Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
LE PRESSIONI DEI POLTRONISTI DI FORZA ITALIA AVEVANO QUASI CONVINTO IL CAVALIERE A CERCARE UN’INTESA, MA SALVINI CON IL SUO 3% A ROMA PENSA DI DETTARE CONDIZIONI E SILVIO SI INCAZZA… TUTTO RINVIATO AD OGGI
A un certo punto del pomeriggio sembrava cosa fatta. Il passo indietro di Guido Bertolaso era imminente, forse addirittura in giornata, così che oggi Giorgia Meloni, all’apertura della sua campagna elettorale sulla terrazza del Pincio, avrebbe potuto annunciare l’accordo con Silvio Berlusconi.
E invece niente, in serata tutto salta di nuovo in questa giornata di ordinaria follia, una delle tante del centrodestra a Roma.
L’accordo tra Berlusconi e Meloni era in dirittura d’arrivo. Restava solo da trovare un’exit strategy per Bertolaso.
E per mettere a punto la ritrovata intesa Berlusconi aveva invitato a cena a Palazzo Grazioli Matteo Salvini e la stessa Meloni.
Ma verso le sette di sera tutto s’inceppa di nuovo.
Il motivo è una telefonata di fuoco tra Salvini e Berlusconi in cui il leader di Forza Italia ha provato a convincere il leghista a mettere in campo una lista unica a Roma, senza simboli dei partiti e quell’altro gli ha risposto picche.
L’ex Cav, dunque, ha provato a fissare le sue condizioni in cambio dell’appoggio di Fi alla Meloni, ma si è trovato di fronte un muro.
Qui — fa notare un esponente azzurro — “sta la differenza tra Salvini e Bossi. Col Senatur a Silvio bastava sedersi intorno a un tavolo per trovare un accordo, mentre con Matteo non si capiscono proprio, sono su due pianeti diversi”.
Dopo la telefonata, la cena a Palazzo Grazioli viene annullata, mentre per oggi è convocato d’urgenza l’ufficio di presidenza di Forza Italia.
L’accordo con Meloni, dunque, è in stand by, congelato, mentre Bertolaso è ancora in campo.
Insomma, la giornata convulsa, dopo mille giravolte, si conclude con un nulla di fatto.
Ma facciamo un passo indietro.
Dopo un vertice notturno con i big azzurri andato in scena martedì 19 aprile a Palazzo Grazioli, sembrava che Silvio Berlusconi avesse deciso di mollare Bertolaso.
A convincere l’ex Cavaliere era stato il pressing asfissiante dei suoi poltronisti.
Da Tajani a Gasparri, da Brunetta a Romani, sondaggi alla mano, hanno fatto capire al leader azzurro che con Bertolaso “qui portiamo in Campidoglio un solo consigliere comunale”, gli hanno ripetuto in coro.
Come se , anche senza Bertolaso, Forza Italia prendesse chissà quale percentuale in una città dove la Lega arranca al 3% e Fdi viaggia non oltre il 13%.
Anche se Bertolaso fosse all’8%-9%, sarebbe in linea con i voti che Forza Italia raccoglie nella capitale oggi come oggi.
Diciamo che le soluzioni restano a questo punto tre: o appoggiare Meloni o virare su Marchini o rimanere su Bertolaso per un questione di dignità e fedeltà alla parola data.
Piuttosto va sottolineato che a fare pressing per la Meloni sono i vari servi sciocchi di Forza Italia in giro per l’Italia che sopravvivono grazie all’accordo con la Lega, come Toti in Liguria.
Incapaci di disegnare la strategia di una destra moderna, maggiordomi di una banda di lepenosi arroganti, interessati solo a restare attaccati alla poltrona.
Personaggi senza dignità .
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
A 50 CHILOMETRI DALLA CAPITALE DEL CALIFFATO
I lavori per il cantiere più difficile della storia sono cominciati. Sono arrivati gli ingegneri che studiano
l’impianto, i carotaggi per analizzare le condizioni del cemento, le ruspe che spianano l’area per ospitare i macchinari.
Tutto sotto lo sguardo vigile di alcuni incursori in abiti borghesi, senza armi visibili. Ma questa è zona di guerra. E l’Italia si è impegnata a realizzare un’impresa senza precedenti: completare un restauro sulla prima linea di una guerra. Un appalto affidato alla Trevi di Cesena, per un valore di 273 milioni di euro, che di fatto è un affare di Stato ad alto rischio.
La ristrutturazione della diga di Mosul è un intervento di ingegneria ma anche un’operazione militare.
Molti, soprattutto a Washington, temono che lo Stato islamico possa trasformare in una bomba liquida il colossale invaso alto 113 metri e lungo piu’ di tre chilometri e mezzo, capace di devastare la piana dove vivono oltre mezzo milione di persone, arrivando fino a Mosul col suo milione di abitanti: la capitale del Califfato dista meno di cinquanta chilometri.
Se l’argine venisse distrutto, si rovescerebbero undici milioni di metri cubi d’acqua, con una replica del Diluvio che si è abbattuto su queste terre ai tempi dei Sumeri.
In realtà pochi credono che il Califfato abbia la capacità e la volontà di abbattere l’impianto.
Distruggere una diga è molto difficile, come hanno dimostrato i raid inglesi durante la Germania nel secondo conflitto mondiale: dopo numerosi fallimenti, la Royal Air Force fu obbligata a inventare bombe giganti estremamente particolari.
E oggi a Mosul servirebbero tonnellate di esplosivo, piazzate in posizioni specifiche con detonazioni sincronizzate. Con il rischio poi di travolgere la stessa capitale dello Stato islamico.
La struttura è comunque pericolosa. Alcune delle paratie che regolano il deflusso dell’acqua sono state compromesse da dissesti geologici e danni ai meccanismi.
E questo in situazioni di grandi piogge — come accaduto un mese fa — può creare difficoltà nella gestione del bacino: per fronteggiarlo i tecnici hanno dovuto far partire le turbine dell’impianto idroelettrico, regalando energia ai territori del Califfato.
Oggi infatti il personale iracheno spera che i tecnici italiani forniscano anche apparecchiature avanzate e l’addestramento per usarle.
E allo stesso tempo la diga è fondamentale per la rinascita economica della regione, una volta sconfitto o contenuto il potere dell’Is, potendo fornire corrente e irrigazione. Un elemento noto anche ai miliziani con la bandiera nera, che due anni fa hanno occupato l’infrastruttura ma sono stati scacciati dopo due settimane di combattimenti. E che adesso è prevedibile si opporranno alla ristrutturazione.
Per impedirlo, il governo italiano schiererà nelle prossime settimane tra i 400 e i 500 soldati per la protezione del cantiere.
Dovranno difendere la diga, integrando le postazioni curde e quelle dell’esercito di Bagdad: una situazione molto delicata del punto di vista militare, perchè l’impianto si trova proprio sulla cerniera tra le due armate, assolutamente non coordinate l’una con l’altra.
Per questo si ipotizza la costruzione di alcuni fortini, simili a quelli realizzati in Afghanistan nella zona di Bala Murghab, con mortai pesanti a lungo raggio per la copertura delle zone circostanti.
E di avere colonne corazzate che possano pattugliare il territorio, con autoblindo e “bisonti” apripista a prova di bomba.
Ci sarà inoltre una pista per gli elicotteri, dove potranno atterrare i quattro NH90 da trasporto appena arrivati in Kurdistan e soprattutto le quattro “cannoniere volanti” Mangusta, che dovranno custodire dal cielo la zona dei lavori.
L’incognita maggiore sarà la protezione dei convogli che riforniranno il cantiere di mezzi e soprattutto cemento, i materiali indispensabili per i restauri.
La città più vicina è Erbil, collegata con una strada presidiata da posizioni curde distanti una decina di chilometri l’una dall’altra: il rischio di imboscate dell’Is è altissimo.
Finora è stata tentata una sola operazione simile, estremamente più complessa: la ristrutturazione della diga di Kajaki, nel cuore delle terre afghane popolate dai talebani.
Nel 2007 gli inglesi organizzarono una gigantesca missione militare per trasportare un nuovo generatore — pesante 220 tonnellate — fino all’impianto: furono organizzate due spedizioni parallele, che si aprirono la strada combattendo per dodici giorni. Una missione conclusa con il successo ma sostanzialmente inutile: non è mai arrivato il cemento necessario a ripristinare i macchinari perchè il trasferimento di circa mille tonnellate comportava troppe insidie.
La situazione logistica della struttura di Mosul è meno grave, anche se il Califfato farà di tutto per tentare l’assalto alla base italiana, destinata a diventare il più grande accampamento di truppe occidentali dell’intero Iraq.
L’operazione Diga rappresenta anche un nuovo approccio alle missioni militari italiane, in cui il “sistema paese” cerca di finalizzare le spedizioni non solo alle ragioni umanitarie o ai calcoli di politica estera, ma anche a un ritorno economico diretto.
Negli ultimi venti anni l’impegno dei nostri soldati non si è mai tradotto in appalti o commesse, anche quando — come in Kosovo o in Libano — c’era la possibilità di “far pesare” la presenza delle truppe sul tavolo delle trattative.
E’ un approccio poco etico? Gli altri paesi occidentali lo fanno, in modo spesso spregiudicato e non esitando a rifilare colpi bassi contro le nostre aziende, come è accaduto per esempio nelle forniture alle forze armate afghane o a quelle libanesi.
E sarebbe opportuno che la questione venisse discussa dal Parlamento, sempre poco attento nel pesare l’impiego dei nostri soldati ma rapido nel celebrarne i successi o nel partecipare al lutto per i caduti in missione.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
“FAVORIVA LE COSCHE”… I LEGAMI CON IL BOSS ACCORINTI
C’è anche Andrea Niglia, presidente della Provincia di Vibo Valentia e sindaco di Briatico, tra i perquisiti dell’inchiesta “Costa Pulita” scattata stamattina all’alba quando polizia di Stato, carabinieri e guardia di finanza hanno arrestato 22 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, intestazione fittizia dei beni, detenzione e porto di armi ed esplosivo. Il politico è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
La sua abitazione è stata perquisita stamattina perchè, secondo gli inquirenti, si sarebbe attivato per favorire la cosca Accorinti.
Stando alla ricostruzione dei sostituti procuratori della Dda Pierpaolo Bruni e Camillo Falvo, l’ex primo cittadino avrebbe posto in essere “condotte riservate e fraudolente tese a salvaguardare l’attività del villaggio Green Garden costituente una delle principali fonti di guadagno della cosca”.
Niglia era stato eletto presidente della Provincia di Vibo il 28 settembre 2014 con l’appoggio dei renziani del Pd, esponenti di Ncd, Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Il 20 marzo scorso la Cassazione ha stabilito la sua incandidabilità e quindi la decadenza. Contro questa decisione lo stesso Niglia ha annunciato di aver avviato un’azione di sospensiva e revoca dell’atto.
Secondo gli inquirenti, la ‘ndrangheta controllava tutta la costa vibonese e in particolare i Comuni di Briatico e Parghelia. Dalle amministrazioni comunali ai villaggi turistici passando per i collegamenti con le isole Eolie.
Il blitz contro la cosca Mancuso ha interessato non solo la Calabria, ma anche la Lombardia. Ci sono stati arresti, infatti, pure a Como e Monza.
L’inchiesta ha colpito quelle che gli inquirenti definiscono le ramificazioni dei Mancuso. In particolare le porte del carcere si sono spalancate per gli esponenti di spicco delle famiglie mafiose degli Accorinti, La Rosa e Il Grande che gestivano tutte le attività illecite del litorale vibonese.
È stato arrestato, infatti, il boss Antonino Accorinti. Tra gli indagati, invece, anche alcuni politici e professionisti che stamattina hanno subito una perquisizione.
Oltre a Niglia, nel mirino dei pm Bruni e Falvo, sono finiti l’assessore di Briatico Guglielmo Domenico Marzano, l’ex sindaco Francesco Prestia e il consigliere di maggioranza Sergio Bagnato.
A questi vanno aggiunti un direttore di banca (accusato di aver favorito i mafiosi cambiando loro assegni scaduti e concedendo mutui senza garanzie) e alcuni dipendenti della Capitaneria di porto che informavano i boss prima dei controlli amministrativi agli esercizi commerciali e alle società di navigazione di fatto in mano alle cosche.
Nel giorno in cui Reporters sans Frontiers pubblica il suo ultimo report secondo il quale in tema di libertà di stampa l’Italia scivola al 77° posto nel mondo dietro a Botswana e Nicaragua, dall’inchiesta emergono anche le numerose minacce nei confronti del giornalista Pietro Comito la cui unica colpa, secondo i gregari della cosca Accorinti, è quella di aver scritto alcuni articoli sullo scioglimento dei Comuni di Briatico e Parghelia. “Ha detto tuo padre che lo deve spaccare a quello come lo troviamo”. Sono alcune delle intercettazioni registrate dagli inquirenti che, in diretta, ascoltano i propositi di ritorsione al giornalista: “Lo so chi è, l’ho già trovato”.
A Pietro Comito, all’epoca in servizio a “Calabria Ora”, era arrivata anche una lettera di minaccia scritta in dialetto: “O Petru Comito ta tagnu a testa si scrivi subbu u Comuni i Briatico e fatti i cazzi toi. Cerca u ma capisci o ta facimu capisciri nui ca testa ta pendimu a Sal Leoluca ta piazza u ma vidunu chi sbirrazzi coma a tia” (O Pietro Comito te la taglio la testa se scrivi sul Comune di Briatico. E fatti i cazzi tuoi, cerca di capirlo o te lo facciamo capire noi. Ti appendiamo la testa a San Leoluca in piazza così la vedono gli sbirri come te, ndr).
Grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali, gli investigatori sono riusciti a sventare nel 2014 un attentato con l’utilizzo di un potente ordigno esplosivo.
Le indagini hanno dimostrato anche l’ingerenza della cosca Accorinti nei riti religiosi. La barca, che porta il nome “Etica”, del boss Antonino Accorinti veniva utilizzata a Briatico per la processione della Madonna a mare.
Oltre ai fermi, disposti dalla Dda di Catanzaro, i pm hanno sequestrato beni per un valore di 70 milioni di euro. Tra questi oltre 100 immobili, quote societarie e rapporti bancari. I sigilli della Procura hanno interessato pure due villaggi vacanze e tre compagnie di navigazione con altrettante motonavi che assicuravano, in regime di sostanziale monopolio, i collegamenti turistici con le isole Eolie.
Lucio Musolino
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
PROVE DA CANDIDATO PREMIER IN MISSIONE ESPLORATIVA
A Westminster per scoprire come fanno gli inglesi a controllare la spesa, ma anche il governo. Inizia
con una passeggiata a piedi la visita istituzionale di Luigi Di Maio, vice presidente della Camera e presidente del “Comitato di vigilanza sull’attività di comunicazione della Camera”, organismo di cui fanno parte deputati di tutti gli schieramenti e che vuole capire meglio come fanno gli altri Parlamenti a controllare il lavoro del governo e la spesa.
Missione esplorativa dunque – con un piede sulla scaletta dell’aereo ha confermato lo stesso Di Maio – che nulla ha a che fare con quella che secondo i rimbalzi mediatici della rete Cinquestelle doveva, e poteva essere, una visita di accredito da candidato alla premiership.
TEST DA CANDIDATO PREMIER
Nonostante questo il tour europeo, che dovrebbe toccare anche Parigi e Berlino, lascia pochi dubbi sulla voglia del vicepresidente della Camera di impegnarsi in un giro di accreditamento internazionale.
Che il punto fosse quello di far conoscere Di Maio in versione candidato premier lo dimostra il fatto che abbia richiesto molti incontri a latere, quasi tutti saltati.
Tra questi Kenneth Clarke, ex cancelliere dello Scacchiere, ministro con Cameron nel 2010, nostalgico della politica economica lacrime e sangue della Thatcher.
GLI ATTRITI CON FARAGE
Ma soprattutto le due bandiere della Gran Bretagna anti-europea: il sindaco di Londra Boris Johnson e il leader dell’ Ukip Nigel Farage, e che sarebbe piuttosto seccato dal fatto che i Cinquestelle siano alleati a Bruxelles solo di nome visto che di solito votano insieme a Verdi e sinistra radicale.
Un matrimonio aperto, lo aveva definito Farage utilizzando il termine “loose association”, ma il rischio è la separazione.
Per questo i Cinquestelle e lo stesso Di Maio stanno tentando di strappare un appuntamento last minute a Farage, almeno per salvare le apparenze e far contento Casaleggio junior che era stato sponsor di questa strana Unione.
Ma, finora, nulla di fatto: Farage pare ancora indisponibile.
IL FRONTE ITALIANO
E mentre Di Maio vola a Londra in Italia lascia malumori e incertezza. La velocità con la quale s’è preso la testa del gruppo ha lasciato molti perplessi tra i suoi.
Nonostante il suo nome per il futuro sia stato indicato dallo stesso Casaleggio, specie dalle parti di Roberto Fico.
Al presidente della Vigilanza Rai la decisione di Di Maio di accelerare candidandosi alla premiership a mezzo intervista televisiva non è piaciuta.
«Se Luigi vuole fare tutto da solo lo dica, ma allora i cinque non hanno più senso di esistere, che resti solo lui», sibilava ieri un deputato della linea dura, uno di quelli che vorrebbe veder rispettata la collegialità degli organi M5S e vede in Fico «l’unico a portare avanti, pienamente, i nostri ideali».
Di Maio sente il voto. In pubblico e in privato ragiona considerando il 2017 come l’anno delle elezioni politiche, dando per probabilissima una crisi controllata del governo Renzi e l’apertura della campagna elettorale dopo il referendum costituzionale d’autunno.
Maria Corbi, Francesco Maesano
(da “La Stampa”)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA CAUSA E’ IL PRELIEVO FISCALE SUL CARBURANTE
In Italia i prezzi alla pompa di benzina e gasolio sono al top in Europa.
Lo rileva il Centro Studi Promotor riportando gli ultimi dati della Commissione dell’Unione Europea da cui emerge che all’inizio di marzo soltanto in Olanda il prezzo al pubblico della benzina era più alto che in Italia, mentre per il gasolio le nostre pompe sono battute da quelle di Regno Unito, Svezia e Malta.
La responsabilità del caro-carburanti italiano – sottolinea il Centro Studi Promotor – è interamente del fisco.
All’inizio di marzo il prezzo della benzina superava la media europea di 22,1 centesimi di cui 21,7 imputabili al fisco e 0,4 al prezzo industriale.
Ancora peggiore la situazione per il gasolio: il prezzo industriale ad inizio marzo era inferiore alla media europea del 2,7 centesimi, ma il prezzo alla pompa superava la media di 18,6 centesimi per colpa di un maggior carico fiscale di 21,3 centesimi.
E la lenta crescita dei costi continua ad aprile.
Il prezzo medio nella settimana scorsa – rileva il Centro Studi Promotor – è stato di 1,426 euro per la benzina e di 1,233 per il gasolio.
I due carburanti avevano toccato un minimo a fine febbraio ed hanno ripreso a crescere in vista della Pasqua e comunque in coerenza con l’andamento delle quotazioni del petrolio greggio.
Nel panorama italiano dei carburanti auto c’è però anche una buona notizia: il prezzo medio ponderato del primo trimestre 2016 è ancora sensibilmente più basso di quello dello stesso periodo del 2015 (-8% per la benzina; -14,4% per il gasolio).
Una situazione che ha determinato nel primo trimestre del 2016, pur in presenza di un aumento degli acquisti dello 0,7%, una flessione della spesa complessiva dai 12,9 miliardi del primo trimestre 2015 agli 11,3 miliardi del primo trimestre di quest’anno. Il risparmio degli italiani alla pompa, sottolinea Gian Primo Quagliano presidente del Centro Studi Promotor, è dunque molto consistente ed è infatti di 1,6 miliardi.
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
LA REPLICA DEL NOSTRO DIRETTORE DOPO LA GENTILE PRECISAZIONE DEL NEODIRETTORE ALL’AGENZIA DEL TURISMO LIGURE AL NOSTRO ARTICOLO
Carlo Fidanza ci ha scritto una cortese nota di replica alle considerazioni esposte nel nostro articolo a
margine. Lo pubblichiamo volentieri anche perchè non ha fatto alcuna pressione affinchè lo facessimo.
Riteniamo sempre proficuo il confronto ed è giusto dare spazio al diritto di replica dell’interessato, a cui rispondiamo con il nostro punto di vista
L’ARTICOLO DI DESTRA DI POPOLO
La questione non è di poco conto, ha chiari risvolti politici ed etici.
Il referendum sulle trivelle ha visto come promotori nove regioni: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise.
La giunta di centrodestra della Liguria quindi è tra coloro che si sono schierati per il sì, posizione condivisa a livello nazionale da Lega, FdI e Forza Italia (quest’ultima in modo più “politico”).
In particolare il governatore Toti ha più volte affermato che il suo sarà un sì convinto a tutela del patrimonio ambientale e degli interessi turistici della Regione.
Ci si aspetterebbe, a questo punto, che i dipendenti di livello, di nomina politica di Toti, avessero il buon gusto o di adeguarsi o almeno di tacere.
Soprattutto se si è stati gratificati, tra mille polemiche e un curriculum inadeguato all’incarico, di una nomina a direttore dell’agenzia del Turismo della Liguria, per il “modesto” compenso di 90.000 euro l’anno (cifra e nomina che hanno fatto gridare allo scandalo le opposizioni).
Lasciamo perdere la tesi per cui la nomina di Fidanza (trombato alle elezioni) sia stata imposta a Toti dalla Meloni per trovargli un incarico.
Fidanza oggi esprime legittimamente la sua posizione in dissenso dal suo partito, ritenendo errato votare Sì al referendum e annunciando la sua astensione con motivazioni “renziane”.
Non lo critichiamo per questo, si può dissentire dal partito.
Ma quando rappresenti il turismo di una delle nove regioni che hanno promosso la consultazione referendaria proprio per tutelare il turismo, non puoi dissociarti da una scelta ampiamente condivisa.
Salvo in un caso: che lunedi presenti le dimissioni dall’incarico di cui è stato gratificato.
Siamo certi che per persone tutte di un pezzo la coerenza valga di più dei 90.000 euro a cui dovrà rinunciare.
LA RISPOSTA DI CARLO FIDANZA
Caro Direttore,
mi dispiace che l’attenzione del suo giornale si sia soffermata su una vicenda assolutamente inconsistente.
Come facilmente riscontrabile, infatti, ho scritto un post (peraltro argomentato e pacato, per nulla polemico) sulla mia pagina facebook politica, che ho volutamente tenuto totalmente distinta dal lavoro istituzionale che da poco più di un mese svolgo a capo dell’Agenzia “In Liguria”.
Non rientra nelle prerogative di chi dirige l’Agenzia dissertare in quella veste di trivelle e referendum, il Presidente Toti non mi ha nominato per quello ma per rafforzare e rilanciare “In Liguria”, compito a cui mi sto dedicando con passione e sul quale verrò giudicato.
Paradossalmente, con zero o con cento trivelle nel Mar Ligure, il mio compito sarebbe sempre lo stesso: promuovere le bellezze del nostro territorio sui mercati nazionali e internazionali.
Quanto alla presunta mancanza di competenze, a un attento cronista come lei non sarà di certo sfuggito il generale plauso con cui le principali associazioni di categoria del turismo ligure hanno accolto la mia nomina: una stima maturata negli anni del mio impegno per il turismo al Parlamento Europeo e sul territorio, facilmente riscontrabile con una banale ricerca su google alla voce “Carlo Fidanza turismo”.
Quanto infine alla polemica sul compenso, ricordo una volta di più che si tratta della stessa somma percepita dal mio predecessore.
Cordiali saluti.
Carlo Fidanza
LA REPLICA DEL NOSTRO DIRETTORE
Carlo Fidanza è un politico troppo “navigato” per non comprendere che la “pagina politica” Fb di un personaggio pubblico ha sempre una valenza istituzionale.
Potrei qua citare decine di casi di polemiche (e talvolta di dimissioni) che hanno generato le malaccorte esternazioni pubbliche di politici locali.
A molti liguri è sembrato singolare che il neo-direttore dell’Agenzia del turismo ligure prendesse una posizione opposta a quella della Giunta regionale presieduta da Giovanni Toti. Noi siamo tra quelli, fermo restando il suo ovvio diritto al dissenso: certo che se il compito è quello di “promuovere le bellezze della Liguria”, suona strano che qualcuno possa immaginarle in una cartolina simbolica con un fondo di trivelle.
Questione competenza: sappiamo tutti che il nome di Fidanza era stato perorato in un primo tempo da Giorgia Meloni per l’assessorato al Turismo ligure, in quota FdI. Operazione poi non andata in porto perchè il partito locale si era opposto alla “invasione” di un milanese a fronte dell’esigenza di gratificare esponenti locali (leggi il sanremese Berrino).
Pertanto la sua successiva nomina a direttore dell’agenzia del Turismo è stata letta da tutti come una sorta di compensazione politica per la mancata nomina ad assessore, non certo per criteri di competenza. La quale peraltro si limita all’aver fatto parte della Commissione Trasporti e Turismo al Parlamento europeo, eletto nella circoscrizione Lombardia-Piemonte-Liguria, per una sola legislatura.
Mi limito a dire che il problema del turismo, in un’ampia visione politica, non dovrebbe essere solo quello di rappresentare gli interessi delle piccole lobby (che sicuramente avranno gioito per la sua nomina) ma soprattutto dei “fruitori” del turismo in Liguria.
Questione compenso: qua Fidanza finge di dimenticare un piccolo dettaglio.
E’ vero che percepisce 90.000 euro, ovvero la stessa cifra del suo predecessore, ma con una “piccola differenza”.
Il direttore precedente era un funzionario di carriera della regione Liguria, un “prodotto interno” che si sarebbe dovuto pagare in ogni caso, per capirci.
Andando in pensione, si poteva risparmiare “promuovendo” un interno con competenze specifiche.
Invece è stato scelto un esterno “politico”, con nomina diretta e discrezionale e senza concorso.
Non proprio la stessa cosa…
Cordialmente
Riccardo Fucile
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
FINISCE IL DOPING DEGLI SGRAVI FISCALI E CALANO LE ASSUNZIONI… IL TOTALE DEI NUOVI CONTRATTI ATTIVATI E’ CALATO DEL 12% RISPETTO A UN ANNO FA
Dimezzati gli sgravi contributivi, calano ancora le assunzioni in Italia.
Lo rende noto l’Osservatorio sul precariato dell’Inps, che a febbraio 2016 registra una flessione dei nuovi contratti attivati pari al 12% rispetto a un anno fa.
In particolare, l’istituto di previdenza segnala come “questo rallentamento ha coinvolto essenzialmente i contratti a tempo indeterminato“: in questo caso, il crollo arriva a quota -33%.
La tendenza ha il sapore di una conferma: già a gennaio, il numero delle attivazioni era drasticamente calato nel confronto con il 2015, anche in quel caso trascinato verso il basso dal calo dei contratti a tempo indeterminato, giù del 34%.
Questo nel comunicato diffuso martedì, ma la nota di marzo, riferita al primo mese dell’anno, parlava di un calo superiore: il 39,5%.
L’istituto di previdenza ha rivisto il dato delle assunzioni a gennaio, che passa da 106mila a 118mila perchè, spiega l’Inps a ilfattoquotidiano.it, nel frattempo sono pervenute ulteriori denunce.
E se si contano anche i contratti cessati, i nuovi rapporti indeterminati risultano inferiori non solo al 2015, ma anche al 2014.
Intanto, non accenna a diminuire l’exploit dei voucher, i buoni per pagare le prestazioni occasionali di lavoro, che nel primo bimestre 2016 segnano un balzo del 45% rispetto al 2015.
Insomma, le imprese sembrano essere state maggiormente attratte dall’incentivo, anzichè dal cambio di regole previsto dal Jobs act, come sostenuto a più riprese dal premier Matteo Renzi.
Secondo i dati Inps, a febbraio si sono contate 341mila assunzioni, con un calo di 48mila unità (—12%) sul febbraio 2015.
Ma a trascinare verso il basso questo dato sono stati i 46mila rapporti di lavoro in meno registrati nei contratti a tempo indeterminato, che corrispondono al -33% sul febbraio 2015.
Al netto dei contratti cessati, a febbraio si è registrata una flessione di circa 29mila unità .
La tendenza al segno meno si era già registrata a gennaio, quando il numero complessivo di assunzioni era sceso del 17%, mentre i nuovi rapporti stabili erano calati del 34%.
Anche il flusso di trasformazioni a tempo indeterminato è in forte contrazione, in picchiata del 50%.
C’è poco da stupirsi, se si considera che il generoso esonero contributivo per le assunzioni del 2015 è stato più che dimezzato con il nuovo anno. Lo stesso istituto riconosce che “i flussi di rapporti di lavoro nei primi due mesi del 2016 risentono dell’effetto anticipo legato al fatto che dicembre 2015 era l’ultimo mese per usufruire dell’esonero contributivo triennale”.
Il paragone è impietoso non solo nei confronti del 2015, anno della decontribuzione, ma anche rispetto al 2014.
Nel primo bimestre di quest’anno, infatti, la variazione netta dei contratti stabili, cioè la differenza tra attivazioni e cessazioni, si attesta a quota 37mila.
Si tratta di un valore inferiore rispetto al boom del 2015, quando ha toccato quota 143mila: rispetto all’anno scorso si è registrata una contrazione pari al 74%, come fa notare Mario Seminerio sul blog Phastidio.net.
Ma il dato si attesta anche sotto il livello del 2014, periodo che ha visto l’avvicendamento tra i governi Letta e Renzi, quando la cifra arrivava a 87mila unità . Non a caso, è calata anche l’incidenza dei contratti stabili sul totale dei rapporto di lavoro: a gennaio-febbraio 2014 il 37,5% dei contratti erano a tempo indeterminato, mentre nel 2016 questo rapporto è caduto al 33,8%.
E mentre calano le assunzioni stabili, non si ferma l’avanzata dei voucher. Per quanto riguarda i buoni lavoro, nel primo bimestre 2016 sono stati venduti 19,6 milioni di voucher destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10 euro, con un incremento, rispetto al primo bimestre 2015, pari al +45%. Nel solo 2015, sono stati venduti 115 milioni di tagliandi, non a caso definiti “la nuova frontiera del precariato” dal presidente Inps Tito Boeri.
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
“SE LA POLITICA RICANDIDA PERSONE COINVOLTE IN REATI E’ INEVITABILE CHE I PROCESSI ABBIANO EFFETTI POLITICI”
“Non commento le dichiarazioni del presidente del Consiglio. Ma è una vecchia storia, questa del
‘giustizialismo’ e del ‘conflitto’. Non c’è nessuna guerra. Noi facciamo indagini e processi. Se poi le persone coinvolte in base a prove e indizi che dovrebbero indurre la politica e le istituzioni a rimuoverle in base a un giudizio non penale, ma morale o di opportunità , vengono lasciate o ricandidate o rinominate, è inevitabile che i processi abbiano effetti politici”.
E’ quanto afferma Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, in una intervista al Fatto Quotidiano.
Alla domanda sulle differenze tra questo governo e quelli precedenti nell’affrontare il tema giustizia, Davigo risponde così: “Qualche differenze di linguaggio ma niente di più: nella sostanza c’è una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti”.
“Se la politica usasse per le sue autonome valutazioni – aggiunge – gli elementi che noi usiamo per i giudizi penali e ne traesse le dovute conseguenze, processeremmo degli ex. Senza conseguenze politiche”.
Quando poi Travaglio chiede se il conflitto fra politica e magistratura sia fisiologico, Davigo replica: “Le frizioni fra poteri dello Stato sono la naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza. Chi vuole che tutti i poteri vadano d’amore e d’accordo dovrebbe proporre il ritorno alla monarchia assoluta, dove il sovrano deteneva tutti i poteri senz’alcun conflitto: il re era sempre d’accordo con se stesso. È questo che vogliono? Io, se non ci fosse tensione fra politica e giustizia, mi preoccuperei”.
“Tutti i processi arrivano a sentenza – sottolinea quindi Davigo – se ci si lamenta di un eccesso di prescrizione, modifichino le norme”.
“Sulle intercettazioni non vedo necessità di una nuova legge: bastano le norme su privacy e diffamazione”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 20th, 2016 Riccardo Fucile
REPORT SENZA FRONTIERE: SIAMO 33 POSTI SOTTO IL BOTSWANA E DIETRO IL NICARAGUA…IN TESTA LA FINLANDIA, PERDIAMO 4 POSIZIONI IN UN ANNO
Più in basso del Nicaragua, più giù della Moldavia e più ancora dell’Armenia.
E’ lì che si piazza l’Italia nella classifica di Reporters sans frontières (Rsf), termometro della libertà di stampa nel mondo.
La Penisola continua a perdere posizioni a ora saluta il già tutt’altro lusinghiero 73esimo posto dello scorso anno scivolando al 77esimo: peggio, all’interno dell’Unione Europea, solo Cipro, Grecia e Bulgaria.
Il motivo? Pressioni, minacce e violenze subite dai cronisti.
Nel motivare questa posizione nel ranking annuale, la ong con sede a Parigi fa riferimento al fatto che “a maggio 2015 il quotidiano La Repubblica ha riportato che fra 30 e 50 giornalisti sono sotto protezione di polizia perchè sono stati minacciati” e aggiunge che in Vaticano “è il sistema giudiziario che attacca i media“: il riferimento è all’indagine su Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi per lo scandalo Vatileaks.
“Due giornalisti rischiano otto anni di carcere per la pubblicazione di libri che rivelano i malaffari della Santa Sede”, si legge nel rapporto
Pure il Botswana, che perde anch’esso posizioni, si attesta comunque al 43esimo, appena sotto il Burkina Faso, surclassandoci nettamente.
“Sfortunatamente — ha commentato il segretario generale di Rsf Christophe Deloirell — è chiaro che molti dei leader mondiali stanno sviluppando una forma di paranoia nel legittimare il giornalismo”.
“Il livello di violenza — è dunque il giudizio generale di Rsf sulla situazione – contro i giornalisti (comprese intimidazioni verbali e fisiche, e minacce di morte) è allarmante“.
La graduatoria, sottolinea ancora Rsf, rivela “l’intensità degli attacchi di Stati, ideologie e interessi privati contro l’indipendenza del giornalismo“.
Le prime cinque posizioni sono occupate da Finlandia, che mantiene il primo gradino del podio dal 2010, Olanda, in salita di tre posizioni rispetto al 2015, Norvegia, in calo di una, Danimarca, un gradino sotto lo stesso anno e Nuova Zelanda, che guadagna un posto.
Tra i balzi in avanti più significativi, quello della Svizzera, che in un solo anno lascia la 20esima posizione per guadagnare la settima: non tanto per suoi meriti particolari, sottolinea Rsf, quanto piuttosto per via del preoccupante peggioramento degli altri Paesi, in un contesto che nel suo complesso si è degradato.
Altra novità rilevante di questa classifica è l’aggiornamento dell’indice regionale, che vede l’Europa sopravanzare nettamente l’Africa, che a sua volta per la prima volta scavalca il continente americano.
Grandi progressi per la Tunisia e per l’Ucraina, per la relativa tregua nel conflitto.
Peggiora invece la situazione in Polonia, dove un Governo ultraconservatore ha operato una stretta sui media; in Tagikistan, dove il regime ha subito una deriva autoritaria; e in Brunei, che perde 34 posizioni per l’imposizione della sharia.
Gli ultimi tre ranghi restano appannaggio di Turkmenistan, Corea del Nord ed Eritrea, fanalino di coda tra i 180 Paesi censiti.
(da agenzie)
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