Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
A POCHI MESI DALLE URNE I SINDACATI SI DIVIDONO
L’autunno caldo è arrivato: al termine del confronto a Palazzo Chigi sulle pensioni la
Cgil conferma la mobilitazione, le cui modalità saranno decise a breve dalla Confederazione di Corso Italia.
E sicuramente non basterà un nuovo incontro con il governo, fissato per martedì 21 novembre, a scongiurare la protesta. “Andiamo a sentire, a verificare le proposte fatte”, spiega Susanna Camusso .
Ma la Cgil contesta l’intero impianto del “pacchetto” presentato dal governo, ammonisce che si tratta di un’occasione persa. “Si sarebbe potuto affrontare il problema dei giovani e quello delle carriere discontinue delle donne, non lo si è fatto. Non siamo di fronte a un quadro che risponde alle nostre richieste a causa dell’indisponibilità del governo ad affrontare le ingiustizie del sistema”.
Così la Cgil apre di fatto la battaglia sui temi sociali che sta dilaniando il fronte della sinistra, con l’avvio della campagna elettorale.
Ma il sindacato guidato da Camusso rischia di restare solo in questo scontro. La Cisl, infatti, esprime “un giudizio positivo”, così Anna Maria Furlan, che sottolinea le due novità portate al tavolo, oltre ai 7 punti già presentati nell’incontro precedente.
“Il governo ha raccolto due questioni poste da noi: estende il blocco dell’età pensionabile anche all’anzianità e non solo alla vecchiaia per le 15 categorie di lavori gravosi, e crea un fondo con i potenziali risparmi di spesa per proseguire l’Ape social a tutto il 2019. Ora servono aggiustamenti e approfondimenti: per esempio vorremmo che più lavoratori della siderurgia fossero inclusi nel blocco dell’aumento anagrafico, e vorremmo proseguire un confronto per portare a casa il silenzio/assenso sulla previdenza complementare anche nel settore privato. Detto questo per noi l’impianto è giusto”.
Tanto più, aggiunge Furlan, che “siamo in un momento particolare, cioè a fine legislatura. Non vogliamo spingere in mare aperto, in un futuro indefinito, una possibile intesa sulla previdenza”. Così anche in casa Cisl si fanno i conti con la politica, e con le pieghe che la campagna elettorale e poi le urne potrebbero prendere.
Aperture anche dalla Uil, che chiede però più tempo: di qui la nuova convocazione. “Vogliamo conoscere esattamente qual è il costo da prevedere in finanziaria per ogni voce — dichiara il leader Uil Carmelo Barbagallo — Mancano ancora alcuni punti, come i coefficienti per andare in pensione per i giovani e la riconferma della rivalutazione integrale degli assegni dal 2019. Per questo vogliamo sfruttare ogni momento disponibile per trattare”.
Un “ni” che lascia la porta socchiusa, ma i toni non sembrano preludere a una rottura.
Il governo ha già detto che il perimetro della proposta non cambierà nelle prossime 72 ore, ecco perchè le due posizioni di Cgil e Cisl possono considerarsi cristallizzate già da oggi.
A conclusione non ci sarà un accordo da firmare: l’esecutivo inserirà le proposte in Finanziaria sulla base del consenso che oggi è già arrivato da Cisl e potrebbe arrivare da Via Lucullo.
“Questo pacchetto identifica categorie di lavori gravosi e introduce miglioramenti nei meccanismi di adeguamento dell’età pensionabile rispetto all’aspettativa di vita — sottolinea Pier Carlo Padoan – E’ un pacchetto importante che va collocato all’interno della legge di bilancio. Queste misure aggiungono un contributo del governo a temi sociali. La legge di bilancio già ne contiene di importanti: rafforzamento ulteriore degli strumenti di lotta alla povertà , incentivi ai giovani. Tutti temi che le organizzazioni sindacali hanno ricordato, in questi nostri colloqui, essere molto importanti nella loro e nell’agenda del governo”.
Così il ministro rivendica l’impegno del governo, che con questa partita si gioca molto della sua forza di attrazione tra i lavoratori in vista delle future elezioni.
Padoan conferma l’intenzione di inserire da subito le misure in Stabilità , tanto che già la mattina stessa di martedì 21 l’emendamento potrebbe arrivare in commissione Bilancio del Senato, dove proprio quel giorno si comincerà a votare.
Le misure dovrebbero valere circa 300 milioni, anche se per la Cgil quello è un dato consolidato.
“In Stabilità non si supereranno i 60 milioni”, dichiara Camusso. . In ogni caso, nella nota conclusiva, Palazzo Chigi ribadisce l’impegno ad attuare l’accordo sulle pensioni del 2016 (quello di oggi è il secondo tempo, dopo il primo già inserito nella scorsa finanziaria, con un impegno di 7 miliardi in tre anni) “nel rispetto dei saldi di bilancio e con riguardo anche alla sostenibilità di medio-lungo periodo del debito, a garanzia della reputazione finanziaria del Paese”. E’ il percorso stretto, più volte citato da Padoan, imposto dalle ristrettezze di bilancio. Un percorso che per Camusso, tuttavia, deve allargarsi, visti i costi che sono stati scaricati sui lavoratori con la riforma Fornero.
Al tavolo il ministro aveva chiesto di sostenere la proposta “perchè noi la difenderemo nella misura in cui voi lo sosterrete”. Ma alla fine il “nijet” della Cgil resta, tanto che Padoan è costretto a dichiarare: “Registriamo con rammarico le divisioni sindacali”. Per la Cgil i risultati sono ancora troppo lontani dalle promesse fatte: le 15 categorie di “gravosi” che potranno andare in pensione a 66 anni e 7 mesi (e non a 67) rappresentano ancora una parte marginale dei lavoratori (circa 5mila lavoratori all’anno secondo calcoli del sindacato), e anche aver mantenuta ferma l’anzianità (42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne, che consente di andare in pensione prima senza decurtazioni) senza aumentarla di 5 mesi rappresenterebbe solo un fatto formale, vista la difficoltà che si hanno nei lavori pesanti a raggiungere una anzianità così alta. E a nulla serve che Giuliano Poletti faccia notare che per la prima volta si affronta il tema del blocco, dopo due volte di applicazione dell’aumento dell’età .
Per la Cisl, al contrario, il “pacchetto” presentato dal governo, considerata anche l’Ape social estesa al 2019, riguarderebbe circa 50mila persone: una cifra non trascurabile quindi.
La proposta va in direzione di quanto chiedono i sindacati, insistono da Via Po. Tra i 7 punti già presentati, ci sono più ammortizzatori sociali con il Fis (fondo di integrazione salariale), c’è il recupero delle somme non spese per l’Ape sociale, c’è l’apertura di un confronto sulla sostenibilità sociale dei trattamenti pensionistici dei giovani. Barbagallo tira fuori dal cassetto un punto tanto importante della piattaforma sindacale, da essere evocato dalla stessa Camusso: le pensioni dei giovani. In particolare si chiede il taglio del coefficiente minimo richiesto per andare in pensione a chi è nel sistema contributivo, oggi fissato a 1,5 volte il minimo (solo chi avrà maturato una pensione pari a una volta e mezzo l’assegno sociale potrà avere l’assegno).
I sindacati chiedevano di abbassarlo all’1,2. In più si chiedeva di abbassare anche il coefficiente per gli attuali pensionandi, portandolo dal 2,8 al 2. Ma di tutto questo non vi è traccia nel “pacchetto” presentato dal governo.
“E dire che in questo caso non servono risorse per la Finanziaria del 2018”, attacca Camusso. I tempi sarebbero lunghi, ma l’esecutivo non sembra orientato a modificare già da ora l’impianto attuale della previdenza.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
“BERLUSCONI? NON DIMENTICHIAMO CHE DELL’UTRI E’ IN GALERA”
“Io non immagino una politica senza mafia“. Parola di Gaspare Mutolo, ex mafioso fedelissimo di Salvatore Riina e poi tra i pentiti più importanti della storia di Cosa nostra. “Riina era un uomo carismatico, per me è stato un papà . Siamo stati in galera insieme. E lì è nata una profonda amicizia. Lui era un personaggio carismatico. Non era prepotente, lui conquistava le persone con le belle parole. Non abbiamo mai litigato, solo che a un certo punto ognuno ha preso la sua strada”, ha raccontato il collaboratore di giustizia che nel giorno della morte del capo dei capi ha partecipato ad un incontro alla Stampa estera con alcuni corrispondenti internazionali a Roma.
Incappucciato, ha riavvolto indietro il nastro della storia, sostenendo che dietro l’arresto di Luciano Liggio ci fosse proprio Riina.
“Fino al 1973/74 Riina è stato agli ordini di Luciano Liggio. Poi Liggio lo voleva estromettere e allora lui l’ha fatto arrestare a Milano nel 1974. E lì Riina ha preso il potere. Perchè Riina era diverso da Bernardo Provenzano che era un bonaccione“, sono le parole usate da Mutolo.
Che poi dà una sua personale visione della seconda guerra di mafia scatenata dallo stesso Riina. “Riina — ha detto il pentito — arrivò a costruire questo sistema che induceva le persone a lui affezionate a tradire i loro capi. Lui ha fatto uccidere i suoi migliori amici perchè a un certo punto è diventato pazzo e aveva paura di essere tradito a sua volta”.
Quindi spazio anche ai rapporti tra mafia e politica.
“In Cosa nostra — ha detto Mutolo — c’erano anche i cugini Salvo che con Salvo Lima erano il potere. Erano amici di Andreotti. La mafia era ben vista finchè non si è messa contro il governo. Nei Paesi comandavano tre persone: il prete, il mafioso e il maresciallo. Il maresciallo non perseguitava il mafioso perchè non era un criminale come gli altri”.
E quando parla di rapporti tra mafia e politica Mutolo poi tira in ballo anche Silvio Berlusconi. “Anche Berlusconi: l’amico intimo di Berlusconi che è Dell’Utri è in galera: vogliamo fare scomparire questo? Noi a Palermo vedevamo che Mangano faceva lo stalliere ad Arcore”
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
PER CHI NON E’ RAPPRESENTATO IN PARLAMENTO OCCORRONO 45.000 FIRME SU 70 COLLEGI E CON TEMPI RISTRETTI
E’ possibile ancora intervenire con un decreto che abbatta il numero di firme necessarie
per la presentazione delle liste per le prossime elezioni?
Secondo i Radicali italiani sì. Emma Bonino, il segretario Riccardo Magi, assieme al presidente di Forza Europa e sottosegretario del governo Benedetto della Vedova, hanno inviato una lettera al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni per chiedere di correggere quelle norme introdotte dalla legge elettorale che «sono irragionevolmente punitive e discriminatorie nei confronti delle formazioni politiche che non fanno riferimento a gruppi parlamentari già costituiti nelle due Camere».
Agli sgoccioli della legislatura i radicali tornano con una delle loro battaglie più sentite.
Chi non è rappresentato in Parlamento è obbligato a raccogliere le firme. Ma «la previsione di un numero altissimo di fatto impedirebbe» l’esercizio del diritto di associarsi liberamente tutelato dagli articoli 49 e 51 della Costituzione.
«Tempi, modalità di raccolta, autenticazione e certificazione delle sottoscrizioni» nei pochi mesi rimasti allo scioglimento delle Camere e con le vacanze alle porte, rendono tutto più arduo.
La richiesta contenuta nella lettera è semplice: un decreto per dimezzare le firme e l’avvio della sperimentazione della firma digitale per abbattere le barriere architettoniche elettorali, soprattutto ora che arriva la stagione più rigida, non proprio invitante per chi deve fisicamente stare o recarsi ai banchetti.
Di che numero di firme parliamo? A oggi sono 45 mila circa (erano 120 mila all’alba delle scorse elezioni, nel 2012).
La metà , circa 23 mila, aiuterebbe a rimanere in corsa. Un’impresa resa comunque complicata, secondo i radicali, «perchè la nuova legge elettorale impone un meccanismo di raccolta più diffuso, in una settantina di collegi plurinominali, anzichè nelle 26 circoscrizioni regionali» previste con la legge precedente.
Inoltre, facendo due conti, prima della prima metà di dicembre è difficile che siano disegnati i collegi, «e dunque non sarà concretamente possibile avviare la raccolta delle sottoscrizioni».
Significa avere tempi ancora più stretti per un partito come i radicali, non presente in parlamento, e oggi fermo a un bivio tra la voglia di creare un nuovo soggetto europeista e federalista (assieme a Della Vedova) e l’esigenza di apparentarsi con la sinistra di Giuliano Pisapia o il Pd di Matteo Renzi.
(da “il Corriere dela Sera”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
SCAMBIO DI CORTESIE TRA I DUE: “SILVIO HA USUFRUITO DI RENDITA DI OPPOSIZIONE”, “OCCORRE PIU’ ONESTA’ INTELLETTUALE”, “STALINISTA”
«Il presidente Berlusconi sbaglia ad attaccare Ap come ha fatto nella trasmissione “Porta a Porta”. Se Ap non avesse salvato la legislatura mantenendo l’appoggio a quel governo Letta che Berlusconi aveva fatto nascere per poi togliergli l’appoggio dopo pochi mesi, si sarebbe andati a elezioni anticipate con un probabile successo del M5s di fronte al fallimento sia del Pdl che del Pd».
Lo ha detto Fabrizio Cicchitto (Alternativa Popolare), che ha aggiunto: «Quindi, paradossalmente Berlusconi è anche un po’ ingrato perchè, come è accaduto nelle legislature precedenti, in questa ha potuto usufruire della rendita di opposizione nei confronti dei governi Pd-Ap così come è avvenuto invece nel passato a vantaggio della sinistra quando era al governo il centrodestra. Berlusconi ha rifiutato l’appello di Ap di aggregare una grande area di centro e si è messo in una cattiva compagnia – quella lepenista e sovranista della Lega di Fratelli d’Italia – con il rischio di cavalcare spinte nel Paese che sono contraddittorie con ogni politica di Governo»
«Smemorato
«Cicchitto che dà dell’ingrato a Berlusconi è come quel bue che dà del cornuto all’asino». Così Gianfranco Miccichè, commissario di Forza Italia in Sicilia, replicando alle dichiarazione di Fabrizio Cicchitto.
«Cicchitto – continua – soffre ormai della stessa sindrome del pugile suonato Alfano: all’occorrenza dimentica di essere stato eletto coi voti degli elettori di centrodestra, salvo poi essersi accomodato tra i banchi del governo di sinistra. Non guasterebbe maggiore onestà intellettuale da parte di chi, come lui, ha tradito non solo la fiducia di Berlusconi ma soprattutto quella dei nove milioni di italiani che sostennero la coalizione di centrodestra nel 2013. E se proprio di onestà intellettuale non vuol parlare, Cicchitto, faccia un regalo a tutti gli italiani: ci regali il suo silenzio».
«Traditore»
«Se la mette così, anche Miccichè è stato un traditore quando alle precedenti elezioni siciliane ruppe il Centrodestra, fece perdere Musumeci, presentò una sua lista e – dissero i maligni – mise in atto il voto disgiunto a favore di Crocetta. Può darsi che il sottoscritto sia suonato senza aver mai fatto il pugile, ma a sua volta Miccichè è un grottesco stalinista di ritorno che attacca chi non è d’accordo con lui e con Berlusconi dandogli del traditore».
Così il deputato di Ap Fabrizio Cicchitto risponde a Gianfranco Miccichè che gli aveva dato del «pugile suonato».
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
CHAIMAA, ITALO-MAROCCHINA, STUDENTESSA DI LEGGE A MODENA, HA RACCOLTO ON LINE STORIE DELLE DONNE ISLAMICHE CHE VIVONO IN ITALIA, TRA PREGIUDIZI E IGNORANZA
C’è la ragazza incinta, in fila al comune, alla quale chiedono se in pancia porta delle
bombe. C’è quella che si presenta al colloquio di lavoro, ma non fa in tempo a tirare fuori il curriculum che viene subito allontanata dal titolare.
C’è la signora che entrando in banca sente l’impiegata dire alla collega: “Oddio, una marocchina, una terrorista”. L’infermiera tirocinante viene offesa e cacciata dalla paziente. La giovane convertita, attaccata sui social perchè “sei una subdola demente, segui una religione di odio e di morte”.
Ci sono Haifa, Nada, Raya, Yasmeen, Inas e i loro racconti di donne velate: un susseguirsi di offese e ingiustizie, per colpa di un foulard che copre collo e capelli.
A raccogliere le loro confidenze è Chaimaa Fatihi: il suo computer e il suo cellulare si riempiono ogni giorno di sms ed email di sfogo.
Chaimaa Fatihi, 24enne italiana d’origine marocchina, studia Legge a Modena ed è membro attivo dei Giovani musulmani d’Italia.
Nel novembre del 2015, all’indomani della strage del Bataclan, a Parigi, una sua lettera contro i terroristi islamici viene pubblicata da Repubblica, da lì ne nasce un libro (“Non ci avrete mai. Lettera aperta di una musulmana italiana ai terroristi”, Rizzoli).
Da quel momento, senza volerlo, Chaimaa diventa un punto di riferimento per le tante ragazze velate italiane, un’amica con cui confrontarsi e sfogarsi. Da qualche settimana, la studentessa ha cominciato a raccogliere le loro confidenze, in una sorta di “diario delle discriminazioni”.
Yasmeen, per esempio, ha 20 anni, frequenta il Dipartimento di infermieristica, sta seguendo un tirocinio presso un ambulatorio e fa qualche visita domiciliare.
In un lungo sms a Chaimaa scrive: “La settimana scorsa mi sono presentata in divisa e con il mio velo a casa di una paziente, ho sorriso, ma non ho fatto in tempo a dire “buongiorno” che la signora ha iniziato a urlare e a umiliarmi solo perchè indossavo il velo. Mi ha giudicato senza darmi il tempo di entrare in casa e di fare il mio lavoro. Sono riuscita solo a dirle: “Sono italiana come lei, sono nata e cresciuta qui, che male c’è se sono musulmana?”. È stato uno shock. La signora mi ha vietato di ripresentarmi. Non sarà un episodio come questo a fermarmi, anzi, ora sono disposta a lottare ancora più di prima e a continuare sulla mia strada”.
Haifa racconta invece di quella volta che, mentre la mamma velata entrava in banca, la cassiera sbottava: “Oddio, una terrorista”. Raya, studentessa, ricorda quando alle medie la chiamavano la “figlia di Bin Laden” e un compagno le strappò l’hijab dalla testa davanti a tutta la classe. Non solo. Al telefono Raya non nasconde la rabbia per quell’altra volta in cui “ero in comune a fare la fila, ero incinta e un signore mi chiese se il bambino in pancia portasse anche delle bombe”.
Inas confida a Chaimaa di quando a un colloquio di lavoro il titolare le disse: “Assumere una ragazza con il velo alla reception non va bene perchè non offre una buona immagine ai clienti. Te lo dovresti togliere, sai?”.
E ancora: Faatina torna al momento in cui salendo su un aereo per un volo Oslo-Milano si sedette insieme al marito e al figlio dietro a due ragazzi, che cominciarono subito a messaggiarsi tra loro: “Attento, ci sono due musulmani dietro di te, spero non siano terroristi. Hanno un bambino, ma non si sa mai”.
Nada, italiana convertita all’Islam, riceve regolari insulti su Facebook e li gira a Chaimaa: “Vergognati, i tuoi nonni si rivolteranno nella tomba. Ma come si fa a convertirsi all’Islam, questa pseudo-religione di odio, di morte e mortificazione della donna. Lei e i quattromila che cambiano religione ogni anno nel nostro Paese siete dei subdoli dementi”.
Chaimaa commenta: “Per me è un dolore continuo ascoltare queste storie, tutte le ragazze che mi contattano sono e si definiscono italiane. La loro sofferenza è sentirsi rifiutate nel proprio Paese. Sono vicende tutte simili che si ripetono. Ci si sente estranee, ferite. Sono cicatrici che rimangono per sempre addosso. Dopo gli attentati terroristici, compiuti da gente che bestemmia il nome di Dio e tradisce l’Islam, la situazione si è fatta esplosiva. Come se tutto ciò di terribile che accade nel mondo fosse colpa nostra e del nostro essere semplicemente delle giovani musulmane italiane”.
(da “la Repubblica”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
I FEDELI PROTESTANO: IN 5 CINQUE ANNI “LICENZIATI” IN 5
Il primo è stato don Claudio. «Di lui dicevano che faceva prediche da sempliciotto, troppo terra terra. In più aveva dato ospitalità a una ragazza con la faccia sempre mesta, che alloggiava nel convento delle suore. Eppure subito erano incominciati i pettegolezzi. Sempre il solito gruppetto. Ho visto don Claudio ammutolito, quasi sull’orlo del pianto, per le critiche continue».
Il secondo è stato padre Godfrey dalla Tanzania. «Un prete molto deciso. Determinato. Lo criticavano proprio per questo. E poi per il fatto di essere di colore, anche se ovviamente dicevano di non essere razzisti».
Così è stato per il terzo, e anche per il quarto.
Il quinto parroco rimosso in cinque anni, da questa chiesa di periferia che si chiama Maria Speranza Nostra, è invece don Valeriano Paitoni. Ha detto messa per l’ultima volta domenica scorsa. «La sua colpa è di essere molto diretto. Uno che dal pulpito dice: “Halloween è il diavolo”. Quando pronunciava l’omelia, restavi incantato. Parlava di dialogo. Di accoglienza. Coinvolgeva i bambini.
Ma quel solito gruppetto, sempre lo stesso, ha fatto rimuovere anche lui».
Il signor Antonio Muriglio, un sarto in pensione, racconta tutto questo davanti alla chiesa del suo quartiere. Via Chatillon, Barriera di Milano.
È nato qui, fa il volontario per la San Vincenzo e viene a messa ogni domenica da 54 anni. «Abbiamo scoperto di avere dei buttafuori dentro la nostra parrocchia», dice con un sorriso amaro. «Su cento famiglie che frequentano questa chiesa, quelle che non apprezzavano i metodi liturgici di don Valeriano erano una netta minoranza. Al massimo dieci. Eppure, ancora una volta sono riuscite a fare prevalere la loro volontà . Devono spiegarci perchè».
È una zona difficile, ma con un forte tessuto sociale. Il barbiere Jerry, proprio davanti alla chiesa, dice: «Il problema è semplice. Siamo un quartiere povero. Case popolari. Pensioni minime. Il commercio in crisi. Molti fanno fatica ad arrivare a metà del mese».
Eppure, in questa storia dei parroci che arrivano e subito se ne devono andare, non sembrano c’entrare tanto i problemi, le tensioni sulle strade e le difficoltà quotidiane. Quanto, piuttosto, il modo stesso di intendere la Chiesa.
Quella di Maria Speranza Nostra è l’unica parrocchia della diocesi di Torino data in affidamento ai missionari della Consolata. I preti chiamati qui si assomigliano tutti.
Don Valeriano Paitoni è stato per 43 anni in Brasile. È un prete di strada, ha svolto il suo incarico nelle favelas. È stato vicino ai malati di Aids, ed anche per questo forse si è pronunciato più volte a favore dell’uso dei profilattici. «Ma anche semplicemente il suo modo di porsi, al solito gruppetto, non piaceva», dice una signora venuta a lavare il pavimento della chiesa. «Sono famiglie vicine ad Azione Cattolica. Integralisti. Hanno una mentalità molto arretrata. Non sopportavano neanche il fatto che don Valeriano iniziasse la messa dando a tutti il buongiorno». Hanno iniziato a criticarlo tre mesi dopo il suo arrivo.
Il gruppo di fedeli legati ad Azione Cattolica ha scritto diverse lettere di contestazione ai vertici della curia. Criticavano la ristrutturazione della cucina della parrocchia. Oppure le spese per le bolletta della luce. Una critica continua. Sempre più aspra. 14 mesi dopo, la chiesa di Maria Speranza Nostra ha un nuovo parroco. Si chiama Nicholas Muthok, originario del Kenya, anche lui missionario e già vice proprio di don Valeriano Paitoni: «Sono stati mesi di forte tensione. Ma le scelte spettano ai superiori. Non mi hanno detto di più».
Don Valeriano, il quinto parroco licenziato in cinque anni, sta chiuso nella sua stanza ed è molto addolorato. Non ha firmato le sue dimissioni e sta scrivendo una lettera che manderà al vescovo e leggerà domani in chiesa. Nessuno per il momento vuole spiegare di più.
Don Valter Danna, vicario generale della diocesi di Torino, dice: «Affidando quella parrocchia ai Missionari della Consolata volevamo animare una zona non facile della città . Io non so perchè sia stato rimosso don Valeriano Paitoni. E anche se lo sapessi non potrei rispondere a questa domanda, perchè la decisione spetta alle Missioni della Consolata».
Che dicono soltanto: «Il parroco se ne va per il bene della comunità ». Ma quale bene? Quello della maggioranza o quello di una piccola minoranza intransigente?
(da “La Stampa“)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
TRA OLBIA E TEMPIO GLI ABITANTI RESTANO SEMPRE ISOLATI, NON HANNO RIMOSSO NEANCHE LE CARCASSE DELLE AUTO FINITE NEL BURRONE
I cespugli che crescono e si aggrovigliano, oggi coprono tutto. Ma questo scandalo è
davvero difficile da nascondere.
Per rabbrividire bisogna scendere giù dalla scarpata, attraversare una barriera di vegetazione e sperare di non scivolare giù tra i sassi.
Nel fondo di questo canyon, scavato dalla furia dell’acqua che quattro anni fa ha sconvolto la Sardegna e ucciso 19 persone, la morta ha lasciato tracce che l’uomo non ha ancora avuto il coraggio di cancellare.
Le due auto sepolte dai sassi e dalla sabbia sono ancora qui, incastrate in questo burrone dal 18 novembre del 2013. E sui sedili accartocciati non è rimasto neppure un fiore secco.
Il fuoristrada nero che poi i vandali hanno saccheggiato quel lunedì pomeriggio è diventato la tomba di Bruno Fiore, della moglie Sebastiana e della loro consuocera Maria Loriga.
Andavano da Olbia a Tempio e a metà strada si sono ritrovati nel vuoto. Nell’Alfa, che la furia della corrente ha parcheggiato cinque metri più giù, c’era invece Veronica Gelsomino, l’unica scampata a un dramma che forse si poteva evitare. Quattro anni dopo il passaggio del ciclone Cleopatra, questo angolo di Gallura è ancora sconvolto.
Chi abita qui ha finito le lacrime, ma non la rabbia.
Perchè dopo aver imprecato contro il terribile uragano, ha capito che le responsabilità sono anche (o soprattutto) degli uomini. E questo balza agli occhi di chiunque, arrivando fin qui e osservando la strada che quel giorno è stata divorata dalla piena dei fiumi.
Oggi tutto è esattamente come quattro anni fa: un guardrail penzolante e una voragine che si allarga sempre di più. Sassi e pezzi di asfalto scaraventati ovunque, le tracce di una strada che di certo non era stata realizzata a regola d’arte.
«Per unire le due colline avevano riempito la vallata con una montagna di terra e poi con una lingua di asfalto hanno fatto la strada – racconta Lorenzina Cabiddu – Un progetto scandaloso, indegno e neppure collaudato, tanto che dopo una ventina d’anni la natura ha buttato giù tutto quel castello di sabbia».
A quattro anni dall’alluvione la strada di Monte Pino è diventata una grande vergogna. All’Anas erano stati assegnati i 5 milioni per il ripristino ma 1.825 giorni non sono bastati e adesso che è tempo di commemorazioni è iniziata la guerra tra le istituzioni. Il botta e risposta tra Regione ed ente nazionale delle strade ha fatto venire fuori una verità scomoda: il progetto di rifacimento è già esecutivo, ma l’appalto non è stato assegnato perchè non era stata realizzata l’indagine sul rischio idrogeologico. Insomma, la lezione di Cleopatra non è stata imparata.
«Noi che viviamo qui siamo in trappola da quattro anni – protesta Giuseppina Pasella, presidente di un comitato di cittadini che nei prossimi giorni bloccherà il traffico all’ingresso di Olbia – Sembra che tutti abbiano paura di occuparsi di questa strada come se temessero di scoperchiare scottanti responsabilità ».
E a questo proposito, sul crollo di Monte Pinu la procura di Tempio ha aperto due inchieste. Una (non ancora approdata in un’aula di tribunale) riguarda la morte della famiglia Fiore, l’altra è stata avviata in questi giorni e interessa i ritardi sul rifacimento della strada.
«Della disperazione di chi vive qui o di chi ogni giorno va da Olbia a Tempio nessuno si è occupato», sottolinea l’avvocato Andrea Viola, che ha promossa una petizione rivolta al ministero delle Infrastrutture.
Intanto chi abita tra Tempio, Sant’Antonio, Priatu e Calangianus fa i conti con l’isolamento. A iniziare da Paolino e Martina Fresi, i titolari di un agriturismo che si affaccia proprio nel tratto di strada crollata: «Da quel giorno nella nostra struttura non viene più nessuno, perchè è impossibile arrivare. È come se anche noi fossimo morti il 18 novembre».
(da “La Stampa”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
LO STUDIO DELLA CGIA DI MESTRE: NELLE LITI L’ERARIO PREVALE NEL 45% DEI CASI, I RICORRENTI NEL 31.5%
Nella guerra con il Fisco, i contribuenti escono sconfitti ma di misura: 4 a 3.
Secondo quanto evidenziato dalla Cgia di Mestre, negli esiti riferiti ai contenziosi fiscali definiti nel 2016 in tutte le Commissioni tributarie provinciali del paese, nel 45 per cento dei casi ha avuto ragione l’erario, nel 31,5 per cento, invece, ha vinto il contribuente.
Lo scarto aumenta quando il risultato è riferito al valore economico del giudizio, cioè non considerando il numero dei contenziosi ma gli importi collegati.
Sempre nel 2016, gli importi delle sentenze a favore del fisco sono stati pari al 48,1 per cento, mentre la percentuale di vittoria ad appannaggio del contribuente si è fermata al 23,4.
Anche in Commissione tributaria regionale si registrano più o meno gli stessi differenziali sempre a vantaggio degli uffici del fisco.
Si deve considerare – rileva comunque la Cgia – che fare valere le proprie ragioni nei confronti del Fisco, ricorrendo alla giustizia tributaria ha un costo, non solo in termini di tempo, ma anche di denaro; le cifre che si deve sobbarcare il contribuente variano di molto in relazione alla complessità e al valore della pratica e sono dell’ordine delle migliaia di euro.
Inoltre il ricorso non evita il versamento, anche se parziale, di quanto richiesto dal Fisco: nel caso di un avviso di accertamento ad esempio è prevista la riscossione di un terzo delle imposte contestate, mentre prima di ricorrere in secondo grado (in caso di sentenza avversa al contribuente in primo grado) si deve versare due terzi degli importi dovuti a titolo di imposta ed interessi (al netto di quanto già versato).
Se a ciò si aggiunge che il tempo medio della giustizia tributaria è di circa 2 anni e 2 mesi per ognuno dei due gradi del giudizio, si spiega come per importi “piccoli” al contribuente convenga pagare piuttosto che ricorrere.
L’analisi dei giudizi pendenti presso le Commissioni Tributarie evidenzia come a partire dal 2012, si registri un calo progressivo che ha portato la giacenza a scendere al di sotto delle 500 mila unità nel 2016 (469.048 liti pendenti), prevalentemente a causa all’introduzione dell’istituto della “mediazione”.
Dal 2012 infatti, nel caso di controversie di importo sino a 20.000 euro, esiste una fase anteriore alla procedibilità del ricorso in primo grado.
In questa fase, l’Agenzia delle Entrate ovvero gli enti parti della controversia, prendono in considerazione il reclamo presentato dal contribuente che può contenere anche una proposta di accordo (mediazione).
(da “La Repubblica”)
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Novembre 18th, 2017 Riccardo Fucile
A BREVE SI DECIDERA’ SUL RINVIO A GIUDIZIO… L’IMBARAZZO DEL CAMPIDOGLIO
Una decisione difficile. Da una settimana la procura di Roma ha inviato al Comune di
Roma l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare per la decisione sul rinvio a giudizio chiesto da piazzale Clodio per Virginia Raggi.
Il Comune quindi dovrà decidere se costituirsi o meno parte civile contro la sindaca in vista dell’udienza preliminare fissata per il 9 gennaio, anche per poterle chiedere un risarcimento in caso di condanna.
La storia ovviamente imbarazza il Capidoglio e la racconta oggi Simone Canettieri sul Messaggero:
Un corto circuito politico-amministrativo che rappresenta un unicum nella storia di Palazzo Senatorio. L’ultimo precedente famoso riguarda Silvio Berlusconi e la decisione dello scorso maggio dell’Avvocatura dello Stato di costituirsi parte civile nel processo Ruby-Ter. Questo caso però è diverso: la grillina, accusata di falso per le nomine, è attualmente in carica.
E quindi la decisione sta mettendo in imbarazzo la giunta pentastellata che è pronta a parlarne in una riunione straordinaria ad hoc.
Il fascicolo, dal punto di vista tecnico, è nelle mani di Carlo Sportelli, il capo dei legali capitolini. Il problema al momento è semplice: come muoversi? Il Comune di Roma è davvero pronto a chiedere un eventuale risarcimento alla sindaca, cioè all’autorità che lo rappresenta?
La situazione è abbastanza paradossale
Raggi, per una questione di opportunità , potrebbe solo delegare al vicesindaco Luca Bergamo la firma dell’atto.
Come d’altronde è già avvenuto per la vicenda Marra-Scarpellini, che non la riguardava direttamente. Al massimo la lambiva.
In questa fattispecie però il problema è ancora più complesso e delicato. Raggi deve scegliere se far costituire subito l’amministrazione contro lei stessa oppure se aspettare il rinvio a giudizio e l’inizio del processo: in quel caso c’è tempo fino a un eventuale prima udienza del dibattimento.
Di solito, l’avvocatura comunale quando è parte offesa scende subito in campo per rafforzare così la richiesta dei pubblici ministeri davanti al gup.
Sarà così anche questa volta? Ma non finisce qui.
L’atto in questione ha bisogno, secondo la delibera 182 del 2001, anche di una determina dirigenziale. Si tratta del regolamento che mette ordine nelle liti attive «dell’amministrazione».
Il parere burocratico, secondo una certa consuetudine, deve arrivare dall’ufficio o dipartimento dove si sarebbe consumato il reato.
(da “NextQuotidiano”)
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