccardo Fucile
FITTO ATTACCA E PREPARA L’ESORDIO DEI “RICOSTRUTTORI”…SILVIO ORDINA DI ISOLARLO: “E’ UN TRADITORE”
L’addio all’aula è l’ultimo guanto di sfida lanciato a Renzi, ma per Silvio Berlusconi diventa soprattutto la
via d’uscita che in poche ore gli consente di tenere unito il partito e il gruppo parlamentare in procinto di deflagrare.
Almeno per un pomeriggio, l’obiettivo è centrato.
«Ma ci minaccia sul serio di andare al voto? E pensa di spaventarci? Ben vengano le elezioni col Consultellum, contento lui…».
L’ex Cavaliere è galvanizzato dall’aria di scontro, quasi da campagna elettorale, quando il capogruppo Brunetta, la Bergamini, la Gelmini lo sentono in viva voce poco prima che si riunisca il gruppo alla Camera per decidere l’Aventino con gli altri partiti d’opposizione.
Col proporzionale, il ritorno al governo di larghe intese per via elettorale sarebbe a portata di mano, sogna l’ex premier.
Ha appena lasciato l’istituto di Cesano Boscone quando ordina la ritirata, dopo essersi accertato che il gruppo sia compatto.
Deborah Bergamini, in una telefonata privata al mattino, gli ha raccontato nei dettagli quanto avvenuto alle due di notte, il siparietto piuttosto teso con Matteo Renzi.
Col premier che le si avvicina ai piedi dei banchi forzisti e le chiede con tono ultimativo: «Pensate che sia disposto a gettare al vento otto mesi di lavoro sulle riforme? Questa è una legislatura costituente, se le riforme si fermano, non ha senso portarla avanti. Per me possiamo andare dritti al voto».
«Anche col Consultellum, col proporzionale puro?», lo provoca la portavoce di Berlusconi.
«Per me è perfetto – ribatte lui – la gente è dalla mia parte, le televisioni sono con me, i collegi ampi mi consentono di fare una buona campagna mediatica. Io sono pronto e state certi che vinco».
Se è una sfida, Berlusconi si dice pronto a raccoglierla. Ma prima di un ipotetico voto dovrà brigare per tenere unita Forza Italia.
In mattinata, Raffaele Fitto aveva lanciato un nuovo affondo nell’ennesima conferenza stampa alla Camera, sfidando il leader proprio sulla riforma costituzionale.
«Noi votiamo contro, Forza Italia che farà ? Esca dall’ambiguità », aveva incalzato l’eurodeputato.
Certo che la minaccia di sospensione o addirittura di espulsione rivolta a lui e ai suoi 38 sia un’arma spuntata («Non ci sono le condizioni tecnico-statutarie, ma nemmeno quelle politiche»).
Berlusconi viene informato, perde ancora una volta le staffe contro quello che bolla ormai come «il traditore ».
E da quel momento, dalla batteria di Palazzo Grazioli parte l’ordine di attacco a Fitto che tutti i dirigenti, i parlamentari e perfino i coordinatori regionali eseguono.
Quasi tutti sintetizzabili col commento della fedelissima del leader e amministratrice del partito, Maria Rosaria Rossi: «Se il tema è la volontà di intraprendere una scalata al potere, allora non sono tollerabili protagonismi personali che fanno male a Forza Italia e, come abbiamo già avuto modo di vedere, non portano alcuna fortuna».
Alla riunione di gruppo i fittiani si presentano.
Si oppone all’uscita dall’aula Saverio Romano, unico a presidiare poi i banchi. Tutti gli altri, compreso Daniele Capezzone, si dicono favorevoli alla linea ed escono. Perplessità vengono espresse da Stefania Prestigiacomo e da Mariastella Gelmini, che spiega: «Siamo passati dal sostegno alle riforme all’Aventino, è difficile da spiegare. Detto questo, ho parlato col presidente ed è favorevole all’abbandono dell’aula ».
Del resto, è la nuova strategia decisa da Berlusconi con Toti, Brunetta, Bergamini: far passare d’ora in poi ogni decisione ai voti nei gruppi, dove i fittiani sono minoranza.
E se non si adegueranno, saranno fuori.
Fitto non molla la presa e si prepara all’escalation con la manifestazione di sabato prossimo a Roma, in cui sarà presentato il «Manifesto dei #ricostruttori di Fi e del Paese» (in basso il logo).
Alle 18, i berlusconiani seguono i lavori dai video in Transatlantico.
Sul tabellone compare il numero dei votanti a ogni emendamento. Sestino Giacomoni, altro fedelissimo del capo, osserva e scuote la testa: «Con quella stessa soglia di 308 voti, sul rendiconto di bilancio, nel novembre 2011, Napolitano chiese a Berlusconi di dimettersi. Ora ci approvano una riforma costituzionale».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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