Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
“CI STRACCIAMO LE VESTI, MA NON ABBIAMO NEMMENO UNA LEGGE ORGANICA SULL’ASILO”… “LA UE DI OGGI ASSOMIGLIA AI PAESI CHE NEL 1940 RESPINGEVANO LE NAVI CON GLI EBREI IN FUGA”
La questione profughi risveglia l’Europa dei muri. Quella che doveva aver finito di esistere
con la caduta di quello di Berlino, nel 1989.
“Sono una tecnologia vecchia, per cercare di tenere lontano da noi i problemi”, commenta Maurizio Ambrosini, sociologo dell’università Statale di Milano e autore, tra gli altri, di “Non passa lo straniero?” (Editrice Cittadella) un libro che racconta la guerra in corso, tra le politiche d’integrazione e di chiusura.
I muri si alzano per impedire che i profughi arrivino al cuore dell’Europa. Ma sono efficaci?
Servono solo a porsi fuori dai confini segnati dalle Convenzioni internazionali, secondo il professor Ambrosini. Anche l’Italia provò ad innalzare una barriera invisibile con Roberto Maroni ministro dell’Interno: respinse 900 richiedenti asilo verso la Libia, nel 2010.
“Si aprì un conflitto rilevante con le Nazioni Unite, per la prima volta. Mi chiedo se ne valga la pena percorrere quella strada, che ci consegnerebbe allo status di Stato canaglia”.
170 mila sbarchi nel 2014, nel 2015 Frontex prevede lo stesso trend. Lo scorso anno 8mila transiti lungo la rotta balcanica tra gennaio e luglio, quest’anno nello stesso periodo 102mila. Sono numeri da emergenza oppure no?
Se collochiamo i numeri in un contesto globale diventano meno allarmanti. L’Unhcr stimava in 59,5 milioni le persone con necessità di protezione nel mondo, il dato più alto da quando effettua il suo rapporto. Ma solo il 14% si dirige ai Paesi sviluppati, l’86% va verso altri Paesi del Sud del mondo. Noi ci stracciamo le vesti per qualche migliaio di rifugiati quando in Libano ci sono 232 rifugiati ogni mille abitanti. Dei 3,9 milioni di siriani in uscita come rifugiati, solo pochi e benestanti raggiungono l’Europa. E l’Europa vuole difendersi sempre di più da questi arrivi.
Ma la globalità del fenomeno non giustifica chi la chiama “emergenza”?
Parlare di emergenza è uno specchio della nostra impreparazione e delle nostre fragilità . Gli sbarchi a Lampedusa c’erano quando il governo Berlusconi, con Maroni, smantellò i centri. L’Italia non ha nemmeno una legge organica sull’asilo politico. Noi e gli altri Paesi dell’Europa meridionale abbiamo sempre pensato che il problema non ci riguardasse. Quando fu discusso il Regolamento Dublino (che stabilisce oggi che un profugo deve essere accolto nel primo Paese dove chiede asilo, ndr) avevamo un atteggiamento passivo e disinteressato e ora cerchiamo di forzarlo comportandoci come Paesi di transito. Certo che poi sul piano della politica internazionale l’emergenza esiste, con 15 guerre nel mondo. Ma la risposta non sono i muri innalzati per difenderci dai nostri stessi obblighi umanitari. L’Europa di oggi assomiglia sinistramente ai Paesi che alla vigilia delle Seconda guerra mondiale respingevano le navi con gli ebrei in fuga. Con le stesse motivazioni: siamo già in crisi noi, siamo in troppi, non si integrano. La storia non è magistra vitae e ogni tanto tende sciaguratamente a ripetersi.
Quali sono le ragioni principali di quello che appare un improvviso spostamento di massa di migliaia di persone? Penso a quello che accade lungo la rotta dei Balcani.
In gran parte lo spostamento è percettivo. Bulgaria e Ungheria è almeno da due anni che si lamentano per l’aumento dei richiedenti asilo: il fenomeno è già datato. Uno dei pochi aspetti positivi di questa situazione è che si sta sprovincializzando l’ansietà . Ci accorgiamo che non siamo solo noi a sentirci accerchiati: ci sono Paesi più poveri e meno attrezzati che si comportano allo stesso modo, cercando di far transitare verso altri Paesi. Tutto questo prova che il Trattato di Dublino non tiene, soprattutto perchè tratta i rifugiati come pacchi, come delle vite passive di cui qualcuno si deve occupare. Le convenzioni negano le aspirazioni, i legami, i desideri dei rifugiati. E questo è disumano, è un tradimento delle Convenzioni sui diritti umani che abbiamo firmato.
Esiste però una soglia che fa collassare i sistemi di accoglienza?
Se ne discute molto, ma ci sono Paesi che raggiungono tassi molto elevati, come la Svizzera (il 20%) o altri dell’area del Golfo in cui si arriva anche al 70%.
Ma in questo caso se li scelgono gli immigrati.
In minima parte. Tutti i Paesi democratici fanno regolarizzazioni, applicano norme sul ricongiungimento familiare, più o meno volentieri accolgono i rifugiati. Non è una questione di scelta, quanto di volontà di accogliere. Se si prendesse un campione di cittadini europei per chiedere loro quale sia la soglia di immigrati tollerabile direbbero probabilmente zero. Ma quello che capita è che nelle famiglie “normali” si assumono badanti straniere per curare i propri anziani. E in quel caso non ci sono problemi di soglia di tolleranza o di status legale. Anzi. Con le sette leggi sanatoria fatte nel nostro Paese il mercato ha obbligato a ridefinire il volume dell’immigrazione tollerata. Dal 2008 al 2013 gli immigrati regolari assunti in Italia sono aumentati di 800mila unità , seppur il dato si tenga nascosto. Questo vuol dire che c’è un mercato di lavori poveri che si nutre del lavoro degli immigrati.
Tra le tante ipotesi al vaglio dell’Unione europea, dal rafforzamento delle missioni di salvataggio in mare, fino alla redistribuzione delle quote tra Stati membri Ue, quale ha più senso?
Salvataggio, prima accoglienza e integrazione sono tre fasi distinte. Sul salvataggio c’è una grande ipocrisia di fondo: siccome non è facile dire che non si accolgono i profughi in fuga dalla guerra si dice che spariamo sui barconi per fermare i trafficanti di morte. In realtà ci sarebbe un altro modo per tagliare loro le unghie: garantire regolari traghetti verso l’Europa, oppure voli di linea. Perchè non lo si fa? Perchè di fondo non si vogliono accogliere i rifugiati. Stesso motivo per il quale non si fanno progetti di resettlemement (collocazioni di profughi in Paesi terzi, disposti ad accoglierli, ndr), nonostante ci siano nell’Agenda europea sull’immigrazione. Si ha paura del voto, si ha paura delle reazioni che ha l’opinione pubblica.
Come si esce da impasse dell’Europa, incapace di trovare soluzioni unanimi al problema?
Bisognerebbe fare dell’asilo una questione comunitaria, come le politiche agricole. Servirebbe una cassa comune attraverso cui sovvenzionare gli Stati in proporzione ai numeri effettivi delle persone accolte, tenendo però conto delle volontà dei migranti. Sono i legami sociali che già hanno infatti la principale agenzia di integrazione sociale. La sfida si può vincere, come già successo in passato. All’epoca delle guerre balcaniche, l’Italia ha accolto 77mila rifugiati provenienti dall’Est e oggi nessuno se ne ricorda più. Questa per un sociologo è la miglior conferma che non sono più vissuti come un problema. Bisognerebbe dire che l’alternativa all’accoglienza è l’abolizione dell’articolo 10 della Costituzione (“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”, ndr) e denunciare le Convenzioni internazionali. O si accoglie o non si accoglie, non c’è un’alternativa. Ma prima che arrivassero gli stranieri non è che ci fossero più risorse per anziani e disoccupati. Quella è facile retorica.
Lorenzo Bagnoli
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
IL TEORICO DELLA “SOCIETA LIQUIDA”: “LE TRAGEDIE SONO IL SEGNALE DI UNA STANCHEZZA MORALE, MA NON RASSEGNIAMOCI AI MURI”
«Un giorno Lampedusa, un altro Calais, l’altro ancora la Macedonia. Ieri l’Austria, oggi la Libia. Che “notizie” ci attendono domani? Ogni giorno incombe una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di stanchezza della catastrofe». Zygmunt Bauman, filosofo polacco trapiantato in Inghilterra, è uno dei più grandi intellettuali viventi.
Anche lui è stato un profugo, dopo esser scampato alla ferocia nazista rifugiandosi in Unione Sovietica.
Ma Zygmunt Bauman è anche uno dei pochi pensatori che ha deciso di esporsi apertamente di fronte al dramma dei migranti.
Mentre l’Europa cerca disperatamente una voce comune che oscuri le parole vacue e quelle infette degli xenofobi.
Signor Bauman, duecento morti al largo della Libia. Due giorni fa altri cento cadaveri ritrovati ammassati in un camion in Austria. Il dramma scava sempre più il cuore del Vecchio continente. E noi? Cosa facciamo?
«E chissà quanti altri ce ne saranno nelle prossime ore. Oramai sono milioni i profughi che cercano la salvezza da atroci guerre, massacri interreligiosi, fame… La guerra civile in Siria ha innescato un esodo biblico. Scappano gli afgani, gli eritrei. Mentre nel 2014, riporta l’Onu, erano circa 219mila i rifugiati e migranti che hanno attraversato il Mar Mediterraneo, e di questi 3.500 sono morti. Un anno prima questa cifra era molto più bassa: circa 60mila. Qui in Inghilterra ho letto molte reazioni di personaggi pubblici di fronte a una simile emergenza. Tutte a favore di “quote migratorie” più rigide, in ogni caso. Mentre chi come Stephen Hale dell’associazione British Refugee Action invoca una riforma del sistema di asilo basata sugli esseri umani, e non sulle statistiche, è rimasto solo una voce solitaria».
Ma l’Europa cosa può fare per risolvere questo disastro umanitario?
«L’antropologo Michel Agier ha stimato circa un miliardo di sfollati nei prossimi quarant’anni: “Dopo la globalizzazione di capitali, beni e immagini, ora è arrivato il tempo della globalizzazione dell’umanità ”. Ma i profughi non hanno un loro luogo nel mondo comune. Il loro unico posto diventa un “non luogo”, che può essere la stazione di Roma e Milano o i parchi di Belgrado. Ritrovarsi nel proprio quartiere simili “non luoghi”, e non solo guardarli in tv, può rappresentare uno shock. E così oggi la globalizzazione irrompe materialmente nelle nostre strade, con tutti i suoi effetti collaterali. Ma cercare di allontanare una catastrofe globale con una recinzione è come cercare di schivare la bomba atomica in cantina ».
Eppure in Europa stanno tornando i muri, figli di uno spettro xenofobo che purtroppo sta dilagando.
«Sa chi mi ricordano quelli che li erigono? Il filosofo greco Diogene, che, mentre i suoi vicini si preparavano a combattere contro Alessandro Magno, lui faceva rotolare la botte in cui viveva su e giù per le strade di Sinope dicendo di non voler essere l’unico a non far niente».
È vero, tuttavia, che oggi il flusso migratorio verso l’Europa è di dimensioni mai viste. Qualche timore può essere giustificato, non trova?
«Ma oramai il nostro mondo è multiculturale, forse irreversibilmente, a causa di un’abnorme migrazione di idee, valori e credenze. E comunque la separazione fisica non assicura quella spirituale, come ha scritto Ulrich Beck. Lo “straniero” è per definizione un soggetto poco “familiare”, colpevole fino a prova contraria e dunque per alcuni può rappresentare una minaccia. Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società , i migranti diventano “ walking dystopias ”, distopie che camminano. Ma in un’era di totale incertezza esistenziale, dove la vita è sempre più precaria, questa non è l’unica ragione delle paure che scatena la vista di ondate di sfollati fuori controllo. Vengono percepiti come “messaggeri di cattive notizie”, come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare».
E cioè?
«Quelle forze lontane, oscure e distruttive del mondo che possono interferire nelle nostre vite. E le “vittime collaterali” di queste forze, i poveri sfollati in fuga, vengono percepiti dalla nostra società come gli alfieri di tali forze. Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell’istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società . E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l’emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in “stanze insonorizzate” non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi».
E allora come risolvere questa immane tragedia?
«Sicuramente non con soluzioni miopi e a breve termine, utili solo a provocare ulteriori tensioni esplosive. I problemi globali si risolvono con soluzioni globali. Scaricare il problema sul vicino non servirà a niente. La vera cura va oltre il singolo paese, per quanto grande e potente che sia. E va oltre anche una folta assemblea di nazioni come l’Unione europea. Bisogna cambiare mentalità : l’unico modo per uscirne è rinnegare con forza le viscide sirene della separazione, smantellare le reti dei campi per i “richiedenti asilo” e far sì che tutte le differenze, le disuguaglianze e questo alienamento autoimposto tra noi e i migranti si avvicinino, si concentrino in un contatto giornaliero e sempre più profondo. Con la speranza che tutto questo provochi una fusione di orizzonti, invece di una fissione sempre più esasperata».
Non teme che questa soluzione possa non piacere a una buona parte della popolazione europea?
«Lo so, una rivoluzione simile presuppone tanti anni di instabilità e asperità . Anzi, in uno stadio iniziale, potrà scatenare altre paure e tensioni. Ma, sinceramente, credo che non ci siano alternative più facili e meno rischiose, e nemmeno soluzioni più drastiche a questo problema. L’umanità è in crisi. E l’unica via di uscita da questa crisi catastrofica sarà una nuova solidarietà tra gli umani».
Antonella Gerrera
(da “La Repubblica“)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
“LEADERSHIP INEVITABILE MA FINORA USATA MALISSIMO”
Professor Massimo Cacciari, Angela Merkel è sempre più leader dell’Ue.
«La notizia sarebbe il contrario. È il leader del Paese leader dell’Ue: se non a lei, a chi spetta quel ruolo?»
Certo è che le sue ultime uscite in tema di immigrazione segnano una svolta…
«Era ora! Finalmente anche i tedeschi si stanno svegliando!».
Quella indicata da Berlino è la strada giusta?
«Anche la Merkel si sta rendendo conto che la questione epocale dell’immigrazione non può più essere affrontata in un’ottica di pura emergenza. Bisogna cambiare, finalmente l’hanno capito pure loro».
Quindi la cancelliera sta usando la sua leadership nel modo migliore?
«Mah, su questo andrei molto cauto. Finora la Germania ha usato malissimo il suo ruolo di guida dell’Unione Europea. Guardiamo alla crisi della Grecia».
Dicono che però alla fine sia stato evitato il peggio.
«La crisi greca è stata gestita in modo pessimo».
Perchè?
«Perchè bisognava intervenire subito. Se lo avessero fatto in tempo, tutto si sarebbe risolto con una crisetta. E invece hanno lasciato che la questione si ingigantisse. Vorrei ricordare che il peso della crisi greca per l’Europa è di dieci volte inferiore a quello della Sicilia per l’Italia».
Comunque sembra che gli altri Paesi europei stiano riconoscendo con meno fatica questo ruolo di leader a Berlino.
«Ma perchè non ci sono alternative. Volente o nolente la leadership dell’Europa è della Germania. È determinante».
Questo però non fa altro che alimentare i sentimenti anti-tedeschi di chi non vuole un’Europa germanocentrica. Lo spettro dei populismi si ingigantisce.
«Ho sempre sostenuto che queste posizione anti-tedesche sono totalmente ridicole. Critiche senza senso».
L’egemonia tedesca non può essere messa in discussione?
«Ma la Germania questa posizione di leadership se l’è conquistata e meritata. Le spetta. Il problema semmai è un altro»
Quale?
«Che questa leadership viene usata malissimo».
Dalla Merkel?
«Avrebbe potuto avere un ruolo di guida politica e culturale, non solo economica. E invece non è stato così».
Sull’immigrazione, però, qualche spiraglio si vede.
«E meno male. Come dicevo prima, forse ora si stanno svegliando».
Gli altri Paesi, Francia in testa, devono quindi rassegnarsi a un ruolo di secondo piano?
«Ma la Francia dove vuole andare? La Francia è un malato, esattamente come noi. Non può pretendere la leadership, non è in grado».
A proposito, l’Italia di Renzi che ruolo si sta ritagliando?
«Il solito ruolo marginale. In questo, devo ammetterlo, ha ragione D’Alema (che ha parlato di subalternità del governo italiano ai conservatori tedeschi, ndr). Siamo destinati a questa posizione di marginalità ».
Marco Bresolin
(da “La Stampa”)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
LA RESCISSIONE DEL CONTRATTO CON IL GRUPPO MAURI SPAGNOL SI RIFLETTE SULLE PERDITE DELLA CASALEGGIO ASSOCIATI…IL 15% DELLE QUOTE ORA FANNO CAPO A MAIOCCHI E BENZI
Il “divorzio” da Chiarelettere è costato caro a Gianroberto Casaleggio.
La società di consulenza del cofondatore del MoVimento 5 Stelle, che cura tra l’altro il blog di Beppe Grillo, ha infatti chiuso il bilancio 2014 con una perdita di 152mila euro contro l’utile di 255mila messo a segno l’anno prima.
Quando si è interrotto il contratto con il gruppo editorale Mauri Spagnol, per il quale la Casaleggio associati seguiva la comunicazione online oltre a gestire il sito cadoinpiedi.it, nato come “comunità degli autori di Chiarelettere” (che è anche tra gli azionisti de Il Fatto Quotidiano).
Di conseguenza, stando al bilancio depositato pochi giorni fa, i ricavi ottenuti dalle attività di consulenza strategica e dall’editoria digitale sono scesi del 25%, da oltre 2 milioni di euro a 1,5 milioni.
Nessun dividendo, dunque, per Casaleggio e il figlio Davide, che hanno entrambi il 30% e nel 2014 si erano spartiti con gli altri soci Luca Eleuteri (che è uno dei fondatori e ha il 20% delle quote) e Marco Bucchich (a cui all’epoca faceva capo un altro 20%) una cedola da 245mila euro.
La perdita della società è stata coperta utilizzando 4.237 euro di utili portati a nuovo e 147mila euro di riserva straordinaria.
Riserva che è stata costituita ad hoc nel corso dell’esercizio. Durante l’anno, poi, i debiti sono saliti da 376mila a 406.545 euro e gli oneri finanziari sono passati da 1 milione a 2,2 milioni di euro.
Tra la chiusura del bilancio 2014 e il suo deposito, la Casaleggio associati ha visto poi un riassetto dell’azionariato: in maggio accanto ai Casaleggio, a Eleuteri e a Bucchich (sceso al 5%), nella compagine sono entrati con il 7,5% ciascuno Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. Quest’ultimo, progettista software, è dipendente della Casaleggio associati dal 2006.
Benzi, esperto di consulenza web, ha invece lavorato con il cofondatore dell’M5S già ai tempi di Webegg (la società ex Olivetti di cui Casaleggio è stato amministratore delegato fino al 2000) e collabora con Casaleggio associati dal 2004.
L’anno successivo ha fondato a Milano il primo Meetup degli amici di Beppe Grillo. Nel 2012, poi, si è candidato alle Parlamentarie del MoVimento nella circoscrizione di Voghera.
Non senza polemiche per il rischio di conflitto di interessi.
Alle elezioni 2013 era quarto nella lista della circoscrizione Lombardia 3 per la Camera, ma non è stato eletto.
Chiara Brusini
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
LONTANISSIMA DAI FASTI DI BOLOGNA, COMPLICE UN BUDGET DI SOLI 500.000 EURO
Stavolta non ci potrà essere nessuna accusa di grandeur. 
La festa nazionale dell’Unità di Milano, infatti, si candida a passare alla storia come la più piccola degli ultimi decenni. Più piccola di molte festine di quartiere di Bologna.
Il colpo d’occhio già la dice lunga: gli stand bianchi si accavallano con ampi spazi di verde, nei giardini Montanelli a due passi da porta Venezia.
Sono una trentina in tutto, alcuni piccolissimi.
Basta dare alcuni numeri: c’è un solo ristorante, che si chiama “Il sapore dell’Unità ”, più una quindicina di postazioni di “street food”, dalla piadina alla focaccia siciliana alla puccia salentina.
Tavolini in mezzo al vialetto, uno stand del folletto Vorverk, un altro dello spritz Aperol. La bella paninoteca gestita dai circoli, “Bella ciao Milano”.
La sala dibattiti centrale conta 96 poltroncine, ma ce n’è anche una più piccola. La libreria sembra quella di un mercatino rionale, con poche decine di volumi.
In Emilia o in Toscana, una festa così la trovi in un paesotto di medie dimensioni. O in un quartiere.
Il confronto con la festa 2014, al Parco Nord di Bologna, dove Renzi ospitò in pompa magna alcuni leader del socialismo europeo in uno dei grandi ristorante da centinaia di coperti, è impressionante.
“Quella dimensione non la trovi fuori dal triangolo emiliano Bologna-Modena-Reggio”, sospira un dirigente del Pd milanese.
“Noi eravamo in ballottaggio tra piazza Gae Aulenti (nella nuova area dei grattaccieli, ndr) e questi giardini, e la dimensione non sarebbe cambiata. Si è deciso di puntare su uno spazio in centro città , uno dei luoghi simboli della Milano che sta cambiando. Alla fine siamo venuti qui perchè a piazza Aulenti c’erano vincoli per montare le strutture. Ma anche questo parco non tollerava una occupazione più estesa”.
“La logistica si è adattata alla realtà di questo parco”, mette in chiaro Paolo Razzano, giovanissimo responsabile organizzativo del Pd milanese.
Una scelta precisa, dunque. Legata alla concomitanza con Expo, e alla sfida delle amministrative 2016, che avrà proprio a Milano il suo epicentro.
Anche il budget si è ridotto, circa 500mila euro, ha spiegato il tesoriere Pd Francesco Bonifazi, quasi tutti a carico del Pd nazionale.
Come a dire che la festa nazionale non è più, come un tempo, una occasione per fare cassa, per mettere denari nelle casse del partito.
Ma un evento con il suo budget, che mira a chiudere in pari. E’ sparito dai radar anche lo storico organizzatore delle feste Lino Paganelli, uno dei primi dirigenti della Ditta a dichiararsi renziano.
Al suo posto due funzionari, tra cui Barbara Ceruleo, responsabile eventi del Pd. Il passaggio di consegne conferma dunque il cambio di impostazione: la festa perde la sua specificità e diventa un evento. Come altri.
Non è la prima volta che la festa nazionale si restringe per raggiungere alcuni luoghi simbolo dei centri cittadini. E’ già successo a partire dal 2008 a Firenze, e poi l’anno dopo a Genova.
Fu proprio Lino Paganelli a spostare la festa lontano dalle periferie emiliane di Bologna, Modena e Reggio, per tornare nei centri storici.
Al posto dei tortellini e dalle nonne emiliane ai fornelli spuntarono i ristoranti etnici, dal Brasile all’Argentina, gestiti direttamente da privati che facevano una convenzione con il Pd.
Quest’anno non ci sono più neppure quelli. O, meglio: si sono ristretti a street food, piadina, focaccia, gnocco fritto. Una scelta fortemente voluta proprio da Bonifazi.
Anche il confronto con le altre feste fuori dal triangolo emiliano, però, fa impressione.
Al porto antico di Genova, ad esempio, la festa si estendeva per un ampio tratto di lungomare. Quest’anno, almeno nei primi giorni, il volume d’affari dei punti ristoro non sembra entusiasmante.
“Non passa tanta gente”, è uno dei leit motiv degli esercenti. Certo, la festa è appena partita e i conti si faranno alla fine. E, come è noto, i milanesi nei fine settimana vanno fuori città .
“Soprattutto con un tempo del genere”, sospira uno dei 180 volontari (molti giovani) che ogni giorno lavora tra gli stand. Finora i dibattiti sono andati bene: quello con D’Alema soprattutto.
Ma anche il duello Camusso-Poletti, con una platea divisa tra le opposte fazioni, e qualche fischio per il ministro da parte dei fans della “Susanna”.
I più in forma sono senza dubbio i ragazzi del chiringuito, che qui si chiama “Chiringufo”, ed è pieno di manifesti in cui campeggia lui, il più citato dal premier segretario, il “gufo” che tifa contro il successo del governo. I cocktail hanno come titoli i tormentoni di questi ultimi anni: da “Staisereno” a “Varoufakis”, da “Ladylike” (dedicato ad Alessandra Moretti) a “Fassina chi?” fino a “Il patto del Nazareno” e “Pisapia ripensaci”.
“Una goliardata, un modo per ridere sopra a questa politica e anche al nostro partito”, spiega l’inventore del calembour Giacomo Marossi, che coordina i giovani dem a Milano.
Lui simpatizza per la minoranza, e spiega: “Ho fatto questo manifesto per dire che i gufi sono anche dentro questa festa e questo partito e che va bene così. Obama sa ridere su se stesso sui social, nel Pd invece ci si prende tutti troppo sul serio…anche quando non sarebbe necessario”.
Dal Chiringufo, già dalle 20, parte musica a palla. Ai big in visita, la lista dei cocktail strappa sempre un sorriso: “Io bevo il ‘Pisapia ripensaci’, non ho dubbi”, ha detto Graziano Delrio. Di questi tempi lo “stai sereno” sembrava fuori luogo.
La vera novità di questa edizione 2015 è il ritorno del rosso e del logo L’Unità , che campeggia ovunque insieme allo slogan “C’è chi dice si”.
Dopo gli anni della festa “democratica”, dunque, l’Unità è tornata protagonista della sua festa. Non a caso, lo stand del giornale fondato da Gramsci e del suo sito internet è uno dei più grandi e curati.
Più ancora di quelli dedicati a deputati e senatori Pd. Quello della Cgil, invece, è piccolissimo. C’è solo un grande striscione “Camera del Lavoro metropolitana”.
Sull’unico tavolino, due pacchi di volantini ancora chiusi nel cellophane. Titolo: “Rivolgiti a noi”. Ma lo stanzino è deserto. Non ci sono neppure i volontari.
(da “Huffingtonpost“)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
SI MOLTIPLICANO I CONCORSI A PREMI CHE METTONO IN PALIO CONTRATTI A TEMPO, PAGA LA DEA BENDATA
I curricula, la gavetta, il merito, la fatica sul campo. Al netto di raccomandazioni e scorciatoie poco limpide, è questa la strada che porta alla conquista di un posto di lavoro.
O almeno, così ci hanno sempre raccontato.
In realtà , in tempi di crisi occupazionale, quando trovare un impiego sembra diventare un’impresa, a volte può essere più utile affidarsi alla fortuna che impegnarsi a distribuire curricula.
Ed ecco che la conquista di un posto di lavoro diventa letteralmente un terno al lotto: c’è chi ce l’ha fatta grazie a una tombola, ai punti del supermercato o alla lotteria di Natale.
E se la fortuna non basta, le vie alternative per trovare un’occupazione non mancano.
Per avere un contratto, c’è chi ha partecipato a un concorso di bellezza, ha passato una serata in discoteca o ha fatto il pieno di like su Facebook.
L’ultimo caso balzato agli onori della cronaca, nell’agosto 2015, è arrivato dalla provincia di Piacenza.
A Pontedellolio, in occasione della festa patronale di San Rocco, il salumificio San Bono ha organizzato una tombola. Primo premio: un posto di lavoro. Sono state vendute ben 1500 cartelle, al prezzo di due euro ciascuna.
Ironia della sorte, la vincitrice aveva già un impiego, ma lo sponsor le ha permesso di scegliere se girare l’offerta a un parente o convertire la vincita in una fornitura di salumi per tutto l’anno.
Ma prima di Piacenza, la dea bendata del lavoro ha fatto tappa in diverse catene di supermercati italiani.
Ad aprire le danze sono stati, nel 2009, i centri commerciali Tigros, in provincia di Varese. Con almeno trenta euro di spesa, i clienti ottenevano un tagliando che poteva essere sorteggiato durante un’estrazione finale.
Dieci persone hanno vinto un contratto a tempo determinato all’interno del supermercato.
Pochi mesi dopo, ecco ripetersi l’iniziativa in Sardegna. A lanciare il concorso Vinci il tuo posto di lavoro è stato il Consorzio distribuzione e servizi Cs&D, che gestiva supermercati Sigma e Despar.
Alla direzione sono arrivate oltre 180mila cartoline, pari a circa un decimo della popolazione sarda: in palio erano 48 contratti della durata di un anno.
Infine, lo scenario si è replicato in provincia di Roma nel 2012. Nei supermercati Oneprice, lo schema è stato lo stesso: fai la spesa, compila una cartolina e, se la fortuna ti bacia, vinci un contratto a tempo determinato.
La riffa del lavoro, in realtà , non è un’esclusiva italiana.
A Barcellona, nel 2013, la società KitKat Krisis ha organizzato una lotteria di Natale dal titolo emblematico: “Il sogno della mia vita”.
Oltre ad automobili ed elettrodomestici, la competizione prevedeva premi a dir poco insoliti: ai vincitori, l’agenzia si offriva di pagare mutuo, affitto o bollette di luce e gas per tre anni.
Ma il pezzo forte della riffa era, manco a dirlo, un posto di lavoro.
L’impiego era previsto presso la ditta di salumi Enrique Tomà¡s e consisteva in un contratto a tempo indeterminato, sebbene preceduto da due mesi di prova.
Ma se manca la fortuna, basta puntare sulla propria bellezza. E non si parla di modelle o showgirl, ma di semplici cameriere.
Nel 2010, un pub della provincia di Vicenza ha indetto un concorso di bellezza: le partecipanti, tra i 18 e 30 anni, dovevano sfilare in abito elegante, in divisa e in costume da bagno.
Una giuria di clienti abituali avrebbe incoronato la ragazza più bella, confederendole un posto come cameriera. Ma il concorso è stato accusato da più parti di offendere la dignità della donna e il pub, infine, ha rinunciato alla sfilata.
Esito diverso, invece, a Cantù, in provincia di Como: qui, nel 2014, il bar Caffecchio ha organizzato un concorso di bellezza. Alla vincitrice è stato offerto un contratto a chiamata per lavorare come cameriera nel locale.
E sempre da quella che una volta era la ricca Brianza, arriva il “party dei disoccupati”. L’iniziativa è partita nel settembre 2014 dal Crystal Cafè, ancora a Cantù, per poi ripetersi in altri locali della zona.
Ma cosa avevano da festeggiare questi disoccupati? Poco o nulla, probabilmente, ma la serata è stata organizzata con lo scopo di fornire opportunità di lavoro agli avventori. E anche di attirare clienti, ovviamente.
Nel locale sono stati allestiti stand di agenzie interinali e aziende in cerca di personale, mentre gli schermi presenti in sala riportavano diverse offerte di lavoro.
Infine, i proprietari del locale hanno raccolto curricula e scelto un nuovo barista, che ha firmato un contratto part time. Insomma, come cercare lavoro bevendo un cocktail.
Una versione simile di questa iniziativa si è tenuta anche alla più blasonata discoteca Hollywood di Milano, sotto il nome di “party cerco e offro”.
Dagli happy hour ai like di Facebook il passo è breve.
La compagnia aerea Swiss international air lines, nel 2014, ha indetto un concorso per assegnare un contratto di lavoro di sei mesi. Il vincitore sarebbe diventato lo “Swiss explorer”: avrebbe dovuto filmare, documentare, twittare, fotografare le destinazioni della compagnia e testare offerte e servizi.
I candidati hanno affrontato un processo di selezione dove alle scelte della società si affiancava il giudizio del popolo di internet: i video degli aspiranti esploratori sono stati caricati sul web e votati attraverso un sito dedicato o i social network. Insomma, che vinca il migliore.
O il più social.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
GOVERNO PREOCCUPATO: ZERO OCCUPATI IN PIU’…E BUONA PARTE E’ ANDATA A CHI AVREBBE ASSUNTO COMUNQUE
Il 15 novembre scorso, tre mesi prima che Matteo Renzi lo nominasse alla guida dell’Inps, Tito
Boeri mise a verbale: “Il principio delle tutele crescenti rischia di incrociarsi con la grandissima decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato prevista dalla legge di Stabilita, a seguito del decreto Poletti (quello che da aprile 2014 ha reso piuÌ€ facile il ricorso ai contratti a tempo determinato, ndr). Il rischio sottolineava Boeri eÌ€ che si crei una “contraddizione con l’idea di evitare discontinuitaÌ€. Sono incongruenze che vanno affrontate”.
Come? “Prevedendo una piuÌ€ ripida crescita delle tutele o una decontribuzione meno forte”
NeÌ l’una neÌ l’altra cosa eÌ€ avvenuta. E il 16 marzo Boeri festeggioÌ€ le “76 mila imprese” che avevano richiesto la decontribuzione a febbraio.
Da settimane, i tecnici del ministero dell’Economia studiano possibili vie d’uscita a una misura gli incentivi per chi assume quest’anno con contratti stabili (fino 8.060 euro l’anno, per tre anni) che si sta rivelando un boomerang per le casse dello Stato (Come rivelato ieri dal Fatto, si rischia un ammanco da almeno 2 miliardi), e non riesce a smuovere l’occupazione.
La questione è nota anche a Palazzo Chigi, dove gli stessi consulenti che hanno redatto i decreti attuativi del Jobs act sono contrari a rinnovarli.
Il motivo eÌ€ semplice: nonostante le risorse stanziate — 11,7 miliardi — non stanno funzionando.
Stando ai dati Inps, a giugno scorso i lavoratori assunti con la decontribuzione erano 674.874.
Secondo l’Istat, nello stesso mese l’occupazione era ferma ai livelli di giugno 2014 (ma con 80 mila disoccupati in piuÌ€).
“Su questo punto — spiega Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro — gli incentivi non hanno funzionato e il rischio eÌ€ che stiano andando a imprese che avrebbero assunto comunque. Da soli, senza una vera ripresa, non hanno effetto sul numero di occupati”.
C’eÌ€ poi un altro aspetto che dovrebbe preoccupare: “Sembra che questa norma non stia contribuendo a far emergere il lavoro nero”, che secondo la Fondazione riguarda 2,1 milioni di persone.
E questo, “nonostante una parte sia finita a imprenditori che l’hanno sfruttata per regolarizzare i lavoratori”
L’unico aspetto positivo riguarda le stabilizzazioni di contratti a tempo determinato: 170 mila a giugno, secondo l’Inps.
E a fine anno potrebbero arrivare a mezzo milione. Secondo il ministero del Lavoro, però, a luglio le stabilizzazioni erano 210 mila (in media 30 mila al mese).
Se il trend venisse confermato, non si andrebbe oltre i 360 mila. Peraltro, per De Luca, l’effetto trasformazione dei contratti a termine tenderaÌ€ a diminuire, percheÌ “una fetta corposa eÌ€ composta da stagionali puri, e quindi non eÌ€ convertibile”.
Le buone notizie finiscono qui. Analizzando i dati del dicastero guidato da Giuliano Poletti, infatti, emerge che a maggio i nuovi contratti stabili, al netto delle cessazioni, erano solo 217.
A giugno sono calati (mentre sono esplosi quelli precari di oltre 180 mila contratti) e a luglio il saldo netto si è fermato a 47.
“Per noi conta che ogni mese ci sia un aumento dei contratti a tempo indeterminato”, ha spiegato Poletti. Ma da aprile questo non avviene piuÌ€, e da maggio ce ne sono 9 mila in meno.
“Quel che eÌ€ certo — spiegano fonti del Tesoro — eÌ€ che il premier non puoÌ€ permettersi di non prorogarli del tutto. Serve una soluzione che non sembri una totale retromarcia”.
Carlo Di Foggia
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
GLI INTELLETTUALI PERPLESSI SULLA SOLUZIONE ADOTTATA PER LA CAPITALE
A distanza di otto mesi dall’irruzione di Mafia Capitale il governo ha dunque fatto la prima mossa, incaricando il prefetto di Roma di vigilare sulla correttezza amministrativa degli atti di alcuni Dipartimenti del Campidoglio e – sempre al prefetto Gabrielli – spetterà di coordinare (sul modello Expo), gli interventi per il Giubileo: due decisioni assunte dal presidente del Consiglio senza parlarsi col sindaco di Roma, col quale non interloquisce da quasi un anno.
Con una città così in crisi, è mai possibile che il capo del governo e il sindaco della capitale d’Italia non si parlino?
Davanti alle cure omeopatiche messe in atto da governo e dal Comune è forse emerso che al Campidoglio non hanno un’idea di città e a palazzo Chigi non hanno un’idea di Capitale?
E soprattutto: basterà la sia pur blanda cura prefettizia per far ripartire Roma?
Alberto Asor Rosa, uno degli ultimi autentici intellettuali di sinistra, romano, non sembra aver dubbi: «Non entro nel merito dei singoli provvedimenti, anche se per la loro singolarità , appaiono fuori misura. Con lo spossessamento di alcuni poteri attribuiti ad un sindaco eletto, si profila una diarchia che non ha precedenti in tutta la storia unitaria e che difficilmente risolverà i problemi della città . Dopo la catastrofica amministrazione Alemanno, risanare Roma è diventato ancora più difficile: servirebbe un lungo periodo di buon governo, sostenuto da una solidarietà nazionale».
E il consolato non convince neppure un intellettuale di diverso orientamento, come Alessandro Campi, direttore della Rivista di politica: «È un po’ un pasticcio, perchè è vero che i poteri del prefetto sono limitati, ma la diarchia di fatto è inevitabile perchè sarà quasi fisiologico per Marino interpellare Gabrielli su questioni che vanno oltre il controllo formale degli atti».
E d’alta parte è utopia immaginare che Roma possa rinascere a dispetto di un governo ostile.
Il professor Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, racconta un episodio esemplare, che risale a 39 anni fa, quando Giulio Andreotti chiese ad alcuni intellettuali cattolici di candidarsi nelle liste della Dc per le comunali romane: «Io non accettai la proposta perchè la posizione in lista, per come è fatta Roma, non ci garantiva dall’esser scavalcati da capi-corrente e capiclientele e infatti Vittorio Bachelet, che accettò, arrivò in diciottesima posizione. In una situazione del genere è difficile che un professionista affermato, un docente universitario, un personaggio della società civile possa accettare un coinvolgimento, se non c’è un imprinting politico».
Ecco perchè, sostiene De Rita, «l’immagine che meglio fotografa la situazione in cui si trova Roma è quella usata dal Papa, “orfandad”, che ha tradotto con “orfanezza”. Roma è orfana di una classe dirigente».
La capacità di ripresa di Roma dipende anche dalla risposta ad un’altra domanda: se l’affiancamento del prefetto al sindaco è l’unica idea prodotta dal governo per una capitale in crisi, questo non è l’ennesimo segno che l’Italia non sente Roma come la sua capitale?
«Manca un’idea di capitale perchè manca un’idea di Stato e di nazione – sostiene Campi – Nemmeno ci rendiamo conto di essere un Paese che non ha un centro nevralgico, un cervello dal quale partono gli impulsi. Oltretutto in questa fase siamo guidati da una classe dirigente che ragiona con una mentalità periferica: gli ex sindaci, come Renzi, si portano dietro i territori, vedono il potere capovolto: per quanto possano cogliere il valore Roma, finiscono per trattarla come una delle tante città ».
Ma alla fine la ripresa o meno di Roma si giocherà soprattutto se il sindaco Marino riuscirà a riprendersi in mano la città .
Sostiene Vittorio Emiliani, già direttore del “Messaggero” e oggi presidente del Comitato per la bellezza: «Le giunte di sinistra degli anni Settanta avevano un’idea della città , rompere il diaframma periferia-città e investirono qualcosa come mille miliardi di lire in un anno per risanare le borgate, anche Rutelli, con la “cura del ferro” e le cento piazze, dimostrò di avere una sua idea di Roma. Marino, che ha preso decisioni epocali sottovalutate, non ha ancora dimostrato di avere una sua idea di città ».
Fabio Martini
(da “La Stampa“)
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Agosto 29th, 2015 Riccardo Fucile
LO STOP AL DDL SUL SENATO PORTEREBBE AL VOTO
«Settembre sarà un mese cruciale. Si deciderà tutto»: in questi ultimi tempi Matteo Renzi va
ripetendo spesso queste parole. Il premier non si riferisce, però, alla legge di Stabilita’.
Su quel versante, sottolinea lui, «i soldi ci sono». E «con Padoan non c’è nessun dissidio».
Tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia, piuttosto, si recita una sorta di gioco delle parti.
Ma la realtà è che in questa fase i due stanno marciando uniti perchè entrambi sanno quanto sia importante affrontare il tema del taglio delle tasse.
Settembre, allora, sarà cruciale su un altro fronte. Quello della riforma costituzionale. «È questo il tema principale», insiste il presidente del Consiglio con i collaboratori e i fedelissimi. Anche con quelli che lo spingono a rinviare la resa dei conti sul ddl e ad allungare il brodo. Su questo punto (almeno finora, perchè Renzi ha abituato il mondo politico a repentini mutamenti di rotta) è irremovibile: «Sulla riforma dobbiamo andare fino in fondo, non si può più rinviare oltre».
E a chi gli suggerisce maggior cautela, il premier risponde così: «Io per primo non voglio azzardare il rischio di un incidente parlamentare, non vi preoccupate». Incidente che è sempre dietro l’angolo, benchè il presidente del Consiglio sia sicuro: «I voti ce li ho già ».
Del resto, al Senato l’iter del ddl è stato pianificato da qualche tempo e per questa lettura non sarà necessaria la maggioranza qualificata, visto che dovrebbero essere previsti dei leggeri cambiamenti al testo licenziato dalla Camera.
La strada è quindi questa: la presidente degli Affari costituzionali, Anna Finocchiaro, alla ripresa dei lavori dichiarerà inammissibili gli emendamenti all’articolo due, quello che riguarda l’elettività del Senato, e ne taglierà una parte, dopodichè si andrà direttamente in Aula senza terminare l’esame in Commissione.
Ed è nell’Aula che la minoranza del Partito democratico, che ormai sembra intenzionata a considerare l’ipotesi della scissione nel novero delle cose possibili, potrebbe impallinare il ddl d’accordo con le altre opposizioni.
Ma se così fosse, si finirebbe dritti dritti alle urne. Per questa ragione settembre è un mese «cruciale».
E non a caso il premier ha deciso di congelare il rimpastino per attendere questo appuntamento.
È sempre per questo motivo che una parte dei renziani chiede al presidente del Consiglio di mandare per le lunghe l’iter della riforma costituzionale.
Perchè l’eventualità di un voto anticipato aprirebbe degli scenari imprevedibili.
Oltre che porterebbe con sè, come conseguenza quasi immediata, la scissione della minoranza interna.
Però il premier è convinto che i suoi oppositori nel Pd siano destinati a piegarsi e ritiene che di fronte alla possibilità delle elezioni una fetta dei dissidenti del Senato sceglierà la via più sicura della prosecuzione della legislatura, e, quindi, non ostacolerà la riforma costituzionale in Aula.
Insomma, Renzi non sembra troppo preoccupato per i movimenti della minoranza: «Non hanno i numeri, non hanno un progetto alternativo al nostro e non hanno un leader», va ripetendo il premier.
Eppure i bersaniani, anche dopo un’eventuale sconfitta nella battaglia parlamentare del Senato, potrebbero sempre nuocergli.
È quello che pensano alcuni renziani, preoccupati del fatto che la minoranza possa giocare contro il suo stesso partito nelle urne delle Amministrative.
Un rischio concreto, questo, basti pensare a quello che è già successo alle Regionali, in Liguria.
Ma il presidente del Consiglio mette le mani avanti: «Le Amministrative – spiega ai suoi – non saranno un test per il mio governo» .
Maria Teresa Meli
(da “il Corriere della Sera“)
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