Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
ELLY: “MELONI CONTINUA A MENTIRE SUI SALARI. LO CERTIFICA L’ISTAT”… CONTE: “MELONI E’ ANDATA A VIVERE SU MARTE”
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un video diffuso alla vigilia del 1 maggio, Festa del lavoro, in cui ha annunciato tra l’altro di aver reperito insieme all’Inail 650 milioni di euro per la sicurezza sul lavoro, ha dichiarato che i salari reali crescono.
Meloni, in un passaggio del videomessaggiogirato in occasione del 1 maggio, ha detto che i salari reali “crescono in controtendenza rispetto al passato”. Da ottobre 2023 la tendenza è cambiata e le famiglie stanno progressivamente recuperando il loro potere d’acquisto con una dinamica dei salari che è migliore e non peggiore rispetto a quella del resto d’Europa: c’è chiaramente ancora molto molto da fare però i numeri, che alla fine raccontano la realtà, sono incoraggianti”. Ma queste affermazioni sono state contestate dalle opposizioni e dai sindacati.
La risposta di Landini a Meloni
“Non so se la premier si riferisca al suo salario, non so di quale salario stia parlando: se va in mezzo alla gente vede che non arriva alla fine del mese. Questo sta succedendo, non so dove vivono loro, non so in quale palazzo si sono chiusi”, ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, dal corteo a Roma per il Primo maggio, replicando alle dichiarazioni della premier Giorgia Meloni sulla crescita dei salari reali.
Il governo che ha convocato i sindacati sul tema della sicurezza del lavoro l’8 maggio. E il segretario Landini ha invitato l’esecutivo ad aprire “una vera trattativa”, che tenga conto delle “proposte avanzate dalla Cgil già due anni e mezzo fa”.
Parlando con i giornalisti alla partenza del corteo del 1 maggio a Roma, Landini ha poi affermato: “Gli incontri finti a Palazzo Chigi non ci interessano. Vogliamo avere l’occasione di aprire una trattativa vera, che noi abbiamo già da due anni avanzato. Una piattaforma con delle richieste molto precise: cancellare il lavoro in subappalto, cancellare le forme di precarietà assurde, investire sulla
formazione e fare assunzioni. E ancora: investire sulla prevenzione ed estendere l’elezione dei rappresentanti alla sicurezza per tutti i lavoratori dandogli dei mezzi e introducendo una vera patente a punti per le imprese, e se le imprese non rispettano le norme e le leggi non debbano lavorare”.
E ha insistito: “Questo è il tema di fondo che noi vogliamo affrontare, noi siamo pronti a ottenere queste cose. Per cambiare delle leggi balorde non c’è bisogno di investire dei soldi, basta la volontà politica di cancellarle. Se le cose si fanno e si abbandona la propaganda noi siamo disponibili, ma basta con le finte”.
Landini rilancia il referendum sul lavoro
Per il segretario della Cgil, in tema di sicurezza del lavoro il governo “non sta andando nella giusta direzione”. Parlando al corteo del 1 maggio a Roma, il leader della Cgil ha spiegato: “per quello che ci riguarda non è sufficiente stanziare un po’ di soldi, ma è necessario cambiare le leggi. E per farlo c’è anche lo strumento del referendum ed è necessario utilizzarlo perché col referendum tutti i cittadini possono direttamente intervenire per cancellare quelle leggi balorde che in questi ultimi vent’anni sono state fatte’ con il risultato che oggi aumentata la precarietà, i salari sono bassi e sono anche aumentate le morti sul lavoro. È ora di cambiare”.
Anche Giuseppe Conte ha rilanciato i referendum della Cgil per l’abolizione del Jobs Act, dichiarando che voterà sì: “Lavoratori senza tutele, precarietà, boom di cig, il 9% degli occupati in povertà”, “quattro giovani su dieci che guadagnano meno di nove euro all’ora”, “tre lavoratori al giorno che escono di casa al mattino e non rientrano la sera perché muoiono. Non è questa la Repubblica fondata sul lavoro che ci racconta la nostra Costituzione”, “diciamo basta”.
“Ai referendum dell’8 e 9 giugno il M5s dirà 4 volte sì”, è “una prima occasione per iniziare a riconquistare il diritti e tutele sottratti ai lavoratori da scelte e leggi sbagliate, a partire dal Jobs act”.
Sui “salari reali” opposizioni all’attacco
“Ora è tutto chiaro: la presidente Meloni è andata a vivere su Marte, forse con l’aiuto di Musk. Avrà girato da lì il video pubblicato poco fa in cui esulta per l’aumento di stipendi e potere d’acquisto delle famiglie, per come va bene la dinamica dei salari degli italiani rispetto al resto d’Europa”, ha scritto sui social
Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 stelle. “Houston chiama Meloni: Eurostat ci informa che il 9% dei lavoratori full-time è in povertà, l’Istat ci dice che gli stipendi sono a -8% sul 2021, sono stati tagliati fino a 100 euro in busta paga ai redditi più bassi col pasticcio dell’ultima manovra e gli stipendi sono aumentati sì, ma solo ai ministri. È il momento di tornare con i piedi per terra, fra la gente, per dare risposte vere”.
“Non bastano i Cdm e gli annunci del 1° maggio sulla sicurezza sul lavoro: il diritto al lavoro non è una candelina da accendere una volta all’anno”.
“La nostra Repubblica è fondata sul lavoro, lo scrive la costituzione. Non può essere però fondata sul lavoro povero, precario e sfruttato. Per questo è importante essere in tanti oggi in piazza per ribadire la dignità del lavoro”, ha detto la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, a margine del corteo organizzato dalla CGIL a Roma per il 1 maggio. “Per questo noi insistiamo in questi giorni – ha continuato la segretaria dem – per approvare un salario minimo in questo paese”.
Schlein ha ricordato che “l’Italia è fanalino di coda nei paesi del G20 sul salario” e, secondo i dati OCSE, “è l’unico paese in cui i salari sono diminuiti invece che aumentare”. Sulla base di questo il Pd crede sia “necessario calendarizzare la legge di iniziativa popolare delle opposizioni sul salario minimo”.
La segretaria ha ricordato che il governo Meloni “ha cercato di bloccare” questa legge, non avendo avuto “neanche il coraggio di votare contro, perché sanno che anche molti dei loro elettori sono a favore del salario minimo”. Schlein ha poi dichiarato di essere anche in favore “dei rinnovi dei contratti”, perché 5 milioni di lavoratori sta ancora aspettando il rinnovo dei contratti nazionali, mentre “l’inflazione ha mangiato il potere d’acquisto degli italiani” e il costo delle bollette è quello “più caro d’Europa”. “Il governo continua a raccontare un paese che non c’è. Giorgia Meloni continua a mentire a viso aperto sui salari negando persino i dati usciti dall’ISTAT due giorni fa che dicono con chiarezza che non si sono recuperati i salari per l’8% dal 2021. Esca dal palazzo, venga in mezzo ai lavoratori e si occupi delle loro condizioni di vita, perché sono loro a mandare avanti questo paese”.
“Nei primi mesi del 2025 abbiamo assistito a dati preoccupanti per il mondo del lavoro e dell’economia, dalla posizione dell’Italia al fondo delle classifiche europee per quanto riguarda i salari reali ai numeri tragici degli incidenti nei luoghi di lavoro. È inutile quindi che con un video social Giorgia Meloni venga a raccontarci la sua favoletta, perché i fatti sono ben altri. Le misure proposte dal Governo fin qui sono state inutili: basta bugie, si lavori con strumenti davvero utili ed efficaci sui salari e sulla sicurezza”, ha detto Chiara Gribaudo, vicepresidente del Partito Democratico, sul video diffuso da Giorgia Meloni. “Attendiamo con trepidazione le ‘nuove misure concrete’ di cui parla Giorgia Meloni, perché ora il suo Governo non ha più scuse per non portare avanti le politiche sul lavoro di cui l’Italia necessita. Sicuramente non ci basta un video propagandistico in cui la premier racconta la favola, che non corrisponde alla realtà, sulle condizioni del mondo del lavoro nel nostro Paese”.
“Le nostre proposte non sono state prese in considerazione e i soldi che arrivano dall’Inail sono inutili senza la volontà politica di cambiare realmente la situazione, perché se a queste parole non seguiranno i fatti c’è il rischio che non cambi niente. Vogliamo il salario minimo, badge elettronici nei cantieri, formazione, diritti nella catena dei subappalti, un aumento reale delle ispezioni e degli ispettori, una procura speciale”.
Anche Iv ha contestato il video di Meloni: “Giorgia Meloni si conferma per quello che è: una Influencer venditrice di fumo. Davvero incredibile inventare aumenti salariali inesistenti per giustificare l’inerzia del governo, proprio all’indomani della denuncia del presidente Mattarella”, ha detto la senatrice Raffaella Paita, capogruppo al Senato di Italia Viva. “Meloni, sfidando il ridicolo, parla di salari reali aumentati quando, non più di 24 ore fa, l’Istat ha certificato che le retribuzioni contrattuali reali di marzo 2025 sono inferiori dell’8% rispetto a gennaio 2021. L’esatto contrario di quanto sostiene oggi la premier con il solito video messaggio. L’unica cosa che aumenta sono le tasse, proprio oggi l’Ocse mette nero su bianco l’impennata del cuneo fiscale per un lavoratore single senza figli, arrivato al 47,1%. Non si possono prendere in giro così gli italiani”.
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
MEMBRO DELL’OPUS DEI, GIA’ ARCIVESCOVO DI LIMA, NEL 2019 FU SANZIONATO DA PAPA FRANCESCO PER ACCUSE “CREDIBILI” DI ABUSI RISALENTI AI PRIMI ANNI ‘80
All’indomani della rinuncia del cardinale Becciu a partecipare al Conclave, in
Vaticano esplode un nuovo caso che rischia di scuotere le fondamenta della Santa Sede. Protagonista, questa volta, è il cardinale peruviano Juan Luis Cipriani, membro dell’Opus Dei e già arcivescovo di Lima, che nel 2019 fu sanzionato da Papa Francesco per accuse ritenute dal Santo Padre credibili di abusi su minori risalenti ai primi anni ’80.
Nonostante le restrizioni imposte da un precetto penale papale – tra cui il divieto di indossare abiti cardinalizi e di partecipare ad attività pubbliche – Cipriani è apparso a Roma in abiti da cardinale, partecipando alle congregazioni generali e visitando la camera ardente del Pontefice in San Pietro. Un gesto che, secondo alcuni osservatori, rappresenterebbe un atto di palese disobbedienza verso il Papa.
Le immagini della sua presenza a Roma sono state trasmesse dai media peruviani, sollevando interrogativi sull’efficacia delle misure disciplinari vaticane. La sala stampa vaticana, interpellata più volte da El Pais e dai media peruviani, non ha chiarito se Cipriani stia effettivamente violando il precetto. Il portavoce Matteo Bruni ha ammesso che “non si conoscono i dettagli delle sanzioni” e che al momento “non ci sono ulteriori informazioni da fornire”.
Tuttavia lo stesso Bruni lo scorso 26 gennaio aveva confermato le misure disciplinari nei confronti del porporato peruviano. “Esistono e sono ancora valide e vigenti”, aveva spiegato Bruni, ricordando che “dopo l’accettazione della sua rinuncia da arcivescovo di Lima”, al cardinale “è stato imposto un
precetto penale con alcune misure disciplinari relative alla sua attività pubblica, al luogo di residenza e all’uso delle insegne”. Il provvedimento in questione è stato “firmato e accettato” da Cipriani.
Il cardinale, che ha 81 anni e quindi non ha più diritto di voto al Conclave, ha già violato le disposizioni papali recandosi a gennaio a Lima per ricevere un’onorificenza pubblica, consegnata dal sindaco Rafael López Aliaga, anch’egli membro dell’Opus Dei. Dopo le rivelazioni di El País, Cipriani aveva reso pubbliche lettere in cui accusava il Papa di averlo condannato senza ascoltarlo.
Il suo comportamento è stato duramente criticato anche dall’attuale arcivescovo di Lima, Carlos Castillo, che ha invitato l’ex porporato a “rinunciare alle giustificazioni vane e ad accettare la verità”. Lo stesso Castillo potrebbe sollevare formalmente la questione nelle congregazioni generali.§
Il caso Cipriani riporta al centro dell’attenzione una domanda scomoda: quanto pesano davvero le questioni legate agli abusi nel processo di scelta del nuovo Pontefice? Nonostante l’impegno di Papa Francesco, una parte della Curia continua a resistere alla piena trasparenza e alle riforme. Il cardinale Cipriani non è l’unico porporato controverso presente in Vaticano in questi giorni. Anche il cardinale statunitense Roger Mahony, accusato di aver coperto oltre 100 casi di abusi a Los Angeles, è stato visto partecipare a funzioni ufficiali. Inserito tra i nove cardinali incaricati del rito di chiusura della bara del Papa, la sua presenza ha sollevato le proteste delle associazioni delle vittime.
L’organizzazione Bishop Accountability, che documenta casi di abusi nella Chiesa, ha denunciato duramente la presenza di Cipriani e Mahony: “È una presa in giro per le vittime. Se la Chiesa vuole essere credibile, deve impedire la partecipazione di cardinali macchiati da accuse credibili”.—
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
UNA PARTE DEI PROVENTI DELLE MINIERE ANDRANNO IN UN FONDO PER FINANZIARE LA RICOSTRUZIONE E L’ACQUISTO DI NUOVE ARMI …. ZELENSKY HA OTTENUTO DI NON DOVER RIMBORSARE 300 MILIARDI DI FORNITURE AMERICANE
La strada del dialogo si è aperta a San Pietro ma il diavolo sta nei dettagli. Che hanno messo in discussione fino all’ultimo un passaggio fondamentale nel percorso per la pace: l’accordo con gli Stati Uniti sullo sfruttamento dei minerali rari ucraini.
Una delle condizioni poste da Donald Trump per consolidare i rapporti tra i due Paesi e tutelare, quantomeno attraverso comuni interessi economici, l’Ucraina da future minacce russe. In nottata è arrivato il comunicato ufficiale, che potrebbe determinare una svolta nel quadro complessivo delle trattative, tale forse da facilitare l’avvio di negoziati diretti con Mosca.
Stando alla bozza circolata in Ucraina — ed esaminata dalla Reuters — il trattato adesso accoglie molte delle richieste di Kiev e può diventare il pilastro delle garanzie di sicurezza invocate dall’Ucraina per raggiungere una “pace giusta”. Il punto chiave è l’utilizzo dei ricavi delle concessioni e dei minerali: inizialmente Washington pretendeva che fossero destinati a rimborsare il valore delle forniture militari concesse dal 2022, stimato dalla Casa Bianca in trecento miliardi di dollari.
Ora si prevede che una parte dei proventi — quantificati nella bozza come il cinquanta per cento — vadano in un fondo comune tra Usa e Ucraina, in cui la quota statunitense potrà aumentare come pagamento di ulteriori consegne di
aiuti militari: una formulazione che prolunga nel futuro l’impegno al fianco dell’Ucraina. Non si tratta quindi di una garanzia militare alla tutela della sicurezza, ma lega i due Paesi economicamente oltre ad offrire a Kiev risorse per finanziare la ricostruzione e per potenziare la difesa.
Al momento della firma, gli ucraini hanno parlato esplicitamente di «una nuova assistenza, ad esempio nei sistemi contraerei».
Tutti gli investimenti del fondo dovrebbero restare in Ucraina. I giacimenti di venti minerali critici — tra cui titanio per l’industria aeronautica; litio, manganese e grafite per batterie e motori elettrici e infine uranio — hanno bisogno di attività costose per concretizzare l’estrazione. Gli Stati Uniti avranno però la prelazione su ogni nuova concessione, ottenendo una scorta vitale per il loro sistema economico. La durata sarà di dieci anni e sarebbero state eliminate le clausole che potevano ostacolare la procedura per l’ingresso nell’Unione europea. Contrariamente alla bozza ucraina, nell’annuncio finale presentato da Bloomberg sono compresi anche gli idrocarburi e il gas: non è escluso che fossero il punto controverso nel finale, su cui poi Zelensky avrebbe ceduto.
«Questa è un’intesa strategica — ha detto il premier Denys Shmyhal — un accordo buono ed equo tra i due Paesi per investimenti congiunti nello sviluppo e nella ricostruzione dell’Ucraina». Sarebbe stato proprio il premier a definire il patto con il segretario del Tesoro Bessent, affidando alla sua vice e ministra dell’Economia, Yulia Svyrydenko, la stesura del testo. Poi sabato scorso durante il faccia a faccia romano Zelensky avrebbe detto a Trump di essere pronto a firmarlo, determinando la corsa conclusiva.
Nelle bozze circolate a Kiev c’era un altro elemento simbolicamente rilevante: il riconoscimento del contributo ucraino alla stabilità internazionale. Si tratta del riferimento alla consegna volontaria alla Russia dell’arsenale nucleare sovietico, avvenuta nel 1994 sotto l’ombrello del Memorandum di Budapest in cui Washington e Mosca si impegnavano a tutelare la sicurezza dell’Ucraina. Quella garanzia che oggi resta lo snodo fondamentale prima di sedersi al tavolo e discutere di pace.
(da La Repubblica)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
“I SUOI PROVVEDIMENTI NON FUNZIONANO PERCHE’ SONO SBAGLIATI”
«Non è questo il momento della propaganda, ma di risposte. Morti e infortuni
aumentano. Un problema sulla sicurezza evidentemente esiste. E anche la premier ora l’ammette: i suoi provvedimenti non funzionano perché sono sbagliati. La salute deve diventare un investimento, non può essere considerato un costo.
E’ un tema di diritti negati: alla vita, alla dignità, a un lavoro pagato il giusto». Queste le parole del segretario della Cgil, Maurizio Landini, in un’intervista a Repubblica in cui, in occasione del primo maggio, invita ad «andare a votare l’8-9 giugno ai referendum che rimettono al centro il valore del lavoro».
«Basta con i subappalti a cascata. Ci vogliono più medici e ispettori Inail»
«Cancellare il subappalto a cascata e gli appalti al massimo ribasso», sono alcune delle proposte del leader sindacale. «Assumere più ispettori e medici Inail. Istituire una Procura speciale. E il reato di omicidio sul lavoro». Rispetto ai dati sull’occupazione Landini sostiene che «bisogna saperli leggere. Quando vedo che 550mila giovani dal 2011 al 2023 sono scappati dall’Italia, di cui il 43% laureato, perché qui trovano contrattini e paghe basse, mi chiedo in quale mondo vive la premier. Il suo governo ha allargato la precarietà. Crescono i contratti a tempo determinato, anche quelli che non superano il mese, e i part time involontari. Le donne hanno il livello più basso di occupazione d’Europa».
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
LA CURIA ROMANA E UNA PARTE DELL’ALTA GERARCHIA DELLA CHIESA MAL SOPPORTAVA CHI AVEVA RINUNCIATO A POTERE E PRIVILEGI, PARLANDO LA LINGUA DEL VANGELO E NON DELL’INQUISIZIONE
“Perché sei venuto a disturbarci?”. La Curia romana e una parte cospicua dell’alta gerarchia della Chiesa cattolica ha, in fondo al cuore e a fior di labbra, incessantemente rivolto a Francesco questa domanda. Per non parlare dei potenti della Terra, convenuti al suo funerale più per essere sicuri che non tornasse, che non per onorarlo.
“Perché sei venuto a disturbarci?”: è la prima domanda che il Grande Inquisitore rivolge a Cristo tornato nel mondo, nel finale travolgente dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si racconta che uno dei cardinali di Curia più esposti nelle ultime onoranze a Francesco fosse solito esclamare, passando con i suoi ospiti sotto un ritratto di Giovanni Paolo II: “Questo sì che era un papa!”. Francesco no, non corrispondeva a quella idea di papa. Perché con lui si è definitivamente compiuta l’autospoliazione del papato iniziata con Giovanni XXIII e quindi proseguita, tra accelerazioni (quella effimera di papa Luciani, per esempio) e arresti (appunto quello del papa polacco): con Francesco sparisce il sovrano pontefice, torna il vescovo di Roma, il pastore.
Ciò che Francesco rigetta è il potere. È il ‘peccato’ che il cardinale Grande Inquisitore di Dostoevskij rimprovera a Cristo, non aver voluto il potere
temporale che Satana pure gli aveva offerto, nelle tentazioni: “Tu avevi rifiutato con sdegno quell’ultimo dono ch’egli ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare, e ci proclamammo re della terra, gli unici re”. Ecco, con Francesco si dimostra che quella lunghissima storia può finire, e che non per questo finisce la Chiesa.
L’amore travolgente per questo papa, l’amore degli ultimi, dei diversi, dei poveri è quello che fa più paura a coloro che sono legati a una Chiesa la cui sopravvivenza sia fondata sul potere e sul controllo, e non sull’amore e sulla libertà. “Noi daremo agli uomini la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli… e a noi si stringeranno, nella paura, come i pulcini alla chioccia”, dice il cardinale inquisitore.
Con Francesco, no: “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?”. Lo disse in aereo, ai giornalisti, nel 2013, e alla Curia parve (come infinite altre volte) una voce dal sen fuggita, inopportuna. Invece l’ha poi ripetuto infinite volte, per esempio nella meditazione mattutina del 17 marzo 2014: “Chi sono io per giudicare gli altri? È la domanda da fare a se stessi per dare spazio alla misericordia, l’atteggiamento giusto per costruire la pace tra le persone, le nazioni e dentro di noi”.
Il papa parlava la lingua del Vangelo: quella del Cristo, non quella del Grande Inquisitore. Lo faceva parlando della morale privata e di quella pubblica, con i piccoli e con i potenti. La sua politica, la sua unica politica, era il Vangelo. Consapevole di essere un agnello in mezzo ai lupi, Francesco era semplice come le colombe, ma anche prudente come i serpenti (cfr. Matteo 10, 16): sapeva che esisteva la Segreteria di Stato, e usava ogni canale possibile per influenzare il potere. Ma era nel mondo senza essere ‘del’ mondo, ed è qui la sua profonda diversità dalla Curia, che da secoli del mondo è un centro, e un centro di potere. Jorge Mario Bergoglio non era un ingenuo: da gesuita, e da arcivescovo di Buenos Aires, sapeva perfettamente cosa è il potere, e come averci a che fare. Ma Francesco è stato diverso da Jorge: il cambio di nome (e che nome: quello del santo più remoto da ogni idea di potere, quello che più di ogni altro si è umiliato come Cristo) e l’assunzione al ministero petrino hanno
cambiato profondamente chi lo ha assunto: Francesco è stato davvero un “dolce Cristo in terra” (così Caterina da Siena chiamava il pontefice).
Francesco non ha rotto solo con la tradizione millenaria del sovrano pontefice, ma ha anche infranto un altro dogma non scritto: è stato il primo papa non occidentale, non europeo, non interno ai confini dell’impero, non impregnato di pensiero coloniale. Un papa venuto “dalla fine del mondo”, come disse affacciandosi dalla Loggia delle benedizioni, e che sarebbe voluto andare dove il mondo finisce: a Gaza.
Il papa che, negli ultimi istanti di vita, ha ricordato all’Europa, e a tutti gli ipocriti capi di Stato e di governo che pochi giorni dopo sarebbero accorsi al suo funerale, che “non c’è nessuna vera pace senza disarmo”. Il papa che ha rimandato a casa il vicepresidente Vance (incarnazione del modo di essere cattolici senza essere cristiani) con tre ovetti Kinder.
Con tutti i suoi limiti, e le sue umane contraddizioni, Francesco – l’autore di manifesti profetici come la Laudato si’ e la Fratelli tutti, il papa che diceva ai ragazzi di “fare chiasso” per salvare il pianeta – ci manca da morire. Lo Spirito soffia dove vuole: preghiamo perché anche il prossimo papa sia inviso ai grandi inquisitori.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
CHI NON MUORE E CHI NON SI INFORTUNA E’ POVERO ANCHE DOPO LA GIORNATA DI LAVORO
Nell’ultimo decennio, quasi ogni anno, sono morte mentre lavoravano più di mille
persone: almeno tre al giorno. Il 65% degli infortuni sul lavoro riguarda persone straniere, dicono le statistiche: più di due volte e mezzo rispetto agli italiani. Forse converrebbe dirsi che muoiono soprattutto i più disperati, come accade da sempre. La sproporzione non è un caso: è una segregazione occupazionale che confina i lavoratori immigrati in settori e mansioni a maggior rischio, spesso con minore accesso a una formazione adeguata e a tutele efficaci.
È una segregazione, seppure con forme diverse, anche quella delle donne lavoratrici: lavorano di più, guadagnano di meno e restano confinate negli stessi mestieri, con salari bassi e poche possibilità di carriera. C’è anche il cassetto degli anziani infortunati sul lavoro, là dove stanno quelli che non hanno più le forze per svolgere la loro mansione ma non possono permettersi di non portare il pane a casa.
Chi non muore e chi non si infortuna è povero anche dopo la giornata di lavoro. Tra il 2014 e il 2023, l’incidenza della povertà assoluta individuale è salita dal 6,9% al 9,8%, coinvolgendo 1,6 milioni di persone in più. Un lavoro che rende poveri è il tradimento del primo articolo della Costituzione. Poi ci sono quelli che il lavoro lo cercano e non lo trovano: i giovani etichettati come fannulloni perché non accettano di diventare schiavi, quelli che navigano tra contratti a termine che atrofizzano la speranza, limitando il futuro alla fine di ogni mese.
Il Primo maggio dovrebbe essere il giorno della fierezza, in cui i lavoratori rivendicano i propri diritti e i successi raggiunti. Le riforme del lavoro, in
particolare il Jobs Act, pur con l’obiettivo dichiarato di aumentare l’occupazione, hanno ridotto le tutele reali contro i licenziamenti illegittimi, generando incertezza normativa (anche a causa degli interventi della Corte costituzionale) e potenzialmente indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori. Così, il giorno del lavoro passa da occasione d’orgoglio a evento di scoraggiamento. Ci sarebbe anche la rabbia, ma il Decreto Sicurezza ha reso anche quella illegale. Buon Primo maggio.
(da La Repubblica)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
IL DATO ALLARMANTE PER IL TYCOON È CHE LA PENSA COSÌ ANCHE LA MAGGIOR PARTE DEGLI INDIPENDENTI (IL 56%), IL CHE SUGGERISCE CHE GLI ELETTORI DI CENTRO CHE HANNO CONTRIBUITO A RIELEGGERLO LO STANNO ABBANDONANDO
Secondo un nuovo sondaggio, la maggioranza degli americani ritiene che il presidente Trump sia un “pericoloso dittatore” che rappresenta una minaccia per
la democrazia e che abbia oltrepassato la sua autorità con azioni come il licenziamento in massa dei dipendenti federali.
Perché è importante: L’ampio sondaggio pubblicato martedì, nel 100° giorno di mandato di Trump, è l’ultimo segnale della perdita di consensi per le sue politiche economiche e di immigrazione, i due temi che hanno alimentato la sua elezione.
Solo quattro americani su 10 hanno espresso pareri favorevoli su Trump dopo i suoi primi 100 giorni di mandato, secondo il sondaggio dell’istituto apartitico Public Religion Research Institute (PRRI).
Il 52% si è detto d’accordo con l’affermazione provocatoria secondo cui Trump “è un dittatore pericoloso il cui potere dovrebbe essere limitato prima che distrugga la democrazia americana”.
Questa domanda ha fornito un grande segnale d’allarme per Trump: La maggior parte degli indipendenti (56%) era d’accordo con l’affermazione che Trump è un “pericoloso dittatore”, il che suggerisce che gli elettori di centro che hanno contribuito a rimetterlo in carica lo stanno abbandonando.
Il sondaggio ha rilevato che l’83% dei repubblicani – un numero relativamente basso per Trump – ha un’opinione favorevole di lui e delle sue azioni, mentre il 35% degli indipendenti e l’8% dei democratici l’hanno avuta.
Molti intervistati hanno espresso allarme per le sue mosse di rimodellare il governo, imporre le sue tariffe e deportare persone senza un giusto processo.
La maggioranza dei neri, dei latino-americani e degli asiatici concorda sul fatto che Trump sia un “pericoloso dittatore”, rispetto al 45% dei bianchi – un riflesso delle divisioni razziali che Trump e le sue azioni suscitano in questi sondaggi.
“La maggior parte degli americani vede Trump in termini dittatoriali e penso che la maggior parte degli americani sia preoccupata che la democrazia americana sia a rischio”, dice ad Axios Melissa Deckman, CEO del PRRI.
“Sono passati solo 100 giorni dall’inizio dell’amministrazione Trump, eppure abbiamo visto una spinta della maggior parte degli americani verso l’agenda di Trump”.
L’altro lato: l’81% dei repubblicani intervistati ha dichiarato di credere ancora che “Trump sia un leader forte a cui dovrebbe essere dato il potere di cui ha bisogno per ripristinare la grandezza dell’America”
Gli americani rimangono equamente divisi sugli obiettivi di Trump in materia di immigrazione, ha detto Deckman, ma il sondaggio mostra che la maggior parte delle persone è fortemente in disaccordo con le pratiche incostituzionali o disumane.
Ad esempio, la maggior parte degli americani (61%) non è d’accordo sul fatto che il governo federale debba collocare gli immigrati che si trovano nel Paese illegalmente in campi di internamento sorvegliati dall’esercito statunitense fino a quando non possono essere espulsi.
La maggioranza degli americani concorda anche sul fatto che “il Presidente Trump ha oltrepassato la sua autorità ordinando il licenziamento di massa dei dipendenti federali in diverse agenzie”.
Più di sette americani su 10 sono contrari alla chiusura o alla drastica riduzione di tutte le principali agenzie federali, soprattutto se ciò significa che cose come i viaggi aerei, le medicine e l’acqua potrebbero essere meno sicure. Due terzi degli americani sono contrari a nuove tariffe, o tasse, sui beni importati da altri Paesi.
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
PAROLIN DI FRONTE AI 30MILA MORTI DI GAZA PARLO’ DI “SPROPORZIONATA REAZIONE” DELLO STATO EBRAICO… IL DISGELO CON LA CINA E’ STATO VISTO COME UN CEDIMENTO AL REGIME COMUNISTA DALL’ALA CONSERVATRICE DELLA CHIESA
Rapporti di forza, cordate, trattative segrete, potere: cosa c’è di più politico del
conclave? Evento politico e geopolitico per eccellenza, perché dall’uomo che regnerà su un miliardo e mezzo di cattolici nel mondo dipendono anche una buona parte degli equilibri globali.
E allora non è blasfemia raccontare quanto sia interesse dei capi di Stato e di governo sapere chi salirà sul trono di Pietro. Quanto, attraverso un sapiente uso
delle proprie relazioni, questi leader provino a sondare, se non addirittura orientare, qualche cardinale, o i pontieri, nella speranza che alla fumata bianca, dal balcone di San Pietro, si affacci un volto a loro gradito.
Sarebbe poco più di un gioco – chi tifa per chi – se non ci fossero prove di corteggiamenti reali, se tra cardinali e fonti diplomatiche non si raccontasse di precise predilezioni, e in alcuni casi anche di colloqui veri e propri a sostegno di un candidato.
Le previsioni della vigilia premiano il segretario di Stato Pietro Parolin, inquadrato tra i progressisti. Con qualche notevole eccezione, tipo Israele, è il porporato che più di altri in questi complicati anni di guerre e frammentazione delle alleanze ha conquistato i cuori dei leader, trasversalmente alla loro appartenenza politica, grazie al ruolo di capo della diplomazia vaticana.
Ma partiamo da ieri. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in visita di Stato a Roma, ha chiesto di infilare all’ultimo una tappa in Vaticano, per un saluto proprio a Parolin. Considerando se stesso la guida dei popoli musulmani che si affacciano sul Mediterraneo, Erdogan ha apprezzato come il segretario di Stato, ancora prima di papa Francesco, di fronte a 30 mila morti a Gaza abbia parlato di «sproporzionata reazione di Israele». Per lo stesso motivo, Parolin non potrà certo contare sul tifo del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
La continuità con Bergoglio è una faccenda delicata. Raccontano in Vaticano come Parolin abbia subìto il piglio da accentratore del pontefice argentino, e come sia stato a volte depotenziato, per esempio quando Francesco spedì in Ucraina e in Russia il capo dei vescovi italiani Matteo Zuppi, per parlare di pace.
Nel duello tutto italiano e interno ai riformisti, di fronte a una ipotetica scelta, Parolin avrebbe molte più chance di raccogliere consenso tra i conservatori, etichetta che in questo caso va intesa sia per i cardinali sia per i leader politici. Il suo riconosciuto pragmatismo potrebbe aiutarlo ora in conclave, come lo ha aiutato in questi anni, anche in confronti difficili.
Sui migranti, per esempio.
Fermo sui principi dell’accoglienza e d’accordo con l’inflessibilità di Bergoglio, è riuscito a mediare con la destra italiana ogni volta che è stata al governo:
contribuendo, per esempio, a una soluzione umanitaria assieme al premier Giuseppe Conte per far sbarcare i migranti che Matteo Salvini teneva fermi in mare.
Ha lavorato per smussare i conflitti con il governo di Giorgia Meloni, trovando alla fine un’ottima interlocuzione con Palazzo Chigi, pure nell’organizzazione del Giubileo..
Uno dei risultati diplomatici del pontificato di Bergoglio è stato l’accordo con la Cina, prorogato qualche mese fa per altri quattro anni. Un capolavoro dal punto di vista di Parolin che lo ha gestito, un cedimento al regime comunista per l’ala conservatrice della Chiesa. Questo, secondo le fonti cardinalizie, potrebbe essere il suo punto debole, nella ricerca di un consenso più largo, aperto a destra.
Letto con gli occhiali dei rapporti internazionali, è un nodo da sciogliere anche con Donald Trump, che sta ridefinendo le priorità geopolitiche degli Stati Uniti proprio contro le ambizioni egemoniche di Xi Jinping.
Parolin è allievo del cardinale Achille Silvestrini, tra i registi della Ostpolitik vaticana, la politica di progressiva apertura all’Est Europa e di normalizzazione dei rapporti con l’Unione Sovietica.
Una strategia politica riapplicata verso l’Estremo Oriente, dove è nato e ha origine un altro cardinale spendibile con i cinesi: il filippino Luis Antonio Tagle, anche lui un bergogliano finito nella short list dei favoriti.
(da agenzie)
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Maggio 1st, 2025 Riccardo Fucile
IL SUCCESSO DEL NEOFITA LIBERALE NELLO SLOGAN RIPRESO DALL’HOCKEY: “ELBOWS UP” (GOMITI ALZATI) CHE DESCRIVE IL MODO DI PROTEGGERSI DAGLI AVVERSARI
Il successo di Mark Carney, il neofita della politica canadese, eletto per la prima volta alla Camera dei Comuni e confermato primo ministro dopo poco più di un mese di campagna forsennata, sta tutto in una manciata di frasi ripetute nel discorso della vittoria, lunedì notte.
«Chi è pronto a difendere il Canada insieme a me?», dice nella TD Place Arena, il palazzetto dell’hockey di Ottawa. La zona degli spalti è quasi vuota. Attorno a lui si stringono poche decine di fedelissimi con le bandierine rosse in mano.
L’atmosfera è gioiosa ma calma e un po’ noiosa, come il leader che scandisce: «Abbiamo superato lo choc del tradimento americano, ma non dovremmo mai dimenticare la lezione. L’America vuole la nostra terra, le nostre risorse, la nostra acqua, il nostro Paese. Non sono finte minacce. Il presidente Trump sta cercando di spezzarci per possederci. Questo non accadrà mai e poi mai. Ma dobbiamo anche riconoscere la realtà che il nostro mondo è cambiato
radicalmente».
Carney non è un trascinatore di folle. […] Il suo punto di forza non sono le chiacchiere ma le cose che s’impegna a fare, lavorando «in modo costruttivo con tutti i partiti in Parlamento», conscio di aver bisogno di appoggio esterno per guidare un governo di minoranza.
«Mettiamo fine alle divisioni e alla rabbia del passato. Siamo tutti canadesi e il mio governo lavorerà per e con tutti». La promessa, o speranza, è che sia capace di «rendere l’economia canadese meno dipendente dagli Stati Uniti». È il punto forte di questo banchiere, che alla politica per molti anni ha preferito bilanci e piani d’investimento.
Carney deve il suo successo a Trump e all’hockey, che giocava da bambino. Il presidente americano, con i suoi attacchi, gli ha messo su un piatto d’argento le frasi giuste per galvanizzare gli elettori — «Non saremo mai il 51° Stato Usa», la più citata nei comizi — mentre lo sport più amato dai canadesi gli ha fornito lo slogan per conquistare i cuori: «Elbows up», gomiti alzati, che nel gergo dell’hockey descrive un modo efficace per proteggersi dall’avversario.
Carney non è certo un novellino del potere. Ha lavorato al ministero delle Finanze, è stato governatore della Banca del Canada e di quella d’Inghilterra.
Conosce tutti nel Partito liberale che lo corteggiava da anni. Quando si è capito che la luce di Trudeau si era ormai spenta è stato quasi naturale rivolgersi a lui: l’unico che poteva salvare i Liberali e, forse, fermare i dazi di Trump.
Ieri, sconfitti i venti populisti in casa, Carney ha scritto su X quello che i suoi cittadini vogliono leggere: «Questo è il Canada e siamo noi a decidere quello che succede qui».
Quest’anno il Canada ha la presidenza del G7 e ne ospiterà il vertice a Kananaskis, in Alberta, dal 15 al 17 giugno, a ridosso del vertice Nato dell’Aja (24-25) cui segue a ruota il Consiglio europeo del 26-27 giugno. A Kananaskis, Donald Trump non troverà una presidenza canadese più compiacente di quanto lo sarebbe stata con Trudeau e si confronterà con un leader inossidabile che ha un orizzonte politico (2029) più lungo del suo (2028).
Da Carney ci si può aspettare un forte appoggio a Kiev – immediate e calorose le congratulazioni di Zelensky – e alla linea europea (o dei “volenterosi” franco-britannici…) sull’Ucraina, nonché la massima apertura a un rafforzamento delle relazioni commerciali ed energetiche con l’Ue. L’ha appena ribadito. Visto dalla Casa Bianca, il voto canadese non rallegra certo i 100 giorni della seconda presidenza Trump.
Ma rallegra quanti abbiano a cuore la democrazia e la correttezza istituzionale, fondamentale al suo funzionamento, grazie all’immediata concessione dello sconfitto Pierre Poilievre, a conteggi ancora in corso, col sorriso sulle labbra pur non sapendo che il suo stesso seggio era a rischio (l’ha perso). Reciprocata prontamente da Mark Carney. Come si usava fare negli Stati Uniti. Prima di Donald Trump.
(da La Stampa)
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