Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
DIETRO LA MOSSA DI BOBO, IL DISEGNO DI BERLUSCONI: AVERE UNA LEGA “RESPONSABILE” CON CUI DIALOGARE DOPO IL VOTO… SALVINI INFURIATO… LO AVEVAMO DETTO 24 ORE FA
Come ai tempi in cui Berlusconi aizzava, adulava e allettava i “colonnelli” di An contro Gianfranco Fini, legandoli a sè per depotenziare lo scomodo alleato. Solo che, al posto di Fini, in questo deja vu del berlusconismo c’è l’odiato Salvini.
Per capire lo strappo di Roberto Maroni e la sua rinuncia a ri-candidarsi in Lombardia, occorre riavvolgere la pellicola del film.
E fermarla alla scena numero uno.
Nella giornata di sabato il leader della Lega è in montagna con la figlia, per un ultimo giorno di relax. E Roberto Maroni è a colloquio con Silvio Berlusconi.
Tra i due il rapporto è solido, fatto di confronti periodici, di stima e amicizia reciproca, e di un’intesa ostentata anche in pubblico, come quando il governatore lombardo in un’intervista al Corriere criticò la linea lepenista di Salvini, richiamando le origini nordiste e la centralità della coalizione con Forza Italia.
Nel corso della lunga e amichevole chiacchierata la decisione, di non candidarsi al Pirellone, diventa irrevocabile.
La scena numero due, che spiega tutto, è del giorno dopo, nel corso del vertice ad Arcore, dopo che Salvini ha da poco appreso la notizia.
I tortelli di zucca sono ancora fumanti sui piatti e Silvio Berlusconi, col sorriso di chi la sa lunga, si rivolge a Giancarlo Giorgetti, altro colonnello leghista: “Giancarlo, perchè a questo punto non ti candidi tu?”.
Giorgetti, uomo forte della Lega da diversi lustri, sin dai tempi di Bossi, in passato ha più volte accarezzato l’idea di correre per il Pirellone, ma non in questo modo, sulla scia di un’emergenza, e declina garbatamente l’invito che il Cavaliere gli ha rinnovato anche questo pomeriggio, nel corso di un nuovo colloquio, sempre ad Arcore, dimora tornata ad essere il centro di gravità permanente del centrodestra italiano.
Ma della candidatura lombarda parleremo tra un po’. Torniamo alla dinamica.
Dice un azzurro di casa ad Arcore: “Il gioco di Berlusconi è semplice. La sua best option restano sempre le larghe intese, e sta provando a prendersi una parte della Lega. Giorgetti lo vuole avvolgere con la poltrona della Lombardia, governando assieme, Maroni lo utilizza apertamente in funzione anti-Salvini”.
Le parole di oggi del governatore uscente confermano questa tesi: “Non vado in pensione e resto a disposizione, perchè so che cosa significa governare”.
Non proprio le parole di uno che si ritira dalla politica per motivi personali. L’operazione pensata , prosegue la fonte di rango, è questa: “Al momento in cui si discuteranno le larghe intese, Salvini dirà no. E occorrerà una parte responsabile della Lega che possa sostenere il governo. Appunto, Maroni e una pattuglia di parlamentari. È chiaro che in un governo del genere un ex ministro dell’Interno ha tutti i titoli per entrare”.
Si spiega così l’ira funesta di Salvini, che ha subito, dall’inizio, l’intera operazione e ne vede le possibili conseguenze.
I sospetti del giorno prima sul complottone del Cavaliere sono diventate certezze nella giornata di oggi, dopo le dichiarazioni del governatore lombardo.
Al punto che ha già fatto sapere che Maroni non sarà candidato perchè — questo il ragionamento — “se uno non ricandida in regione per motivi personali, per quali motivi si deve andare in Parlamento?”.
Torniamo alla Lombardia.
Il candidato è Attilio Fontana, ex sindaco di Varese, ex presidente del consiglio regionale lombardo, uomo mite, non troppo noto, nella geografia interna della Lega legato a Giorgetti, anche se non convince fino in fondo Forza Italia, che spinge per la Gelmini.
Il problema è che, nel gioco delle caselle per le regionali, in quota Forza Italia c’è già il Lazio col nome di Maurizio Gasparri, ex colonnello che lasciò Gianfranco Fini. Perchè poi, in fondo, il Cavaliere conosce la riconoscenza anche a distanza di anni.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
E’ IMPUTATO PER LE PRESSIONI OPERATE PER FAR OTTENERE CONTRATTI A DUE FEDELISSIME SEGRETARIE, PENA PREVISTA SOSPENSIONE IMMEDIATA DA GOVERNATORE… MA SE SEI PARLAMENTARE E’ NECESSARIA UNA SENTENZA DEFINITIVA DI TERZO GRADO
Passata la sorpresa per l’addio al Pirellone, che neanche Lucia ai monti, la domanda che tutti
si fanno è perchè Roberto Maroni, presidente della Lombardia, con buone chance di essere rieletto governatore, lascia la poltrona?
I “motivi personali”, che non sono di salute, però non gli hanno impedito di informare in conferenza stampa che è “a disposizione”, che “ha idee, progetti”.
In pubblico non avanza “pretese, nè richieste” salvo puntare i piedi per un seggio sicuro in Parlarmento, con ogni probabilità al Senato, come raccontano dalle retrovie leghiste. Laggiù nella Roma che fu ladrona, dove è stato due volte apprezzato ministro dell’Interno e poi del Welfare, l’ex segretario della Lega sarà più al sicuro dalle conseguenze di una eventuale condanna nel processo che si sta svolgendo a Milano e che con molta lentezza si sta avviando alla conclusione.
Il giudizio si è aperto il 30 novembre 2015 e il dibattimento è stato aperto solo 10 mesi dopo, alla requisitoria manca poco: un paio di udienze.
Il già deputato, e chissà futuro senatore, è imputato per le ipotizzate pressioni per far ottenere contratti a due fedelissime: quell’indebita induzione che fu concussione (prima dello spacchettamento) che è punita dalla legge Severino con la sospensione immediata dalla carica di governatore.
Quella stessa norma prevede anche la decadenza da parlamentare, ma solo quando la Cassazione conferma una sentenza di condanna.
Proprio come è accaduto a Silvio Berlusconi che ha perso la poltrona rossa di Palazzo Madama solo tre mesi dopo il verdetto definitivo sul caso Mediaset.
Fatti due conti all’uomo della ramazza del dopo Bossi e dello scandalo sui soldi pubblici usati per le spese della Family conviene salutare la Lombardia.
Anche perchè conclusi gli appuntamenti in aula, con le ultime audizioni dei testi della difesa (11 e forse 25 gennaio), il pm Eugenio Fusco è pronto per chiedere al Tribunale la condanna.
Il “processetto“, così lo chiamò in udienza proprio il pubblico ministero, che però si è rivelato di uno dei più lunghi della storia recente del Palazzo di giustizia milanese (con una serie di udienze saltate per il mal di schiena dell’avvocato Michele Aiello), sicuramente subirà uno stop per la campagna elettorale; basti ricordare che quando Maroni fu candidato capolista a Varese nel giugno del 2016 il Tribunale sospese e rinviò.
Quindi solo a elezioni concluse si potrà tornare in aula ad aprile e chissà che i giudici a maggio non riescano, a due anni e mezzo dalla prima udienza, a emettere la sentenza.
Ma a quel punto che sia assoluzione — e dopo il verdetto per l’ex dg di Expo Malangone non lo si può certo escludere — o condanna, Maroni potrà contare sullo scudo parlamentare.
Se non addirittura — se dovesse essere confermato il rumor di un ventilato ingresso a Palazzo Chigi — su una protezione di livello istituzionale.
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
ANCHE LA BOSCHI POTRA’ ESSERE RIPESCATA
“Il sottosegretario Boschi sarà ricandidato vedremo dove, penso in più di un posto come tutti gli altri. Come me che mi candiderò sia nel collegio di Firenze e poi ragionevolmente in Lombardia e Campania. Questo vale per tutti i dirigenti del Partito e anche per la Boschi”.
Matteo Renzi torna a Roma dopo la pausa natalizia e chiarisce così le intenzioni del Pd sulle candidature per le politiche del 4 marzo. –
Tutti candidati nei collegi e poi anche nei listini proporzionali, che nel sistema del Rosatellum servono a ripescare gli eventuali non eletti nell’uninominale.
“Nelle liste del Pd – dice ancora Renzi ospite a Otto e mezzo – ci saranno Gentiloni, Padoan e persone della società civile: in particolare al mezzogiorno ci saranno persone in prima linea sulla legalità ”
In giornata, i rumors del Pd dicevano dell’intenzione di mettere in salvo Paolo Gentiloni e spedire Maria Elena Boschi alla prova dei voti. Cioè: Gentiloni candidato nei listini proporzionali (Lazio, Piemonte, Puglia) e Boschi candidata solo nel collegio di Firenze per la Camera dei deputati.
Ma poi ha prevalso la linea collegi e listini per tutti. Che equivale a dire: paracadute per tutti. E anche il ministro Padoan, che proprio oggi ha chiarito di aver “avuto dei colloqui” e di essere “disponibile” ad una candidatura, dovrebbe essere candidato in un collegio (Roma probabilmente) e nei listini.
Un punto interrogativo c’è: per Boschi. Fonti vicine al segretario suggeriscono che su di lei potrebbe prevalere l’intenzione iniziale di farla correre solo nel collegio fiorentino, lasciarla insomma in balia dei suoi voti se ce li ha.
Ma il risiko delle candidature è ancora solo abbozzato. E comunque Firenze risulta zona sicura per il Pd in quella mappa un po’ dantesca che al Nazareno suddivide i collegi in tre categorie: “sicuri, persi, in bilico”.
E’ questa la griglia con cui il segretario si rimette al lavoro dopo la pausa natalizia.
Tre categorie, tre gironi un po’ tutti infernali per i Dem. A partire da domani, Renzi li passerà al setaccio con i segretari regionali del Pd. Sono convocati al Nazareno, li incontrerà uno per uno e con loro esaminerà le proiezioni sui possibili candidati per ogni singola regione. Un lavoro che durerà 2-3 giorni per poi lasciare spazio all’assemblea programmatica con gli amministratori locali del Pd al Lingotto di Torino venerdì e sabato prossimo. La prima giornata verrà chiusa dall’intervento di Gentiloni.
E andiamo alle categorie. Anzi ai gironi. La prima: i collegi sicuri. Sono in Toscana, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, un paio a Roma, altrettanti in Lombardia e Campania. La seconda, i collegi perdenti per i Dem: prevalentemente al nord e in Sicilia. La terza: ‘in bilico’ è tutto il resto della penisola, di quell’allarme rosso diffuso che richiede scelte oculate.
Il puzzle delle candidature per le politiche del 4 marzo si comporrà solo all’ultimo momento utile prima della scadenza del 29 gennaio.
Il sistema Rosatellum, basato sulla sfida per collegi con ripescaggi nel proporzionale, impone a ogni schieramento o partito di scrutare le mosse dell’avversario prima di decidere, come in una partita a poker. Le scelte strategiche verranno fatte solo alla fine: dopo aver capito le carte dell’altro, ovvero a seconda di quali sono i candidati avversari nei collegi. Soprattutto quelli in bilico, appunto.
E proprio perchè ci sono ben pochi collegi sicuri, l’idea iniziale era di ‘mettere al sicuro’ il nome di Paolo Gentiloni lasciandolo correre solo in più listini proporzionali di certa elezione, evitandogli il ‘bagno di sangue’ in un collegio. Il premier infatti potrebbe restare in carica per gli affari correnti anche dopo il voto, se le urne non indicassero una nuova maggioranza (modello Merkel in Germania, insomma). E Gentiloni resta un nome spendibile per un governo di larghe intese, un ‘Gentiloni II’.
Il ministro Marco Minniti avrebbe avanzato la richiesta di non correre in Calabria. Mentre scontata dovrebbe essere la corsa di Graziano Delrio nella su Reggio Emilia.
A Bologna invece, contro Pierluigi Bersani di Liberi e Uguali, il Pd dovrebbe schierare Pier Ferdinando Casini, fedelissimo alleato di Renzi e presidente uscente della commissione banche. Perchè? Casini è di Bologna.
Ma nel Pd qualcuno suggerisce che la scelta sia dettata dal tentativo di non ripetere l’esperienza delle regionali in Sicilia, dove tra i due litiganti a sinistra Claudio Fava e Fabrizio Micari, ha vinto il terzo Nello Musumeci del centrodestra. _
Ecco la corsa di Casini servirebbe a sgonfiare l’avversario di centrodestra, qualora risultasse più forte per via della candidatura di Bersani contro il Pd. Funzionerà nella ‘rossa’ (‘ex rossa’) Bologna più di quanto non abbia funzionato in Sicilia?
Intanto Renzi esulta per le regionali in Lombardia. “Dopo la decisione del Presidente Maroni — scrive su Facebook riguardo alla scelta del leghista ‘Bobo’ di ritirarsi dalla corsa – la partita della Regione Lombardia è più aperta che mai. Forse non è mai stata così alla portata del Pd e del centrosinistra, anche grazie a un candidato forte e solido come Giorgio Gori. Chi tra i lombardi che seguono questa pagina ha voglia di #faremeglio contatti Giorgio, si metta in moto, dia una mano. Saranno due mesi bellissimi, stavolta si può fare. Avanti insieme”.
Ma intanto Liberi e Uguali ufficializzano il loro no all’alleanza con Gori: “Non ci sono le condizioni politiche, mercoledì presenteremo il nostro candidato”.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
“SUI GRANDI TEMI SERVE UN ASSE TRA PD E FORZA ITALIA. BASTA BANDIERINE, SERVONO VOLTI NUOVI”
Da uomo del fare, da imprenditore di successo «prestato» alla politica, si tiene alla larga da
strategie e giochi di potere.
Per Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, l’Italia ha bisogno di un governo «dei responsabili», di persone che al di là degli schieramenti si mettano alla stanga per cambiare il Paese.
Da uomo di centrodestra preferirebbe, ovviamente, un successo del suo schieramento, per il quale considera imprescindibile la cosiddetta quarta gamba centrista e moderata. Ma da tempo è convinto che i tempi richiedano un impegno più ampio.
Per i sondaggi il centrodestra ha il vento in poppa: anche a Venezia?
«Lo avverto anch’io – risponde il sindaco Luigi Brugnaro – ma percepisco soprattutto che la gente non si accontenta più solo dell’onestà e vuole competenza».
Cosa significa?
«Visto che è tempo di candidature, si tratta di scegliere persone capaci, competenti, vicine ai problemi della gente. Basta bandierine, lasciamo perdere le quote. Nei collegi uninominali bisogna puntare su volti nuovi che non abbiano a cuore solo gli interessi della propria parrocchia».
Il centrodestra è dato per favorito ma solo ora sta trovando la quadra.
«Deve seguire il modello Venezia. Noi abbiamo sperimentato una maggioranza che va al di là dello stretto schieramento di centrodestra. È fondamentale coinvolgere la cosiddetta “quarta gamba”. L’apporto dei moderati è imprescindibile se si vuole conquistare l’elettorato di centro».
Salvini pesta i piedi
«A Venezia non hanno voluto l’alleanza elettorale e nemmeno l’apparentamento al ballottaggio. Ma poi sono arrivati sulle nostre posizioni e insieme si governa bene».
Con i leghisti ci sono divergenze rilevanti.
«Certo non è pensabile abbandonare l’euro o uscire dall’Europa, altrimenti chissà dove e come finiremmo. Su tante altre tematiche la Lega sostiene battaglie condivisibili. Prima su tutte, quella dell’autonomia che per me significa riforma dello Stato a tutti i livelli. Anche Venezia rivendica una sua autonomia».
A chi tocca fare sintesi?
«A Berlusconi. È un risorsa del Paese e sono convinto che sia anche migliorato perchè ha tratto lezione da qualche errore del passato».
Le hanno chiesto qualche nome da candidare?
«Certo, e non mi sono sottratto».
Per esempio?
«Non faccio nomi altrimenti li brucio subito. Ripeto che bisogna investire su facce nuove e pulite. E inviterò i giovani a non farsi attirare da chi propone soluzioni facili a problemi complessi».
Se il centrodestra non dovesse raggiungere la maggioranza, cosa pensa delle larghe intese?
«La prima opzione è quella ideale perchè consentirebbe di avere una maggioranza coesa. Ma io ho sempre visto con favore un’alleanza più larga basata sull’asse Pd-Forza Italia. Al di là del governo di tutti i giorni, sui grandi temi (dal taglio del debito alle riforme) serve una super-maggioranza dei responsabili, di chi ha a cuore il bene del Paese prima del proprio».
Lei continua a ragionare da sindaco «indipendente».
«Rivendico la mia indipendenza che è quella di chi punta a risolvere i problemi con pragmatismo. Proprio perchè sono libero sono stato il primo in Italia ad affidare le mie aziende ad un blind trust che le gestisce senza che ne sappia nulla. Ma è anche in virtù della mia concretezza che abbiamo tagliato di 60 milioni il debito del Comune e riportato le casse in attivo dopo vent’anni».
Da indipendente voterà Forza Italia o farà altre scelte?
«La cosa bella è che il voto è segreto. Ma io sono per un’area di novità e di moderazione».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
A LUGLIO LA RICHIESTA ALLA SINDACA DI RIFORMULARE IL PIANO DI INDIVIDUAZIONE DELLE AREE IDONEE PER NUOVI IMPIANTI DI TRATTAMENTO DEI RIFIUTI
La saga infinita dei rifiuti di Roma e dell’emergenza monnezza che “non esiste” si è arricchita oggi di un nuovo capitolo.
Tutto merito, bisogna dirlo, dell’assessora all’Ambiente Pinuccia Montanari che oggi ha fatto sapere che a Roma non c’è nessuna emergenza rifiuti e che in ogni caso la colpa è di Regione Lazio che non ha aggiornato e approvato il Piano Regionale di gestione dei rifiuti.
Secondo l’assessora dovrebbe essere la Regione a dire al Comune dove posizionare i siti per lo smaltimento dei rifiuti.
La legge però parla chiaro, sono i Comuni, interpellati dalle Province (e nel caso di Roma dalla Città Metropolitana) a dover individuare “le zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, nonchè delle zone non idonee alla localizzazione di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti”.
Nel caso a qualcuno fosse sfuggito la Città Metropolitana è governata e amministrata dal M5S.
Virginia Raggi — in qualità di sindaco della Capitale — è infatti a capo della ex Provincia di Roma. Ed è proprio qui che iniziano i guai.
Come ha ricordato infatti l’assessore ai Rifiuti e l’Ambiente della Regione Lazio, Mauro Buschini «il Piano Regionale di gestione dei rifiuti è in via di aggiornamento, ma fermo a causa delle mancate risposte di Roma Capitale e della sua Città Metropolitana, che dovevano arrivare entro il 30 settembre 2017».
Ma c’è di più, a luglio 2017 la Città Metropolitana ha sollecitato Roma Capitale e la Raggi ad indicare dove ha intenzione di realizzare gli impianti di smaltimento dei rifiuti.
La situazione quindi è questa: la Regione Lazio attende che la Città Metropolitana indichi dove posizionare gli impianti di trattamento dei rifiuti.
Il Consiglio Metropolitano però nella seduta del 3 luglio 2017 rendeva noto alla sindaca di alcuni problemi concernenti l’individuazione delle aree idonee alla localizzazione degli impianti.
A maggio 2017 la Città Metropolitana inviava ai sindaci dell’area vasta una tavola geografica per indicare il posizionamento degli impianti. Però alcune delle aree “bianche” (ovvero potenzialmente idonee) si trovano ad esempio “all’interno dei territori dei Comuni di Cerveteri e di Fiumicino dove la raccolta dei rifiuti avviene già in modo differenziato” e che ricadono in zone “di elevatissimo pregio ambientale e agricolo”.
Altre invece insistono su Comuni “che hanno raggiunto o stanno raggiungendo l’obiettivo della differenziata” e che “non sono disponibili a passi indietro”.
Inoltre la Città Metropolitana (non la Regione) ha inserito anche il Comune di Colleferro che ha un impianto di trattamento dei rifiuti che non può essere ulteriormente utilizzato e rispetto al quale la Sindaca di Roma ha già dimostrato di avere qualche problemino. A quanto pare quindi la maggioranza consiliare di un ente guidato dalla Raggi ha rilevato che la sindaca aveva commesso qualche errore.
Cosa ha chiesto il Consiglio Metropolitano a Virginia Raggi?
Di riformulare un piano di individuazione delle aree idonee per gli impianti di trattamento dei rifiuti procedendo con “modalità veramente partecipata dal basso” con il coinvolgimento delle comunità locali.
Inoltre il Consiglio chiese alla Raggi di impegnarsi in un confronto fattivo con la Regione Lazio “affinchè si arrivi alla definizione del nuovo Piano di gestione dei rifiuti”.
Quindi, semplicemente, il nuovo piano dei rifiuti non c’è perchè la Città Metropolitana (Virginia Raggi) ha commesso degli errori nell’individuazione delle aree “bianche” senza tenere conto della volontà del territorio e dei suoi abitanti.
Di conseguenza in mancanza delle risposte di Roma Capitale e della Città Metropolitana, che dovevano arrivare entro il 30 settembre 2017, il Piano Regionale è fermo.
A dimostrare le responsabilità dell’ex Provincia c’è — secondo Buschini — la nota della città metropolitana di Roma del 18 dicembre 2017 «la quale ammette di non aver risposto alle sollecitazioni della Regione per avere gli atti necessari ad andare avanti con il piano».
La Raggi non riesce a fare in modo che la Città Metropolitana (che governa) indichi dove piazzare gli impianti di trattamento.
E lo fa perchè prova a far edificare gli impianti sul territorio dei comuni più virtuosi. L’assessore Buschini rincara la dose specificando che «In ogni incontro che ho convocato, Roma Capitale ha sempre negato l’esigenza di una discarica, l’esigenza di impianti, per non fare scelte».
Al tempo stesso però la Raggi ha chiesto alla Regione Lazio di chiedere a Regione Abruzzo di aumentare una maggiore quantità di rifiuti passando da 180 a 300 tonnellate al giorno. In questi ultimi tre anni (dal 2015) Roma ha esportato in Abruzzo oltre 100.000 tonnellate di rifiuti.
Inoltre secondo Buschini bisogna smetterla di dire che si stanno progettando impianti di compostaggio «che indubbiamente servono per il rifiuto differenziato ma oggi Roma ha esigenza di trattare rifiuto indifferenziato».
E la situazione degli impianti di trattamento è quella certificata dalla Fp Cgil Roma e Lazio che in una nota fa sapere che «Roma regge a stento e solo perchè conserva nella pancia degli impianti Ama un’enorme quantità di rifiuti, mandando oltre il 25% a smaltire fuori dal proprio territorio».
E se i rifiuti non riescono a passare per i TMB anche se fosse aperta Malagrotta non farebbe alcuna differenza perchè l’indifferenziato deve passare prima per gli impianti di trattamento meccanico-biologico che — a Roma — sono allo stremo.
Nel frattempo la decisione e la posizione ideologica della Sindaca e dalla Giunta pentastellata che si ostinano a non dire dove vorrebbero che venissero posizionati i nuovi impianti sta producendo i suoi effetti nelle strade di Roma. I continui richiami alla differenziata e agli obiettivi futuri del porta a porta non possono risolvere il problema attuale che è dovuto alle carenze strutturali dei TMB che la Raggi non dice dove vorrebbe posizionare.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
E ADESSO IL CAMPIDOGLIO CHIEDE AIUTO ALL’ABRUZZO
“Roma non può permettersi un’emergenza rifiuti come quella che si sta prefigurando ancora
una volta. Se da una parte vedo tanta solidarietà istituzionale da alcune regioni, penso innanzitutto all’Emilia Romagna come anche all’Abruzzo, dall’altra devo segnalare logiche che nulla hanno a che vedere con la gravità e l’urgenza del problema”. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti.
“Il Ministero – sottolinea in un comunicato – ha promosso un tavolo tecnico con Regione e Comune per affrontare i nodi strutturali che compromettono la chiusura del ciclo integrato dei rifiuti: da lì è emerso ciò che è chiaro a tutti, ovvero la cronica carenza impiantistica, che determina una situazione delicata nella Capitale”. Galletti si è quindi detto disponibile a “cercare una soluzione”. “Ma se il ragionamento di partenza è dare un colore politico ai rifiuti, si rischia grosso”, ha precisato.
Il comunicato arriva dopo le dichiarazioni dell’assessora all’Ambiente capitolino Pinuccia Montanari, che ha affidato a Facebook il proprio commento sull’emergenza in cui versa la Capitale: “Facciamo chiarezza. Tutti sanno che dal 2013 – anno di chiusura della discarica di Malagrotta con il Pd che si dimenticò di pianificare una alternativa – il piano regionale del Lazio non è stato ancora aggiornato: di conseguenza, la Regione non riesce a trovare una alternativa per accogliere le tonnellate di indifferenziato prodotte da cittadini e imprese”.
“Al momento – prosegue Montanari – Roma raccoglie i rifiuti e prova a conferirli nelle poche strutture della Regione che, però, sono insufficienti. Si tratta di un sistema fragile che stiamo rendendo forte con la richiesta di autorizzazioni per costruire impianti di compostaggio e di riciclo; con l’estensione della raccolta differenziata spinta a oltre 1 milione abitanti nel 2018. Quindi, ci auguriamo che l’Abruzzo dia il via libera alla richiesta di accogliere rifiuti in impianti di Trattamento meccanico biologico: una richiesta presentata da Ama alla Regione Lazio lo scorso 22 ottobre ma che Zingaretti ha sbloccato solo dopo un mese per un ‘mancato funzionamento del sistema informatico’”.
“Noi – a differenza di Renzi e del Pd – non facciamo campagna elettorale ma pensiamo all’interesse delle persone. C’è il sospetto che qualcuno voglia speculare sulle spalle dei cittadini e proponga tariffe fuori mercato per mettere in difficoltà le amministrazioni e gli abitanti di Roma. No agli sciacalli della politica”, ha concluso.
Ma la replica della Regione non si è fatta attendere: “Dispiace che l’assessora Montanari preferisca polemizzare e non dire la verità : il piano regionale di gestione dei rifiuti è in via di aggiornamento, ma fermo a causa delle mancate risposte di Roma Capitale e della sua città metropolitana, che dovevano arrivare entro il 30 settembre 2017”, ha detto l’assessore ai Rifiuti e all’ambiente della Regione Lazio, Mauro Buschini. “Piuttosto, Roma Capitale rispetti la legge: risponda alla sollecitazione della Città metropolitana del luglio 2017 dicendo dove vuole realizzare gli impianti di smaltimento sui rifiuti residui – ha precisato Buschini – permettendo alla città metropolitana di rispondere alla Regione. Che così, finalmente, potrà adottare un nuovo piano”.
“Cercare di mischiare le carte, magari per cercare di dare la rappresentazione di uno scaricabarile non aiuta a svuotare i cassonetti – conclude l’assessore – “E’ un modo sconsiderato di agire, di usare le leggi e di negare la verità . Con le bugie e l’arroganza non si va da nessuna parte”.
Il piano della titolare dell’Ambiente Montanari prevede l’apertura degli impianti di compostaggio aerobico e una piattaforma di riciclaggio per la selezione del multimateriale, da attivare, con tutta probabilità , nel XIII e nel XV municipio. Misure volte a scongiurare il disastro. Mentre la rabbia monta tra i cittadini. “La mondezza romana? La grande bruttezza del M5S. Montanari si autoincensa per la raccolta rifiuti nel periodo natalizio e i romani la sbugiardano postando foto su FB. Cara finta miope Assessora i tuoi falsi annunci ridondanti non riescono più a celare l’evidenza!”. Lo scrive su Twitter il consigliere comunale Pd Ilaria Piccolo.
E sulle polemiche tra Giunta Raggi e Regione Lazio è intervenuto anche il segretario del Pd, Matteo Renzi: “La città di Roma ha un problema con i rifiuti. La società che se ne occupa ha chiesto una mano all’Emilia-Romagna che ha dato il via libera. Ma prima di iniziare a trasferire i rifiuti in Emilia Romagna, la città di Roma ha cambiato idea. I giornali scrivono che da Milano (forse un’azienda privata? Forse una società di sondaggi? Forse un piccione viaggiatore?) qualcuno ha suggerito alla sindaca di non farsi aiutare da un amministratore del Pd come Bonaccini”, scrive su Facebook Renzi.
“Allora la città di Roma ha chiesto una mano alla Regione Abruzzo che ha dato il via libera tramite il presidente D’Alfonso” – prosegue il segretario – Temo che nelle ultime ore si siano accorti che anche D’alfonso è iscritto al Pd. E quindi si è bloccata anche questa soluzione. Nel frattempo a roma i cassonetti sono pieni”. “Scherzi a parte – attacca Renzi – per favore, sui rifiuti non si scherza. I nostri amministratori non fanno polemiche di parte. Siamo pronti a dare una mano alla città di Roma. Perchè per noi i cittadini vengono prima dei compagni di partito. E allora fatela finita con queste polemiche e ripulite la capitale”.
Intanto da est a ovest, da Tor Pignattara alla Balduina finanche nelle zone dello shopping e al Tridente, la città è invasa di scarti alimentari, cartoni accatastati e vecchi mobili ormai in disuso. Una scia di immondizia che ai turisti regala una cartolina sporca, tra cattivo odore e cestini ricolmi, da via del Corso – presa d’assalto nella prima domenica di saldi – a via dei Serpenti. Mentre le proteste dei contribuenti si perdono nel vuoto amministrativo.
Istantanee di un degrado diffuso, che decisamente cozzano con le continue smentite della maggioranza grillina: “Rispetto alle festività dello scorso anno oltre mille tonnellate in più di rifiuti sono state raccolte e avviate a trattamento” scrive il M5S su Facebook, eppure ogni giorno altre mille tonnellate di immondizia restano in strada.
(da agenzie)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
GIA’ NEGLI ANNI ’90 CASALEGGIO TESTAVA COME MANIPOLARE IL CONSENSO CON UN TEAM RISTRETTO
Il Movimento cinque stelle è un Esperimento. O almeno nasce così.
Un Esperimento di ingegneria sociale che ha inizio molti anni prima di diventare una realtà , pubblica, votabile, addirittura in lizza per il governo del Paese.
Un Esperimento che alla fine – proprio mentre il suo inventore si ammala e muore – riesce nel capolavoro di addensare la frustrazione e la rabbia del popolo con gli interessi (non sempre limpidi) di alcuni gruppi di potere, diventando la principale rivoluzione politica di questi anni.
Un esperimento che forse è sfuggito di mano (lo scopriremo presto) a chi ne ha preso le redini, ma nel quale di partenza e per principio tutto è fungibile, tutto può essere sostituito, brillare per un minuto come il centro del mondo ed essere estromesso un minuto dopo, senza sosta e senza una vera costruzione.
«Al minimo dubbio, nessun dubbio», era uno dei motti col quale Casaleggio senior ha sempre fatto fuori chi non lo convinceva più. Perchè nel Movimento è la forma – e non il contenuto – ad essere la sostanza. Non importa davvero il “chi parla”, non importa davvero il “che cosa si sostiene”. È il “come”, la formula vincente, la rivoluzione.
Adesso che i Cinque stelle dell’era Luigi Di Maio cambiano regole, statuto, codice etico e si preparano alla corsa verso le elezioni con strumenti da partito classico (c’è persino il tesoriere, si tradisce infine la famosa formula «non è un partito politico nè si intende che lo diventi in futuro») e norme che consentono di riaprire alla famosa società civile, il libro “L’Esperimento. Inchiesta sul Movimento 5 stelle”, scritto da Jacopo Iacoboni, giornalista de la Stampa tra i primi a raccontare – in maniera via via più critica – il mondo del Vaffa e le sue evoluzioni, soccorre in libreria (esce il prossimo 11 gennaio per Laterza) con questa interpretazione a mostrare in controluce su quali architravi si regga e grazie a quali meccanismi funzioni l’edificio grillino, che molto e minuziosamente viene descritto, da giornali e tv, ma spesso più frainteso che compreso.
L’Esperimento smonta in radice l’idea che il M5S sia un partito.
Non è un partito, almeno in origine, ma uno strumento: mima il partito, i suoi meccanismi, le sue figure.
Basti pensare un momento ai suoi personaggi più noti: non solo Luigi di Maio, ma anche Alessandro Di Battista, Paola Taverna, Barbara Lezzi, Roberta Lombardi, e via declinando l’avvocato, l’impegnato, il fessacchiotto, ciascuno precisamente aderente a un canone , ciascuno somigliante a qualcuno che già esiste, come in una commedia dell’arte; c’è persino giusto per fare un esempio la figura del perfetto antagonista, Roberto Fico, che si presta a solleticare le simpatie di una certa sinistra senza tuttavia fare mai la mossa decisiva.
Oppure si può ragionare su quante volte abbia cambiato posizione, M5S, dall’atteggiamento verso la Russia a quello nei confronti delle unioni civili. Come un liquido che prenda la forma del contenitore in cui sta, M5S è uno strumento che può essere governato verso qualsiasi scopo e direzione: che adesso sia quella di Luigi Di Maio da Pomigliano D’Arco è un puro accidente (o forse la scalata che ne precede la fine?).
Per arrivare a raccontare tutto questo, l’Esperimento ricostruisce il suo vero inizio.
Quando Gianroberto Casaleggio era un giovane manager alla guida della WebEgg, una piccola azienda di sviluppo tecnologico e consulenza informatica, e tra i settecento impiegati mise su un team ristretto di lavoro per sperimentare tecniche di formazione e distribuzione del consenso. Siamo nel 1997-1998, il Paleolitico per quel che riguarda lo sviluppo delle reti. In Webegg il team di lavoro ristretto sul forum del network interno è costituito solo da cinque persone. Iacoboni ne rintraccia uno, Carlo Baffè, e si fa raccontare come funzionava.
«Ci vedevamo in una riunione ristretta per decidere “cosa lanciare sulla Intranet”, per usare un’espressione di Roberto», racconta Baffè, allora giovanissimo ingegnere.
Un banale forum aziendale, all’inizio, per discutere apertamente di qualsiasi argomento.
A un certo punto «si iniziò a usare il forum per far passare certe posizioni di Roberto come se fossero frutto di una discussione democratica. Il metodo, organizzato in queste riunioni, era il seguente: un membro del gruppo funzionale Intranet lancia la discussione su un tema, un altro membro risponde con una posizione contrastante, poi altri due membri prendono le parti del primo.
Un po’ alla volta i normali dipendenti prendevano le parti del primo, e si creava quella che Roberto chiamava la “valanga del consenso”».
Ogni tanto venivano inseriti nel forum rotture, o rumori di fondo, o distorsioni pilotate dell’opinione — testate sia sui punti di vista sostenuti dall’iniziatore della discussione, sia su quelli che lo avversavano in maniera più critica.
«Il giochino era molto divertente all’inizio — può immaginarsi per un under trenta ritrovarsi a pianificare azioni di questo tipo e vedere che funzionano», racconta ancora Baffè: «Ma poi mi resi conto che non era altro che un esperimento di ingegneria sociale per capire quali fossero i metodi più efficaci per manipolare le opinioni e creare il consenso. Con una discussione apparentemente democratica». Ma i cui confini sono stabiliti dall’alto, a priori, invisibili.
Siamo anni luce prima del blog, del Vaffa day, della Casaleggio Associati.
Eppure i meccanismi ci sono, c’è già quasi tutto. Persino già affissi i comandamenti casaleggiani. «Assenza di competitività interna», dove pare di sentir risuonare l’ambivalente «l’uno vale uno» del Movimento. «Teamwork», cioè il dettato a lavorare per temi e piccole cellule: l’idea stessa dei futuri meetup Cinque stelle.
Oppure «il divertimento come forza creativa», autentico motto precursore dell’incontro tra Casaleggio e «il suo influencer numero uno», vale a dire Beppe Grillo.
È in effetti l’ingresso in scena del comico genovese, a metà anni Duemila, ad accendere la miccia necessaria a far sì che dalla Casaleggio Associati, che ha ereditato tutti i saperi della WebEgg, nascano il blog, i meet up, insomma il Movimento.
Non è però un caso che nel libro venga chiamato il «paziente zero dei Cinque stelle», il primo sul quale l’Esperimento funziona.
E adesso che tornano a rincorrersi voci su un prossimo addio del frontman, è particolarmente interessante l’interpretazione proposta: Grillo come «asset del blog», elemento interno all’amalgama, più Pinocchio che Mangiafuoco, di certo spesso non autore materiale dei post che compaiono sul blog che pure porta il suo nome.
«Grillo incredibilmente lascia fare anche quando poco o nulla sa di ciò che viene scritto», racconta Iacoboni.
Come quella volta dei vergognosi attacchi sessisti alla presidente della Camera Laura Boldrini. All’epoca Gianroberto Casaleggio parlando coi suoi collaboratori ammise l’errore: «Oggi abbiamo sbagliato ma il risultato che ne è venuto fuori ci dice che la rete è dalla nostra parte. È la rete che decide la reputazione delle persone. Per il futuro dobbiamo essere in grado di canalizzare questo sentimento senza apparire direttamente, governandolo».
A leggerlo con il segno del poi, una specie di manifesto.
(da “L’Espresso”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
LA NOTA E’ DEL 4 DICEMBRE, MA IN OMAGGIO ALLA TRASPARENZA QUANNOCEPARE LA GIUNTA GRILLINA SI E’ BEN GUARDATA DAL RENDERLA PUBBBLICA
La Festa della Befana del M5S a Piazza Navona è stata bocciata dall’Antitrust. Il parere è del
4 dicembre scorso ma in omaggio alla #trasparenzaquannocepare arriva a conoscenza di tutti soltanto oggi e per iniziativa dell’Autorità Garante della Concorrenza e dei Mercati, che pubblica sul suo sito il bollettino settimanale dell’attività .
A proposito di questo bando l’assessore al Commercio Adriano Meloni aveva parlato di accordi tra M5S e Tredicine in una chat pubblicata sul Messaggero, rimangiandosi poi tutto a stretto giro di posta e scusandosi con Andrea Coia, che aveva soprannominato Coidicine.
L’Antitrust nel parere “auspica una revisione delle modalità di assegnazione dei posteggi” sollecitando in particolare “una modifica della durata dell’assegnazione (9 anni, ndr) e, per le edizioni future, l’adozione di criteri non discriminatori e non basati sulla mera presenza storica alla manifestazione“.
In particolare, l’Autorità , pur apprezzando l’iniziativa di mettere a gara la partecipazione alla manifestazione e di non procedere ad un’assegnazione diretta della stessa, evidenzia in primo luogo che “la particolare durata dell’attribuzione dei posteggi, pari ad un periodo di nove anni, appare impedire indebitamente lo sviluppo di dinamiche competitive per un periodo di tempo eccessivamente lungo, anche in considerazione delle caratteristiche della manifestazione, che non riveste peculiarità tali da richiedere investimenti particolarmente onerosi da dover essere ammortizzati su un così ampio arco temporale“. L’Antitrust rileva oltre tutto che manifestazioni analoghe come i mercatini di Natale viaggiano in genere sull’attribuzione “annuale della gestione della manifestazione”
Il secondo punto sottolineato dell’Autorità riguarda le partecipazioni passate: si osserva infatti che “i criteri di valutazione per l’assegnazione dei posteggi presentino evidenti criticità concorrenziali nella misura in cui valorizzano la pregressa partecipazione alla manifestazione come criterio di aggiudicazione della gara”, che “lega la partecipazione alla manifestazione alla presenza storica nella stessa, in tal modo limitando le possibilità di accesso a nuovi operatori e cristallizzando la situazione preesistente”.
Anche se non è l’unico criterio, sottolinea l’Autorità , “esso rappresenta una parte importante del punteggio di assegnazione, considerando la standardizzazione dei prodotti venduti, nonchè il livello elementare richiesto per la tutela ambientale”.
Insomma, se così si può dire, non è necessaria una particolare ‘esperienza’ che giustifichi una sorta di ‘corsia preferenziale’ per chi ha partecipato in passato.
Invece, ricorda l’Antitrust, “in caso di parità nel punteggio assegnato, è proprio il criterio della pregressa partecipazione alla manifestazione a determinare la formazione della graduatoria”.
Se proprio, infine, il Comune voleva garantire la professionalità degli operatori non era comunque necessario affidarsi a quelli che avevano già partecipato in passato alla Befana di Piazza Navona: basta infatti puntare “alla generale partecipazione a manifestazioni fieristiche”.
L’Autorità invita quindi il Campidoglio a comunicare, entro un termine di 60 giorni dalla ricezione del parere, “le determinazioni assunte con riguardo alla questione sopra prospettata”.
Sulla vicenda c’è anche un interessamento dell’ANAC.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 8th, 2018 Riccardo Fucile
LA REGINA DEL MONDO DELLO SPETTACOLO HA SUSCITATO GRANDI EMOZIONI CON IL SUO DISCORSO NELLA SERATA DEI PREMI
Oprah Winfrey for President? La regina afro-americana del mondo dello spettacolo al posto di Donald Trump nel 2020?
E’ un’ipotesi tutt’altro che peregrina, specie dopo il discorso “presidenziale” ai Golden Globes dell’attrice-imprenditrice.
Vestita di nero per solidarietà con il movimento MeToo, come del resto tutte le star presenti domenica sera al Berverly Hilton per la serata californiana che ha aperto la stagione dei premi, la Winfrey ha ricevuto un importante riconoscimento alla carriera e ha parlato per nove minuti alle sue colleghe e all’America.
Oprah ha ringraziato tutte le donne che hanno sofferto per abusi e violenze sessuali sono per continuare a mantenere la famiglia e inseguire i loro sogni. E si è augurata di vedere presto “l’alba di un giorno nuovo” in cui, grazie alle lotte di oggi da parte di tante “magnifiche donne”, nessuno sarà più costretto a dire “MeToo”, cioè a denunciare pubblicamente le molestie sessuali subite.
Quel discorso durato nove minuti non solo scatenato gli applausi della platea, ma, rimbalzando sulle televisioni, ha innescato una valanga di tweet con l’hashtag #Oprahforpresident e #Oprah2020. Come dire: un incoraggiamento popolare a scendere in campo come anti-Trump.
Condotta da Seth Meyers, la serata dei Golden Globes, giunta alla 75ma edizione, è stata segnata dal ripudio del “Mostro Weinstein”. A vincere i maggiori premi sono stati Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, Lady Bird, Frances McDormand e Gary Oldman. Ma è stata la performance di Oprah a dominare lo show.
Già nel passato la Winfrey, che ha 63 anni e che, dopo la conclusione del suo celebre show, è diventata molto ricca con una casa di produzione (ha un patrimonio personale di 3 miliardi di dollari), si era posta l’interrogativo se scendere in politica o meno. Aveva risposto di no, pur contribuendo in modo sostanziale alla campagna elettorale prima di Barack Obama, con cui è sempre stata molto amica, poi di Hillary Clinton.
Ma adesso le sue riserve potrebbero essere superate. “Ovviamente non dipende da lei, ma se i cittadini la incoraggiassero a candidarsi, lo farebbe di sicuro”, ha confermato ai margini dei Golden Globes, Stedman Graham, da tempo il suo socio e partner nella vita.
Di sicuro gli elettori americani hanno sempre mostrato una predilezione per i candidati del mondo dello spettacolo, come dimostrano i casi di Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger e dello stesso Trump, che divenne famoso con lo show The Apprentice. La Winfrey, per giunta, è una donna energica, intelligente, sensibile alle problematiche sociali.
Certo, è tutto ancora prematuro: le vere manovre in vista delle prossime presidenziali del 2010 cominceranno dopo le elezioni politiche di midterm, a novembre di quest’anno. Ma già si intravvedono alcune star nascenti: tra cui, tra le donne democratiche, la senatrice afroamericana della California, Kamala Harris, quella del Massachusetts Elizabeth Warren e quella di New York, Kristen Gillibrand).
Da parte repubblicana, invece, è tutto molto confuso, soprattutto per si aspetta di vedere cosa succederà della presidenza Trump, specie dopo l’uscita del libro-denuncia di Michael Wolff e l’intensificazione dell’inchiesta sul Russiagate.
Ma proprio le rivelazioni di Wolff hanno fatto nascere l’ipotesi di una candidatura di Ivanka, la ambiziosissima figlia del presidente, oltre che dell’ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, anche lei “ambiziosa come Lucifero”.
(da agenzie)
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