Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
GIAN ANTONIO STELLA SI OCCUPA DELLO SCANDALO DEI 650MILA EURO PER IL CONCERTO DI RICCARDO MUTI NELLA VALLE DEI TEMPLI: “MUTI E L’ORCHESTRA GIOVANILE CHERUBINI NON C’ENTRANO. IL LORO DOVERE, LORO SÌ, L’HANNO FATTO FINO IN FONDO COL MAGNIFICO CONCERTO DEL 7 LUGLIO. IL CONTORNO, PERO’, GRIDA VENDETTA. A PARTIRE DAI 654.977 EURO DI COSTI PER TRE QUARTI INGOIATI DA SPESE STRATOSFERICHE SU CUI INDAGA LA CORTE DEI CONTI”
E così la gran serata nella Valle dei Templi è andata in onda di notte, con le televendite dei
materassi.§Sia chiaro: Riccardo Muti e l’Orchestra Giovanile Cherubini non c’entrano. Il loro dovere, loro sì, l’hanno fatto fino in fondo col magnifico concerto del 7 luglio. Il contorno, però, grida vendetta. A partire dai 654.977 euro di costi per tre quarti (!) ingoiati da spese stratosferiche su cui indaga la Corte dei conti.
Dal volo in Sicilia pagato più d’un Roma-Pechino all’ospitalità affidata a un’agenzia che offre gite in pullman a 23 euro (solo bus) all’Acquapark Etnaland fino a oscuri «servizi produzione audio video» da 139.446 o una «produzione tecnica» (luci e suoni?) da 144.082.
Certo è che anche quella serata musicalmente magica è finita nel calderone delle polemiche per il confronto con concerti assai
meno salati del Maestro e dei suoi giovani ma più ancora per la denuncia dell’archeologa Caterina Greco, già direttrice e soprintendente a Selinunte e Agrigento. Che spulciando le delibere regionali ha messo il dito nella piaga di quello che trionfalmente fu presentato come l’anno del riscatto dell’antica e nobile Girgenti voluta dal governo Capitale italiana della Cultura 2025.
Ricordate? Avevano promosso l’evento come «una grande occasione per tutta la Sicilia» (Elvira Amata, assessore regionale al Turismo), inorridito gli archeologi assemblando un Telamone-Frankenstein composto da oltre 90 pezzi di otto telamoni diversi, sperperato 1.260.151 euro (con un obolo di 42 mila di incassi in beneficenza) per registrare nell’afa agostana un concerto natalizio de Il Volo con gli spettatori obbligati a cappotti e piumini, piazzato un mega-manifesto sulla «strada degli scrittori» con due strafalcioni in quattro righe e spinto un giornale locale a titolare «Attesi ad Agrigento tre milioni di turisti».
Tre milioni!
Ciao: «La sensazione, purtroppo, è che ci sia un calo rispetto agli ultimi anni», sospira Francesco Picarella, presidente girgentino di Federalberghi, «mancano gli italiani. Pareva essere partita abbastanza bene ma poi si è bloccato tutto. Speriamo in un colpo di coda in autunno…».
Un boomerang: ecco cosa sono state le trionfalistiche previsioni. Tanto più che l’annus mirabilis è via via degradato in una serie di «incidenti» da incubo.
Prima il video con l’acqua grondante dal soffitto su un gruppo jazz nel Teatro Pirandello che di lì a pochi giorni doveva ospitare Sergio Mattarella per l’inaugurazione ufficiale. Poi i 510 mila euro spesi dalla giunta regionale per asfaltare in tutta fretta le strade del percorso presidenziale col risultato che due giorni dopo gli addetti alle forniture d’acqua cercavano tombini col metal detector. Poi la scoperta che il sontuoso Palazzo Tomasi sottoposto a restauri ventennali non poteva ospitare la Fondazione Agrigento Capitale (e così è ancora oggi!) perché si erano dimenticati di allacciare l’acqua, la luce e il telefono.
E poi ancora il crollo a metà maggio, a causa di uno scavo inconsulto nelle vicinanze, di un’ala dell’antico ospedale destinato a diventare sede dell’Università. E la provvisoria chiusura per rischi di stabilità del liceo scientifico «Raffaello Politi», nella scia dell’altrettanto provvisoria evacuazione per problemi simili dell’istituto professionale «Fermi», mai più riaperto. E la notizia che il famigerato Viadotto Morandi, che già rimanda sinistro alla tragedia genovese e da tempo immemorabile è per metà sbarrato, verrà riaperto non prima del 2027.
E via così di guaio in guaio… Con gli agrigentini costretti ancora, dopo decenni di denunce sulle condizioni della rete idrica che perde metà dell’acqua immessa, a riempire i serbatoi casalinghi
Nel frattempo, mentre la politica locale è squassata dalle polemiche sulla pioggia di contributi pubblici agli amici e le intercettazioni nei dintorni del presidente destrorso dell’Ars Gaetano Galvagno (memorabile quella finita in Ansa della portavoce Sabrina De Capitani sulla capitale della cultura: «Se abbiamo il controllo noi possiamo fare quello che vogliamo»
sugli occasionali eventi programmati per il malinconico annus mirabilis pare sceso il silenzio.
Anzi, c’è chi come il Comune di Sciacca ha voluto precisare che per la mostra su Caravaggio appena aperta «non ha avuto un euro». Come a dire: abbiamo dovuto fare tutto da soli.
Eppure, dice la denuncia di Caterina Greco, Agrigento 2025 avrebbe avuto 11.834.011 euro. Senza sponsor: «Nessuno ha evidentemente ritenuto di “mettere la faccia” in un’operazione che appare già irrimediabilmente compromessa». Confronto con Pesaro Capitale 2024: 6,18 milioni di euro per metà fondi pubblici, per metà privati, 2.683 eventi, 2.210 artisti arrivati da 30 Paesi del mondo.
Un po’ di rumore nella città dei templi, paradossalmente, l’ha fatto l’installazione «concettuale» The Silent Room dell’artista franco-libanese Nathalie Harb. Una specie di elegante tenda-gabbiotto costruita con un po’ di pali e di tela con dentro un materasso circolare e due cuscini che, spiega il sito ufficiale, «nasce per esplorare il diritto al riposo in uno spazio protetto, promuovendo la conciliazione e la cura collettiva». Il tutto alla modica cifra, scrive la Greco citando le determine dirigenziali, di 151.321 euro. Tanti soldi… Tanto più in una Sicilia che lamenta di non avere i piccioli per lo sfalcio costante dei siti archeologici.
Gian Antonio Stella
per il “Corriere della Sera”
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LE CESSAZIONI AVVENGONO PER LO PIÙ PER SCADENZA NATURALE DEL CONTRATTO (53,3%), MA ANCHE PER DIMISSIONI VOLONTARIE (IL 31,1%): MOLTI LAVORATORI PREFERISCONO L’INCERTEZZA DI UN SALTO NEL BUIO CHE ESSERE IMPIEGATI A CONDIZIONI INDECOROSE
In Italia il mondo del lavoro alle dipendenze non è solo precario ma anche troppo mobile: si entra e si esce con grande rapidità alimentando l’insicurezza e rendendo vana la possibilità di crescere professionalmente.
Nonostante sia innegabile che cresce l’occupazione (nel primo trimestre del 2025 il tasso di occupazione è salito al 62,7% – +0,4 punti – mentre il tasso di disoccupazione è invariato al 6,1% e il tasso di inattività scende al 33,1% perdendo 0,4 punti), restano tutti i punti dolenti legati all’instabilità degli impieghi, a partire dai troppi contratti brevi, anche solo di pochi giorni, legati soprattutto al settori del commercio e del turismo, che vanno a ingrossare i dati.
Guardando al saldo tra assunzioni e cessazioni, nell’arco dei primi tre mesi del 2025 l’88,8% dei 15-29enni non è più in servizio per scadenza del contratto e per dimissioni. Nella stessa condizione si trova l’83,8% del 30-50enni e il 79,2% degli ultracinquantenni.
Solo due su dieci arrivano al traguardo di un posto fisso: tutte indicazioni che emergono dalla lettura dei dati dell’Osservatorio sul mercato del lavoro dell’Inps sulle assunzioni e sulle cessazioni di personale alle dipendenze in Italia tra gennaio e marzo 2025.
In Italia, in questi mesi sono stati assunti alle dipendenze 1.844.019 persone. Il 40,2% dei neo assunti sono donne; il 28,5% di nazionalità straniera. Il 33,9% ha meno di 29 anni. La
quota dei 30-50enni è la più numerosa (44,3%) mentre gli ultra cinquantenni sono il 21,7%. Nello stesso arco di tempo il 75,7% dei neo dipendenti è stati assunto con contratti precari o se si preferisce instabili.
Nell’arco di 10 anni il tasso di precarietà è salito dal 68,1% al 75,7%. A livello territoriale si va da un minimo del 72,8% nel Nord Ovest ad un massimo del 79,6% nelle Isole. Per quanto riguarda le cessazioni dei rapporti di lavoro alle dipendenze, ne sono state registrate 1.493.970.
L’osservatorio fornisce informazioni interessanti e poco conosciute sui motivi delle cessazioni. «Navigando nella Banca Dati – sottolinea l’economista Mauro Zangola che ha curato il confronto – si scopre che nel nostro Paese nei primi 3 mesi di quest’anno il 53,3% delle cessazioni si è verificato per scadenza del contratto; il 31,1% per dimissioni; il restante 15,6% per motivi di natura economica (la crisi dell’azienda vale nell’8,5% dei casi), per motivi disciplinari (3,3%) per recesso consensuale (9,7%) e per altri motivi (3,1%)».
La quota di cessazioni dovuta a dimissioni è più alta tra i 30-50enni (33,0%). Quella generata da scadenza del contratto coinvolge il 60,6% dei giovani, il 50,8% dei 30-50enni e il 47,6% degli ultra 50enni.
Sommando per ciascuna classe di età le percentuali di cessazioni dovute a scadenza del contratto e a dimissioni si scopre, appunto, che alla fine dei 3 mesi del 2025 l’88,8% dei 15-29enni non è più in servizio. Nella stessa condizione si trova l’83,6% dei 30-50enni e il 79,2% degli ultra 50enni.
Negli ultimi 10 anni, tra il 2014 e il 2024, la quota di cessazioni dovuta a dimissioni è cresciuta dal 22,5% al 27,1% con una punta del 28,9% nel 2021 mentre quella per scadenza del contratto è cresciuta in modo costante dal 51,2% al 58,8%. Per effetto di questi andamenti la quota dei lavoratori non più in servizio nell’arco dell’anno è salita in modo costante dal 73,7% del 2014 al all’85,9% del 2024.
«Sottraendo dal numero delle assunzioni da quello delle cessazioni si ottiene un valore indicativo dei nuovi posti di lavoro creati nel periodo preso in esame. Facendo questo calcolo emerge che in Italia nei primi 3 mesi di quest’anno sono stati creati 350.049 nuovi posti di lavoro, poco meno del 20% degli assunti» aggiunge Zangola. Un problema, quello della precarietà su cui insistono molto i sindacati.
«L’occupazione cresce ma il tema è la qualità del lavoro. Lo stesso Istat dice che ci sono milioni di ragazzi disoccupati, che hanno un contratto a tempo determinato o sono costretti a part time involontari che impediscono di programmare la propria vita. Oggi queste persone sono fantasmi. Se non hanno una busta paga a tempo indeterminato – ha sottolineato in più occasioni il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri – non possono costruirsi un futuro».
(da agenzie)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
I BOSSIANI DEL PATTO PER IL NORD SONO AGGUERRITISSIMI: RACCOLGONO FIRME CONTRO IL PONTE SULLO STRETTO, INDICONO IL PRIMO “CONGRESSO FEDERALE” E RUBANO MILITANTI AL CARROCCIO
Propositi: arrivare sul “sacro pratone” di Pontida, il prossimo 21 settembre, con in tasca quattro
intese di autonomie regionali, cioè quelle di Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria. L’estate del Carroccio si muove attorno a questo obiettivo finale, per motivare la base storica certo, ma anche per ritrovare un senso. «Il potere serve a realizzare cose, non è il fine ma il mezzo», ha ribadito tre giorni fa alla festa romagnola Matteo Salvini. Già, ma la Lega era nata attorno ad un ideale, e poi veniva il resto. Qui c’è il resto e non si vede l’ideale.
«Esiste una questione meridionale, vero, ma c’è anche una questione settentrionale…», ricordava Luca Zaia, venerdì, dallo stesso palco di Cervia. L’articolo 1 della vecchia Lega Nord recitava come fine ultimo l’indipendenza della Padania, ora ci si fa bastare l’autonomia.
Il 30 luglio il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge costituzionale su Roma Capitale, e la Lega — la quale una volta la definiva “Roma ladrona” — è costretta a fare buon viso a cattivo gioco.
Non le resta che tentare le quattro intese entro la fine dell’estate, e al contempo ipotizzare regimi speciali per Milano, per Venezia, chi più ne ha più ne metta. Su sanità, Protezione civile, le professioni e la previdenza complementare integrativa (queste ultime tre sono «materie no Lep su cui ho l’ok da parte di tutti i ministri competenti», assicura da settimane il ministro agli Affari regionali Roberto Calderoli) le quattro regioni potrebbero portare a casa il risultato a stretto giro ed è quello che il segretario federale ha chiesto ai suoi.
La questione è anche che la Lega 2.0, nazional-sovranista, ma ancora gelosa del suo Alberto da Giussano, sente da tempo il fiato sul collo degli ex agguerriti del Patto per il Nord, il cui presidente onorario è Umberto Bossi. Giusto ieri Paolo Grimoldi ha presentato il gruppo locale proprio a Milano Marittima, a 800 metri in linea d’aria dalla festa regionale.
«Con Roma Capitale si completa il tradimento di Salvini e del suo partito nei confronti del nord — è l’analisi dell’ex parlamentare leghista — Quello che in termini di autonomia amministrativa, potestà legislativa e federalismo fiscale non hanno avuto le Regioni e i comuni del nord, lo avrà la città-stato di Roma Capitale».
Per dire il livello dello scontro: i neo-nordisti raccolgono firme contro il Ponte sullo Stretto, stampano un loro foglio (Nuovo vento del nord) col Sole delle alpi nella testata, scippato a via Bellerio, hanno indetto il loro primo “congresso federale” a
novembre, in provincia di Bergamo. Soprattutto, stanno rubando pezzi di militanza alla Lega per Salvini premier, gente che viene via e magari si porta appresso elenchi di iscritti e simpatizzanti.
La competizione sul tema più identitario di tutti è pesante e Salvini, quindi, ha bisogno di cose concrete da offrire ai territori che, vuoi o non vuoi, restano il cuore pulsante leghista.
La festa di Cervia non è stata esattamente un evento di popolo ma comunque 150-200 persone a sera ad assistere ai dibattiti serali c’erano
Ma non per caso ogni serata è partita col video emozionale, in stile mozione degli affetti. Le immagini della battaglia di Lepanto (1571), del Senatur scapigliato e le sue parole profetiche sull’Europa difficile da farsi davvero, dell’oggi rimpianto Bobo Maroni e infine di Salvini, colui che ha trasformato ogni connotato alla Lega ma che in tutto questo vorrebbe vederci una coerenza
(da Repubblica)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
COME SPUTTANARE 600 MILIONI DEGLI ITALIANI
Nato nelle intenzioni del governo come centro dove applicare le procedure accelerate di frontiera per l’esame delle domande di asilo, da aprile il Centro ‘italiano’ di Gjader, in Albania, funziona solo come Centro di permanenza per il rimpatrio.
Da allora sono transitati nella struttura 140 migranti. Ne sono usciti 113: 40 per mancata proroga del trattenimento, 15 per inidoneità sanitaria al trattenimento, sette per il riconoscimento della protezione internazionale e altri per motivi diversi; i rimpatriati sono stati 37. Le persone attualmente ospitate sono 27.
Numeri finora esigui, dunque, a fronte di programmi iniziali ben più ambiziosi nell’ambito di un progetto dal costo di quasi un miliardo di euro in 5 anni.
L’accordo tra Roma e Tirana, siglato dai due premier Giorgia Meloni e Edi Rama, infatti, prevedeva di accogliere a Gjader fino a 3mila richiedenti asilo ogni mese, per un tetto di 36mila l’anno. Nel sito sono state allestite – a spese italiane – tre differenti strutture: quella più grande è un centro per richiedenti asilo da 880 posti, poi un Cpr da 144 ed un penitenziario da 20. Un hotspot è stato realizzato nel porto di Schengjin. Lì – a bordo di una nave militare italiana – dovevano arrivare i migranti intercettati nel Mediterraneo centrale. Ma tutti i trasferimenti tentati si sono rivelati un flop perchè i trattenimenti a Gjader non sono stati convalidati dai giudici del Tribunale e poi della Corte d’appello di Roma. Questo per l’impossibilità di riconoscere come Paesi sicuri ai fini del rimpatrio Stati di provenienza con l’Egitto o il Bangladesh. I magistrati hanno chiesto alla Corte Ue di sciogliere il nodo. Cosa che è avvenuta oggi.
Ma il Governo, senza aspettare la sentenza odierna – e probabilmente prevedendone l’esito – aveva già cambiato la ‘destinazione d’uso’ dei centri. Da aprile sono stati infatti trasferiti a Gjader non più migranti prelevati in mare che hanno chiesto asilo, ma persone già ospiti dei Cpr italiani, proprio per bypassare la tagliola dei giudici sui trattenimenti.
I numeri si sono dunque assottigliati di molto rispetto alle previsioni. Anche perchè, se gli ospiti di Cpr italiani portati a Gjader fanno domanda di asilo, la procedura prevede che debbano essere trasferiti in Italia. La pronuncia della Corte, dunque, pur non toccando l’impiego attuale delle strutture albanesi, ne cristalizza il sotto-utilizzo.
(da agenzie)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
OLTRE 50 LAVORATORI NEL PORTO ALBANESE SONO RIMASTI SENZA OCCUPAZIONE, LE DUE CITTADINE PAGANO UN PREZZO ALTISSIMO PER L’ACCORDO TRA I DUE GOVERNI
Almeno 50 lavoratori del porto di Shëngjin avrebbero perso il lavoro in un anno. È questo il prezzo
altissimo pagato dai cittadini albanesi per l’attuazione del protocollo sui migranti siglato tra Roma e Tirana: un’informazione imbarazzante e per questo taciuta ma che tre diverse fonti hanno confermato ad Altreconomia.
“I motivi sono banali -racconta una di queste- l’apertura della struttura italiana ha ridotto di molto lo spazio disponibile e l’arrivo delle navi militari italiane in un simile porto complica di molto la logistica”. Tutti lo sanno, nessuno però ne vuole
parlare: a metà luglio 2025 l’ingresso al porto è vietato, i lavoratori sono sfuggenti e il direttore dello scalo albanese irraggiungibile. Il dato numerico resta così solo una stima che, però, basta a fotografare l’impatto sul tessuto sociale locale di centri italiani.
Nella cittadina costiera albanese, affollata di turisti, la società Rafaelo resort hotel Spa sembra essere l’unica ad averci guadagnato davvero. Per l’ospitalità degli operatori di polizia italiani ha ricevuto in totale, dal giugno 2024 a oggi, 8,9 milioni di euro dal Viminale.
Un importo che potrebbe ancora crescere: a metà luglio 2025, infatti, la Direzione centrale immigrazione e polizia delle frontiere ha pubblicato un nuovo bando richiedendo alle due partecipanti (oltre alla Rafaelo è in corsa anche la Xenia Spa, colosso del settore ricettivo con sede legale a Chiasso, in Svizzera) un preventivo biennale per l’accoglienza di 300 unità, che possono aumentare fino a 400 nei “periodi di avvicendamento del personale”. Numeri impressionanti se si pensa che al 27 luglio erano trattenute 29 persone nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) albanese. Non solo. “Sinceramente tutte queste divise non so quanto facciano bene al turismo, le auto che fanno avanti e indietro verso il centro si notano”, racconta un residente.
Sono circa 20 i chilometri che separano Shëngjin da Gjadër, dove sorge la seconda struttura prevista dal protocollo Italia-Albania: la più imponente, con una capienza di quasi 1.100 posti (sulla carta) tra quelli riservati alle persone straniere trattenute e quelli di servizio per il personale dell’ente gestore Medihospes e
degli operatori di polizia. Muovendosi verso il centro, quando dalla strada principale che collega la capitale Tirana a Scutari si svolta a destra per immettersi sulla secondaria che porta alla cittadina albanese, si incontra già un po’ di Italia. Dall’ottobre 2009 nel Comune di Gocaj, infatti, è attivo uno stabilimento della Colacem Spa, una delle principali società italiane attive nella produzione di cemento. Superando il sito produttivo, dopo poco meno di dieci chilometri, dietro una curva a sinistra spicca l’ingresso della struttura su cui sventolano la bandiera italiana e quella dell’Unione europea.
Il cancello, grigio e imponente, segna una linea di confine: i poliziotti albanesi bivaccano nel gabbiotto appena fuori. Si muovono, di fatto, solo se attivati dai “colleghi” italiani che al nostro arrivo non tardano a chiamarli per le foto che cominciamo a scattare dall’esterno della struttura. “Fermateli”, grida un poliziotto italiano. Quello albanese, però, una volta avvicinatosi, spiega infastidito che fuori dal centro la competenza è loro e i “colleghi” non hanno alcun motivo di intromettersi. “Ho visto che eravate sufficientemente lontani a fare le vostre riprese”, sottolinea.
Tutto è molto labile, confuso, a tratti paradossale. Così mentre Arben, uomo sulla quarantina che abita nei pressi del centro, racconta quello che sa sulla struttura, due macchine della polizia penitenziaria italiana sfrecciano dietro di lui. “Dicono che dentro ci sono ‘criminali’, persone che hanno commesso gravi reati -spiega dubbioso mentre scarica la spesa dal baule della macchina-. Sinceramente so davvero poco. Anche perché dentro non si vede nulla”.
In un piccolo paese di circa 800 abitanti l’ignoto spesso lascia spazio a voci e informazioni non verificate. A Gjadër ne girano tantissime.“Abbiamo sentito voci secondo cui i detenuti provenienti dal Regno Unito saranno trasferiti nella struttura carceraria per evitare che i centri rimangano vuoti. Ci sono trenta stanze lì. Abbiamo sentito che Meloni ha raggiunto un accordo con i leader britannici”, racconta una fonte interna ai Cpr che ha chiesto di rimanere anonima. Un’altra, invece, ci assicura che un cittadino albanese è attualmente presente nel Cpr. Non è così, dai dati ufficiali, ma la linea che separa la propaganda e la realtà nella cittadina albanese ormai non esiste più. E per gli abitanti non è affatto una novità la condizione in cui si ritrovano a vivere.
Dopo essere stata in passato una delle zone più floride per la coltivazione di granoturco e girasoli oltre che per il pascolo di mucche da latte, tutto cambia nel 1974. In pieno comunismo, il presidente Enver Hoxha decide di costruire a Gjadër una delle più grandi basi militari dei Balcani. Sotto la collina adiacente ai centri per migranti fu costruita una lunga pista d’atterraggio segreta e, a poche centinaia di metri di distanza, una pista “sorella” per permettere il decollo all’aperto dei velivoli. Quell’area, poi, venne utilizzata anche dalla Cia durante gli anni Novanta per poi essere dismessa. Oggi è presidiata dai militari perché non è ancora stata bonificata e sembrerebbe che diversi materiali d’armamento siano ancora presenti tanto nella galleria quanto all’esterno. Informazioni, però, da prendere con le pinze perché anche su quanto successo nel passato spesso le testimonianze dei residenti restano contraddittorie.
“Viviamo di nuovo immersi nell’incognita -spiega uno di loro,
nato nel paese e poi trasferitosi all’estero-. L’abbiamo sperimentato durante il comunismo e oggi di nuovo ma credo ci sia una grossa differenza rispetto al passato”. Per l’uomo, infatti, la presenza di militari negli anni Novanta era più silente. “Oggi non è così. Anche solo perché mentre percorri la strada che arriva al centro di Gjadër ti ritrovi all’improvviso davanti all’ingresso delle strutture con sbarre, polizia e la bandiera italiana. È tutto così anomalo e triste”.
La maggior parte dei residenti incontrati non hanno un’opinione chiara sul protocollo o comunque sono restii a condividerla. Quel che si sa, invece, è che in termini di posti di lavoro anche nella cittadina interna, così come a Shëngjin, la struttura non ha modificato le sorti degli abitanti. Sarebbero tre le persone che hanno trovato un lavoro all’interno, con un compenso mensile non superiore ai 500 euro e comunque più basso rispetto ai colleghi italiani che svolgono la stessa mansione. In totale, si stima che l’ente gestore abbia assunto circa il 20% di personale di origine albanese, molti dei quali provenienti da fuori Gjadër.
“Stanno cercando nuovi operatori legali da inserire nella struttura -racconta una fonte interna ai centri la mattina del 23 luglio-. Stanno offrendo contratti a partire dal primo agosto perché dicono che il tribunale europeo darà ragione al governo italiano”. Così non è stato.
La mattina del primo agosto, infatti, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la definizione di “Paese di origine sicuro” non può essere applicata qualora uno Stato non garantisca a tutta la popolazione una protezione sufficiente. Un tassello fondamentale per l’impalcatura dell’iniziale progetto di
funzionamenti dei centri in Albania. “Sorprende la decisione della Corte”, ha fatto sapere il governo. L’aria che tirava a Gjadër e forse anche a Palazzo Chigi era diversa. Probabilmente, quindi, nessun lavoratore in più verrà assunto. Quelli già contrattualizzati che continuano a vivere in un “clima di terrore”, invece, nei giorni scorsi hanno rinnovato l’accordo per altri tre mesi.
(da AltraEconomia)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
“ALL’INIZIO, ASPIRAVA ALLO STATUS DI UN POLITICO MODERNO E ILLUMINATO. ORA VIENE OSTENTATAMENTE UMILIATO, E GLI VIENE IMPOSTO DI DARE VOCE ALLE PIÙ IDIOTICHE PROVOCAZIONI PER INTIMIDIRE GLI USA E L’EUROPA”
“Il presidente degli Usa fa un’azione speculare a quella di Vladimir Putin, il quale in questi anni ha cercato più volte di fare pressione sull’opinione pubblica occidentale lasciando intendere la sua determinazione nell’andare fino all’Apocalisse’, cosa che in realtà non è mai stata vera.
Molte volte questa tattica ha dato i suoi frutti. Nella società
sorgevano umori di panico, la Casa Bianca iniziava a cercare compromessi, in sostanza venivano fatte concessioni a Putin.
È accaduto nel febbraio 2014 durante l’occupazione della Crimea. E poi nel febbraio 2022, all’inizio della guerra con l’Ucraina, e nell’ottobre del 2022, quando Putin doveva salvare le truppe incastrate a Kherson, e nel febbraio 2024, quando bisognava fermare le forniture militari Usa all’Ucraina. Solo per fare degli esempi”.
Lo dice in una intervista al Corriere della Sera, Evgenij Savostyanov, che fu capo del Kgb di Mosca e poi un tecnico dall’importante passato militare al servizio dei governi, compresi quelli di Vladimir Putin.
“Agli analisti del Cremlino non sarà sfuggita la menzione di due sottomarini nucleari, a quanto pare della classe Ohio dotati di armamenti nucleari o convenzionali, il cui potenziale è sufficiente per azzerare la componente strategica terrestre russa con rampe di lancio”, afferma, spiegando che Medvedev “all’inizio, aspirava allo status di un politico moderno e illuminato.
Ora viene ostentatamente umiliato, cosa che avveniva anche negli anni della sua presidenza, imponendogli di dare voce alle più idiotiche provocazioni per intimidire gli Usa e l’Europa”. “Semplicemente, andrebbe trascurato. Da lui, come da tutti gli intimi di Putin, non dipende nulla”, sottolinea.
(da agenzie)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
AI SUOI EVENTI ELETTORALI E PER LE STRADE DI SANTIAGO, COMPAIONO SEMPRE PIÙ SPESSO GRANDI POSTER ROSSI CON IL RITRATTI IN BIANCO E NERO DELLA “RAFFA”, ACCOMPAGNATO DALLA SCRITTA “SIEMPRE VOTO COMUNISTA” … IL FENOMENO È NATO DA UNA CARTOLERIA STORICA DEL CENTRO DI SANTIAGO, CHE HA INIZIATO A STAMPARE I CARTELLONI PER UNA RAGIONE SPECIFICA
Il prossimo 16 novembre in Cile si terranno le elezioni presidenziali e il Paese sudamericano è già in
piena campagna elettorale. Una campagna che ha una protagonista inattesa: Raffaella Carrà.
La candidata di sinistra (fronte che in Cile si presenta unito) è Jeannette Jara, esponente del Partito comunista, e nella storia del Cile, è solo la seconda volta che accade. Ma da qualche settimana, ai suoi eventi elettorali e per le strade di Santiago, compaiono sempre più spesso grandi poster rossi con il ritratto in bianco e nero di una giovane Raffaella Carrà accompagnato dalla scritta: “Siempre voto comunista”, e sotto, in italiano, “una di noi”.
Il fenomeno è nato così. Due giorni dopo la vittoria di Jara alle primarie della sinistra, ottenuta con il 60% dei voti, una cartoleria storica del centro di Santiago – la Libre Arte y Diseño – ha iniziato a stampare il poster con il viso di Carrà. «Lo abbiamo creato per una ragione specifica – spiega il proprietario dellacartoleria Cesar Padilla, 57 anni – Subito dopo la vittoria nelle primarie, sembrava che Jara volesse lasciare il partito comunista per riuscire a intercettare più facilmente i voti della sinistra moderata. E quello che noi volevamo dire con questo poster era: essere comunisti non è un peccato, guardate Raffaella, lei non se ne è mai vergognata, anzi! La nostra idea ha funzionato».
Spiega ancora Cesar: «Raffaella Carrà era un’icona in Italia, in Europa, in tutto il mondo, come donna e come comunista. E non solo: è stata una delle prime persone a parlare apertamente in appoggio al mondo Lgbt».
La cantante italiana, morta nel 2021, era molto conosciuta in tutta l’America Latina soprattutto per la sua musica e come icona di stile, ma in Cile anche come figura politica nel mondo progressista. Ai tempi della dittatura di Pinochet (1973-1990) Carrà era già molto nota e veniva spesso invitata a trasmissioni televisive e festival.
Nel 1982 venne invitata a partecipare al Festival di Viña del Mar, uno dei festival storici latinoamericani, e incoronata “regina” di quell’edizione. La sua esibizione al festival passò alla storia: in un momento in cui in Cile qualsiasi libertà di espressione personale era proibita, Carrà fu esplosiva, non limitandosi mai sia nei balli che nelle parole delle canzoni.
È del 1977, del resto, la sua celebre intervista con la rivista spagnola Interviù, da cui proviene la frase usata oggi nei manifesti elettorali, in cui Carrà aveva dichiarato di «votare sempre per il Partito comunista». Racconta ancora Cesar, il cartolaio: «Quando abbiamo avuto l’idea non sapevamo come
sarebbe andata. Era sicuramente un poster inusuale per una campagna politica, ma è stato un successone».
Boric e il candidato di estrema destra José Antonio Kast, che corre anche quest’anno.
Per ora i sondaggi danno Jara in vantaggio con il 26%.Ma i suoi avversari sono tutti di destra, da quella estrema di José Antonio Katz e Johannes Kaiser a quella moderata di Evelyn Matthei. La vera incognita, dunque, sarà il secondo turno.
(da La repubblica)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
L’ODIO VERSO I MUSULMANI CRESCE DA ANNI, MA CI SI MOBILITA (GIUSTAMENTE) SOLO PER GLI EPISODI DI ANTISEMITISMO
Un uomo viene forse aggredito in un autogrill e il sistema mediatico italiano reagisce immediatamente: editoriali, interviste, dichiarazioni ufficiali parlano di antisemitismo. Ogni forma di razzismo va giustamente condannata. Tuttavia, emerge la versione degli accusati, i quali affermano di essere stati aggrediti perché parlavano arabo e indossavano ciondoli palestinesi, venendo etichettati come “terroristi”; hanno sporto denuncia, allegando un referto ospedaliero per una testata e un
pugno ricevuti.
Il punto, però, non è stabilire chi abbia ragione, anche perché oggi si tende a giudicare prematuramente, persino da parte dei giornalisti.
La vera domanda, spesso taciuta, è un’altra: perché alcuni razzismi vengono immediatamente riconosciuti e condannati, mentre altri restano senza nome?
Perché l’antislamismo, pur in forte crescita e documentato da dati e istituzioni internazionali, continua a non entrare nel linguaggio politico e mediatico?
Davanti a violenze strutturali, discriminazioni sistemiche, pulizie etniche e tragedie umanitarie accertate, continuiamo a esitare, come se mancassero le parole — o la volontà — per nominarle.
Il razzismo verso il mondo musulmano – l’antislamismo – è sistemico, quotidiano, diffuso nelle strade così come sui social sia di cittadini comuni sia di importanti personalità politiche. Eppure resta invisibile. Non perché non esista, ma perché non ha cittadinanza nel linguaggio della politica e dell’informazione mainstream.
I numeri che non vogliamo vedere
In Italia, l’antisemitismo è raddoppiato nell’ultimo anno. 877 casi di cui 600 online. Tutto ciò fa rabbrividire. I report sulle discriminazioni però parlano chiaro: i musulmani nel 2023 hanno subito 1.106 crimini d’odio, il 26% in più. Uno è in crescita ora e ce ne accorgiamo. L’altro è ancora più in crescita da anni, ma lo ignoriamo.
Oltre alla violenza, tra i musulmani, il 34% ha dichiarato di aver subito discriminazioni nella vita quotidiana; il 37% ha subito
discriminazione nella ricerca di lavoro, il 32% nell’accesso alla casa.
Nell’ultimo decennio, in Europa e in Italia, l’antislamismo è la forma di razzismo in più rapida crescita. Eppure, la parola stessa – “antislamismo” – è assente dal dibattito pubblico. È come se non potesse esistere. Come se denunciare l’odio verso i musulmani fosse una colpa. Come se parlarne significasse “giustificare il terrorismo”, o “attaccare l’Occidente”. E per alcuni (molti) lo è. Bisogna infatti avere il coraggio di fare un discorso oggettivo e a 360 gradi, altrimenti si rischia di cadere in una narrazione da bispensiero Orwelliano, dove si considerano certi gravi fatti di razzismo solo quando colpiscono qualcuno che ci rappresenta o con cui empatizziamo.
L’estremismo politico travestito da antirazzismo
Uno dei recenti casi di antisemitismo riguarda un gruppo di 50 bambini francesi che, cantando in ebraico, sono stati allontanati da un volo Vueling. I media hanno attribuito l’episodio all’antisemitismo e alle “bugie di Hamas”, mentre la compagnia ha chiarito che trasporta persone di ogni origine senza problemi e che il gruppo stava violando le misure di sicurezza, mettendo a rischio i passeggeri, tentando persino di aprire i dispositivi di emergenza. Al di là della verità dei fatti, colpisce che il Simon Wiesenthal Center abbia chiesto giustamente un’indagine indipendente per l’episodio, ma abbia poi definito “una giustificazione dei crimini di Hamas” la proposta dell’ONU di avviare un’indagine indipendente sui crimini commessi a Gaza.
Questo mostra un doppio standard: ciò che è giusto per alcuni, non vale per altri. Ne deriva una narrazione distorta in cui
chiunque critichi Israele o il sionismo, anche con rispetto verso il popolo ebraico, viene accusato di antisemitismo.
Emblematico è il caso di Francesca Albanese, esperta ONU italiana, sanzionata per “virulento antisemitismo” dopo aver denunciato le aziende occidentali che traggono profitto dallo sterminio. Una sanzione che la equipara ai coloni armati che aggrediscono i palestinesi per sottrarre loro la terra. Paradossalmente, a Yinon Levy — che qualche giorno fa ha sparato all’attivista Awda Hataleen in Cisgiordania — gli USA sotto Trump hanno revocato le sanzioni per crimini contro i palestinesi. Viene sanzionato più severamente chi denuncia crimini che chi quei crimini li commette. Secondo Netanyahu, Persino la Corte criminale internazionale (ICC) è antisemita perché sta indagando “su finti crimini di guerra”. Chi critica Israele è dunque un razzista, anche quando lo fa nel rispetto degli ebrei e del diritto internazionale.
Il razzismo (e il genocidio) selettivo
Il punto è che in Occidente il razzismo viene riconosciuto solo quando tocca certe categorie. Alcuni hanno diritto alla protezione, altri no. Alcuni hanno diritto alla memoria, altri vengono ridotti a statistiche, o a “effetti collaterali”. Negli ultimi 25 anni abbiamo mosso guerra tra Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Iran causando centinaia di migliaia di morti civili.
Qualche anno fa veniva chiamato genocidio quanto accadeva nello Xinjiang cinese nei confronti degli arabi e si parlava di “campi di concentramento”. Nonostante anche qui fosse palese il razzismo, l’islamofobia non era il nemico della narrazione, i cinesi lo erano. Infatti, lo definivano in questi termini gli stess
giornalisti e testate che oggi fanno fatica a chiamare genocidio e campo di concentramento quanto accade a Gaza, anche se si tratta di un’atrocità infinitamente peggiore e difficilmente paragonabile in termini di vittime o crimini.
Infatti, anche per gli storici Israeliani dell’olocausto come Bartov, Blatman, Goldberg si tratta di un genocidio, per alcune NGO israleiane è genocidio, per l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert il “piano umanitario” di Netanyahu a Gaza è un “campo di concentramento”. La domanda sorge spontanea, anche tutti loro sono antisemiti?
Chi stabilisce cosa è razzismo?
La violenza verbale e fisica verso il mondo islamico, invece, non ha avuto bisogno di eventi recenti per essere sdoganata. È vent’anni che politici e opinionisti parlano pubblicamente di “invasione islamica”, di “cultura incompatibile”, di “nemico interno”. Nessuna indagine, nessuna indignazione mediatica. C’è chi ha titolato “Bastardi Islamici” violando ogni deontologia. Alcuni di loro oggi sono al governo, altri dirigono testate, improvvisamente, dopo avere fomentato e negato il razzismo sugli islamici per anni, sono diventati paladini della lotta al razzismo. Ma solo quello che conviene.
Pensiamo anche a come negli Stati Uniti e in Italia, il peggior terrorismo degli ultimi decenni – in termini di vittime totali – non è stato commesso da islamici, ma da supreamtisti bianchi (dal 2001 le sparatorie hanno causato oltre 3000 vittime, più dell’11 settembre) o estremisti di destra (come gli attivisti della Lega e di Casapound colpevoli della strage di Firenze e Macerata, personaggi che negano l’olocausto o glorificano
Hitler, e che paradossalmente, sostenevano ideologie e gruppi oggi vicini a Meloni, la quale sostiene Trump e Israele). Eppure, è il volto del musulmano quello che viene associato alla minaccia. È su quel volto che si scarica la diffidenza, la discriminazione, la violenza quotidiana.
Il razzismo in Israele
Pur essendo linguista, l’autore evita di approfondire il dibattito sull’etimologia del termine “semitico”, che include sia ebrei sia arabi, per concentrarsi invece sul razzismo sistemico e istituzionalizzato presente in Israele da oltre 30 anni, assimilabile a un regime di apartheid. Questo sistema si manifesta attraverso leggi e norme che opprimono una parte della popolazione: ad esempio, un ebreo israeliano può usufruire della Legge del ritorno, ottenendo automaticamente la cittadinanza, mentre i palestinesi rifugiati e i loro discendenti non possono tornare. Esistono inoltre discriminazioni nei ricongiungimenti familiari, limitazioni al movimento (strade vietate ai palestinesi), e disuguaglianze nell’accesso a terra, acqua, giustizia, sanità, istruzione e finanziamenti.
Ci si chiede perché tutto ciò non venga riconosciuto come razzismo antislamico, anche se importanti organizzazioni e figure internazionali — tra cui Human Rights Watch, Amnesty International, B’Tselem, la Nelson Mandela Foundation, vari esperti ONU e l’ex presidente USA Jimmy Carter (accusato anche lui di antisemitismo) — ne parlano esplicitamente in questi termini. In parallelo, viene sottolineata la crescente discriminazione anche verso i cristiani in Israele, con 111 episodi nell’ultimo anno, 157 attacchi a chiese in cinque anni, e
con l’accesso a Gerusalemme per la Pasqua 2025 limitato a 4.000 cristiani su 50.000 residenti in Cisgiordania. Molti hanno denunciato molestie da parte di polizia e coloni, mentre i discorsi d’odio contro i cristiani sono in aumento, alimentati anche dall’attuale governo. Secondo ONG palestinesi, i cristiani soffrono — pur in misura diversa — degli stessi meccanismi di oppressione riservati ai palestinesi: confisca delle terre, limitazioni e abusi.
Perché esiste il doppio standard
Condannare l’antisemitismo è doveroso. Ma farlo senza mai nominare l’antislamismo, senza ammettere l’evidente sproporzione nella protezione mediatica e politica, è propaganda. Non è giustizia, è selezione etnica travestita da coscienza. Quando il ministro Tajani afferma che “la Palestina deve riconoscere Israele per essere riconosciuta”, dimentica che la Palestina ha riconosciuto Israele dal 1993. Israele, invece, non ha mai riconosciuto lo Stato di Palestina. Ecco: parlare di antisemitismo ignorando l’antislamismo è lo stesso cortocircuito logico. È pretendere un equilibrio dove non c’è reciprocità. È difendere i diritti umani a metà. E’ parlare di conseguenze senza le cause.
Il doppio standard nasce dalla mancanza di riconoscimento e reciprocità storica. Dopo la Prima guerra mondiale, con l’accordo Sykes-Picot, fu promesso agli arabi uno Stato Islamico che non venne mai realizzato, anzi fu ostacolato. Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, nacque Israele e l’ebreo perseguitato fu inserito nel “pantheon” del dolore europeo, mentre il dolore dell’islamico o del colonizzato rimase invisibile.
Durante la Guerra Fredda, gli USA sostennero i mujaheddin afghani contro l’URSS, ma dopo l’11 settembre 2001 il mondo arabo venne trasformato in una minaccia, e i mujaheddin divennero i nuovi nemici insieme allo Stato Islamico, nato in risposta a promesse occidentali disattese. Analogamente, ex funzionari israeliani hanno ammesso che Israele finanziò Hamas per indebolire Arafat e i laici favorevoli alla pace con Rabin (ucciso da un estremista sionista, con Netanyahu protagonista di quella campagna d’odio). Arafat stesso disse che Hamas non sarebbe esistita senza Israele.
Al netto di come la si pensi, la creazione del nemico richiede una narrativa che si presenti come vittima e deumanizzi l’altro. Così un palestinese che uccide è un terrorista, un israeliano che bombarda si difende; un imam che parla è propaganda, un rabbino spiritualità; un islamico che denuncia è antisemita, un occidentale che invade è un liberatore. Questa narrazione legittima guerre, censura le critiche e rafforza l’illusione di superiorità morale. Se crolla questo doppio standard, cade l’intera costruzione mediatica interiorizzata dalla persone in buonafede come “oggettiva”. Perciò, chi esprime un pensiero critico è spesso visto come “radicale”, anche se chiede cose su cui dovremmo essere tutti d’accordo, come fermare la violenza contro i bambini.
Antirazzismo a geometria variabile
O si condanna il razzismo sempre, oppure non si condanna affatto. Non si può usare la memoria della Shoah come uno scudo per giustificare altre violenze. Il “mai più” o vale per tutti, o è una bugia che non vale per nessuno. Una bugia grave, perché
svuota la memoria, la strumentalizza, e contribuisce a creare nuove gerarchie di umanità. Il più grande insulto alle vittime di quelle atrocità che commemoriamo. Nel silenzio mediatico-politico sull’antislamismo e nella mobilitazione intorno ad altre forme di odio razziale, nel paragonare situazioni profondamente diverse con metri disuguali, si legge il fallimento morale dell’Occidente. Non sono solo i politici a esserne complici, ma anche gli intellettuali e gli opinionisti che continuano a ignorare la realtà o, peggio, a sostenerla inconsapevolmente.
Parlare di antisemitismo è doveroso. Ma se non accompagniamo questa battaglia con una condanna altrettanto netta di ogni forma di razzismo, rischiamo di renderla parziale e quindi fragile, fomentando un pericoloso doppio standard. Ed è proprio questo che alimenta il razzismo che si vuole contrastare a parole: il rifiuto di vedere l’altro, la volontà di ignorarlo, l’idea che alcune vite valgano più di altre. Se questo è il nostro antirazzismo, allora è un antirazzismo che fa paura.
(da Fanpage)
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Agosto 3rd, 2025 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DELL’INTEGRATED FOOD SECURITY: “PEGGIORE SCENARIO DI CARESTIA IN ATTO”
Atef Abu aveva 17 anni. Era uno studente, un atleta, un ragazzo sano e forte. Ora è l’ennesima
vittima della crisi umanitaria che devasta la Striscia di Gaza. Ricoverato all’ospedale al-Shifa di Gaza City in condizioni critiche, Atef è morto di fame: il suo peso, riferiscono i familiari, era crollato da 70 a 25 chilogrammi, “circa quanto dovrebbe pesare un bambino di nove anni”. “Sentiamo dai familiari e da chi lo conosceva che era un ex campione sportivo locale. È finito per perdere molto peso,
diventare gravemente malnutrito e infine morire”, ha riferito Hani Mahmoud, corrispondente di Al Jazeera da Gaza City.
Le immagini, verificate da Al Jazeera e condivise online, mostrano i parenti accanto al corpo scheletrico del giovane in un sacco bianco, mentre uno di loro passa il dito sulle ossa visibili della cassa toracica. Il giornalista Wisam Shabat ha dichiarato che Abu è arrivato in ospedale “in condizioni critiche, con complicazioni gravi dovute alla mancanza di cibo e cure mediche”. Abu è uno dei sette palestinesi morti per malnutrizione nelle ultime 24 ore, secondo il direttore dell’ospedale al-Shifa. Dall’inizio della guerra a ottobre 2023, almeno 169 palestinesi, tra cui 93 bambini, hanno perso la vita a causa della fame, secondo i dati del Ministero della Sanità di Gaza.
L’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) ha avvertito che “il peggior scenario di carestia” è già in atto nella Striscia. “I dati più recenti indicano che sono stati superati i limiti di carestia per il consumo alimentare nella maggior parte della Striscia di Gaza e per la malnutrizione acuta a Gaza City”, si legge nel rapporto.
Lazzarini: “A Gaza una carestia artificiale”
Di fronte alla crescente condanna internazionale della crisi umanitaria, Israele ha aumentato negli ultimi giorni le consegne di aiuti ai palestinesi, anche tramite lanci aerei. Le Ong tuttavia affermano che tale modalità di aiuto è pericolosa e inefficiente, e chiedono che Israele apra tutti i valichi verso Gaza per consentire un flusso libero di beni di prima necessità ai palestinesi bisognosi
Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), ha affermato ieri che “la carestia artificiale a Gaza è stata in gran parte determinata da tentativi deliberati di sostituire” i sistemi di aiuto dell’ONU con quelli di GHF, un gruppo controverso sostenuto da USA e Israele.
Le forze israeliane hanno regolarmente sparato sui palestinesi che cercavano cibo nei punti di distribuzione gestiti dal GHF a Gaza, e l’ONU ha riferito che più di 1.300 persone in cerca di aiuto sono state uccise da quando il gruppo ha iniziato a operare a maggio.
Lazzarini ha anche accusato Israele di ostacolare attivamente l’ONU e altre organizzazioni umanitarie nel fornire aiuti salvavita ai palestinesi, definendolo “una misura deliberata per fare pressione e punire collettivamente i palestinesi per il fatto di vivere a Gaza”. “Non c’è più tempo da perdere, deve essere presa una decisione politica per aprire incondizionatamente i valichi”, ha scritto il capo dell’UNRWA in un post su X.
La denuncia dell’Aoav: “L’88% dei crimini israeliani resta impunito”
A peggiorare il quadro è il fallimento sistemico delle inchieste sui crimini di guerra. Secondo l’Ong britannica Action on Armed Violence (Aoav), “l’88% delle indagini avviate da Israele su presunte violazioni dei diritti umani o crimini di guerra commessi dai suoi soldati è stato chiuso senza colpevoli o è rimasto senza esito”.
Tra i casi emblematici ancora irrisolti figurano: l’uccisione di 112 palestinesi in coda per la farina a Gaza City, a febbraio 2024; l’attacco aereo che ha causato 45 morti in un campo
tendato a Rafah, a maggio; l’omicidio di 31 civili in fila per ritirare cibo a Rafah, il primo giugno.
Secondo testimoni, le vittime sarebbero state colpite da fuoco israeliano. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno inizialmente bollato l’episodio come falso, salvo poi ammettere che “l’incidente è ancora in fase di revisione”. Per l’Aoav, questi numeri evidenziano “un modello di impunità”, in cui l’autoinchiesta israeliana non porta quasi mai a sanzioni concrete.
(da Fanpage)
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