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DUE MILIONI E MEZZO DI PERSONE DI ISRAELIANI SCENDONO NELLA PIAZZE DELLE CITTA’ DELLO STATO EBRAICO PER PROTESTARE CONTRO NETANYAHU E LA SUA GUERRA NELLA STRISCIA: “STA METTENDO A REPENTAGLIO LA VITA DEGLI OSTAGGI, CHE SEMBRA VOGLIA SACRIFICARE COME GLI INNOCENTI PALESTINESI”

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

LE VOCI DEI MANIFESTANTI: “C’È UNA MACCHINA DELLA PROPAGANDA CHE DIFFONDE VELENO, C’È LA MINORANZA AL POTERE. IL 75% DELLA POPOLAZIONE È FAVORE ALL’ACCORDO SUGLI OSTAGGI”

«Siamo qui per dimostrare il vero spirito israeliano, sostenere le famiglie degli ostaggi. Siamo qui per dimostrare che ogni persona, ogni israeliano, madri, padri, soldati, stanno manifestando perché sostengono ogni sforzo per portare indietro i nostri ostaggi».
Ne è convinto Nir Gartzman, che da Haifa si è spostato a Tel
Aviv per prendere parte alla grande manifestazione di ieri. Con lui oltre 500mila persone in piazza degli Ostaggi e, nel corso della giornata, decine di migliaia in tutto il Paese, fino a «2,5 milioni» secondo gli organizzatori.
Nir è cofondatore del venture capital theDock e sin dall’inizio delle proteste anti Netanyahu, è sceso per strada ogni sabato per manifestare il suo dissenso. «Il diritto di Israele di difendersi – spiega in mezzo alla folla – non è in dubbio, come la necessità di seguire giustizia per l’esercito. Ma abbiamo bisogno di una soluzione pacifica per riportare tutti a casa e ottenere un supporto internazionale per un futuro pacifico di tutta la regione».
«Non possiamo delegare a nessuno la nostra responsabilità, visto che la nostra democrazia è a rischio. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità, noi non abbiamo lo stesso potere del premier ma abbiamo la nostra voce». Ora Peled Nakash insieme alla sua Aid Coalition, ogni fine settimana manifesta contro il premier.
«Netanyahu e i suoi stanno usando la guerra per i loro usi. Reagiamo alle loro azioni. Non puoi picchiare un bambino e poi chiedergli perché piange. Con manifestazioni come questa mostriamo un Paese forte che tiene al suo aspetto democratico. C’è una piccola parte di sostegno a Netanyahu, una frazione del Paese. C’è una macchina della propaganda che diffonde veleno, c’è la minoranza al potere. Il 75% della popolazione è favore all’accordo sugli ostaggi. Netanyahu sta mettendo a repentaglio la vita degli ostaggi, che sembra voglia sacrificare come gli innocenti palestinesi».
In tutto il Paese ci sono stati, soprattutto al mattino, blocchi stradali e manifestazioni, il più delle volte interrotti dalla polizia che ha usato anche cannoni ad acqua per disperdere la folla e ha fermato circa quaranta persone. Fulcro principale, la piazza degli Ostaggi a Tel Aviv. «Sono tutti di sinistra che vogliono il male d’Israele – dice Gilad – e danno l’idea che il Paese sia debole e così i nostri nemici se ne approfittano, come successo il sette ottobre».
I familiari del Forum più numeroso, Bring Them Home Now, che insieme al Consiglio di Ottobre e altre organizzazioni, ha organizzato la grande manifestazione di ieri. Che sarebbe dovuta essere sciopero generale, ma il maggior sindacato, l’Histadrut, pur condividendone gli scopi, non ha aderito.
Nella piazza degli Ostaggi si sono susseguiti comizi, discorsi e visite, come quella del presidente Isaac Herzog, del capo dell’opposizione Yair Lapid, dell’attrice Gal Gadot. La richiesta della piazza è unica: portare tutti gli ostaggi da Gaza e finire la guerra. È stato anche diffuso un video di Hamas che mostra l’ostaggio Matan Zangauker, ottenuto dall’esercito in una operazione a Gaza diversi mesi fa, forse risalente all’inizio della guerra. Nel video, il giovane dice: «Uscite e fate rumore come sapete fare».
I cortei sono stati anche interrotti dall’allarme per un missile lanciato dallo Yemen, intercettato (ieri la marina israeliana ha colpito una centrale elettrica nei pressi di Sanaa) e poi in serata è arrivato un razzo da Gaza. Dove Israele ha colpito, tra gli altri, dinanzi all’ospedale Al-Ahli a Zeitoun nel centro della Striscia, dove c’erano miliziani.

(da agenzie)

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LA GUERRA CONTINUA: IL CAZZOTTO DI PUTIN IN GUANTO DI VELLUTO

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

TRUMP VITTIMA DI DILETTANTISMO PERSONALISTICO

Trump è uscito con le ossa rotte dal summit costruito con il massimo di dilettantismo personalistico. L’ipotesi che potesse rovesciare il tavolo e far sentire a Putin il peso di una deterrenza vera è tramontata per ora tra le nevi di un ex possedimentoSe c’è una logica nel vertice in Alaska, mi pare questa. Putin può essere considerato con realismo invece che con moralismo. Le cose non cambiano. Perché nell’una e nell’altra sfera interpretativa è pessimo. Ha detto e messo nero su bianco quel che voleva fare negli anni: ripristinare il potere catastroficamente perduto dell’Unione sovietica, dunque cambiare l’ordine mondiale uscito dalla fine dell’impero come esito della Guerra fredda, obiettivo che entro certi limiti è condiviso dalla Cina politico-mercantile e da molti altri continenti e subcontinenti sui quali la presa del vecchio ordine non funziona più dai tempi di Clinton e poi di Obama (l’ultimo che cercò di metterci una pezza fu Bush Jr. con i neocon). Su questo ha impostato una guerra ultradecennale, sboccata nell’aggressione all’Ucraina e all’Europa, che dura dispiegata da quattro anni, costruendo egemonia interna economia e mito politico in funzione di una chiara vittoria, il suo lascito per così dire.
Essendo il più forte, usa la forza senza complessi, e della forza è anche un servitore devoto. In questa scelta, travestita da operazione speciale denazificazione di Kyiv e sicurezza per la seconda potenza nucleare minacciata dalla Nato, usa Trump con cinismo e astuzia kagebista per ottenere la caduta di Zelensky e il recupero politico alla sua sfera di influenza di un paese che ha cercato di uscire dalla sudditanza granderussa e avvicinarsi all’Europa e all’occidente. Per questo dosa con accuratezza diplomazia e missili e minacce, e ottiene tutto lo spazio, immenso, che Trump è disposto a lasciargli, come si è visto a Anchorage.
Quello di Putin è un narcisismo da professionista, innestato su un moto storico di ribaltamento degli equilibri che ha un suo fondamento politico. Quello del dirimpettaio arancione, uscito con le ossa rotte dal summit costruito con il massimo di dilettantismo personalistico, è il narcisismo risentito e frustrato di un uomo e di un paese sempre più potente e sempre più allo sbando. Giudicarne gli atti e le promesse con realismo è quasi impossibile, psicologia delle masse in rivolta e moralismo sono strumenti più acconci. L’oligarchia russa è un establishment con una sua linea e ragione sufficiente. Il movimento Maga, che ha distrutto l’establishment americano, sia quello repubblicano sia quello democratico, colpendo al cuore cultura politica ed élite, vive di altro che di politica mondiale, è disinteressato alla questione regionale ucraina degli europei, prospera nell’ego autoritario e demagogico di un capo erratico travestito da profeta isolazionista dell’età dell’oro. Questo Putin lo sa bene e per questo ha sferrato a Trump un cazzotto in guanto di velluto. Molti credevano che alla fine un accordo e una linea di compromesso fossero nei fatti, anzi che erano già stati concordati e che sarebbero stati celebrati in Alaska, con il successivo coronamento del sogno grottesco del Nobel per la pace e una relativa stabilizzazione fondata sul compromesso del congelamento sulla linea del fronte del Donbas capace di premiare le follie vanitose della campagna elettorale di Trump, la fine della guerra in 24 ore, e sono stati smentiti platealmente. Putin venne, vide e vinse. La guerra continua, Nato Europa e occidente sono divisi, lui ha ottime possibilità di schiodare
Zelensky e l’Ucraina dalle loro pretese di indipendenza e modificare con la forza la carta geografica e politica dell’Europa. L’inevitabilità non è un affare così complicato, la coalizione Biden non ce l’ha fatta, ha tentennato, ha oscillato, ha allungato il brodo, e si è piegata alla fine a un paese tragicamente incafonito e inciprignito. L’ipotesi che Trump, se non altro per la faccia, che per lui è una cosa che conta molto, potesse rovesciare il tavolo e far sentire a Putin il peso di una deterrenza vera è tramontata per ora tra le nevi di un ex possedimento zarista.

(da ilfoglio.it)

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LO ZAR E IL FILO ROSSO CHE RIPORTA ALL’URSS

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

DALLA GRANDEUR STALINIANA ALLE PARATE VINTAGE, LA SANTA RUSSIA VIVE UN ETERNO RITORNO

Che cosa vede Vladimir Putin da venticinque anni nella sua vita, nella sua vita di padrone-recluso del Cremlino? Cosa occupa la sua mente dentro quelle mura secolari, sotto le luci della gloria, all’ombra spessa del sangue e di ostinati faccia a faccia con la spietatezza, seduto su quelle poltrone a rimirare le stesse stanze degli zar e dei segretari generali del Pcus, ad attraversare corridoi a cui come per una magia soldati spalancano le porte, a presieder riunioni sulle “operazioni speciali” dove a capotavola un tempo furono Lenin geniale teorico del partito barricata, Kruscev il simpatico mugiko, Breznev l’ubriacone e Gorbaciov il goffo liquidatore?
Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, verrebbe da dire un secolo dopo l’altro. Vede e contempla perennemente se stesso come in un gioco di specchi che riflette all’infinito sempre la stessa immagine: quella dell’Unione Sovietica, la grande potenza proletaria, lo scudo e la lancia di una rivoluzione mondiale che non venne mai. C’è da diventare pazzi. Oppure strumenti primi e massimi di tale sistema e della sua possibile restaurazione.
La storia sovietica, il prima di quell’ottantanove del disastro in Russia in fondo non è mai stata negata o scavalcata se non da piccole e illuminate minoranze decise a imboccare i sentieri di un libero sviluppo, una grande zona di ombra che non si deve illuminare per le sue miserie e le sue piaghe ma solo percorrere avvertendone le immense dimensioni; che danno piaceri tanto più intensi quanto più l’ombra si fa intensa e rifugge la luce. La restaurazione putiniana di cui siamo spettatori da ottusi trionfalisti della guerra fredda – da venticinque anni! – è questo soddisfatto cammino di ciechi. Nella volontà di salvaguardare i
dogmi defunti del passato in realtà ci sono interessi concreti.
È bastata una felpa con quattro caratteri in cirillico “Cccp”, non esposta nei negozietti per turisti nostalgici ma indossata dal ministro degli Esteri Lavrov alla vigilia del vertice in Alaska. Contemporaneamente un’allusione minacciosa e una soddisfatta constatazione di un successo politico. Il personaggio non a caso incarna la continuità antropologica di quel passato non solo per la biografia ma soprattutto per lo “stile”, il consumato mestiere e l’astuzia nelle bufere della storia. E siamo già al ritorno dell’Urss, al bric-à-brac dei tempi in cui i bolscevichi volevano «preparare il terreno per la gentilezza» ma purtroppo a Mosca non si poteva esser gentili, e il popolo russo era solo legna per accendere il fuoco della rivoluzione mondiale.
Eppure non siamo alla restaurazione di una illusione prometeica (una delle tante fallite nei secoli) e di un inesorabile determinismo storico, anch’esso illusorio. Non avevamo fatto abbastanza attenzione al “vintage” delle bandiere rosse con falce e martello dei reggimenti che sfilavano nelle parate della vittoria. Alle disinvolte addizioni di una Storia totale che lascia spazio a non troppo sottili revisionismi staliniani: un continuum dalla Santa Russia ai bolscevichi a Putin.
Si scavalcavano gli anni della stagnazione sovietica e ci si ricollegava alla grandeur del Padre dei popoli e ai suoi efficaci svaghi liquidatori. In fondo la scenografia di Anchorage allestita in cooperazione con Trump che cosa è stato se non un meticoloso spettacolare revival degli anni della Guerra Fredda? Ecco di nuovo i contrasti e i disgeli, le manovre psicologiche
attinte dal forziere degli anni Cinquanta, ecco di nuovo le lotte per le sfere di influenza, il confronto tra capitalismo e comunismo che si svelava come complicata partita tra due arroganti e voraci imperialismi allora orfani di avversari.
Che impressione produce questa ripetizione di oggetti e gesti a cui non eravamo più abituati? Tra i russi intendo, non i testimoni dell’Urss ma tra le generazioni eltsiniane e putiniane. Credo un’eccitazione molto simile a quella che si provava a scuola quando il professore iniziava la lezione di geometria con le parole: “Prendiamo un punto nell’infinito…”.
Quel punto nell’infinito è una memoria storica (manipolata) senza la quale non si può nemmeno cominciare a capire la Russia di Putin come non si può capire la geometria. Quel punto è il concetto di potenza. Ma non nel senso in cui la interpretiamo noi accomodati stoltamente nella idolatria economica del Mercato risolvi-tutto, del surplus e della Borsa. È un concetto di potenza elementare, eterno nella sua semplicità, brutale, indiscutibile: nel caso cinquemila bombe atomiche, undici fusi orari di territorio, risorse naturali infinite, centocinquanta milioni di sudditi che si possono fisicamente spendere con centralismo e disciplina senza neppure un inarcare di ciglia. Non c’è più il Partito che spiega e camuffa, restano gli Onnipotenti Apparati. Ed esser potenza come destino manifesto, in sé e per sé. Si possono gettar nell’immondizia le ideologie ma non la geografia e la storia. Un’idea in fondo non zarista o comunista: un millenarismo bizantino, da terza Roma.
Quello di Putin non è uno riuscito ritorno all’Urss. Non se ne è
mai allontanato, biograficamente e politicamente. Perché avrebbe dovuto farlo? Era un modello perfetto di ideologia malleabile per il Capo e spietata per tutti gli altri. È lì che ha imparato il classico stile staliniano: semplicistico e minaccioso. È un costruttore di piramidi che non ha neppur bisogno di fingersi sacerdote di felicità promesse come l’utopista dispensatore di guai Kruscev. È un duro pragmatico che, soddisfatto, ha notato come il mondo che lo circonda comprenda e si conformi, dietro a chiacchiere ipocrite, alla sua matematica della potenza e della prepotenza. In questo senso Putin è semplicemente uno di noi.

Domenico Quirico
(da lastampa.it)

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I SOVRANISTI EUROPEI ORMAI SENZA BUSSOLA

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

LE FORZE POLITICHE CONTINENTALI CONSERVATRICI VICINE A TRUMP NON CAPISCONO COME AFFRONTARE WASHINGTON

È il momento più buio per il Vecchio Continente che nell’arco di poche ore potrebbe essere costretto a scegliere: avallare la cessione di pezzi di Ucraina alla Russia oppure affrontare il definitivo disimpegno Usa dalla partita.
È questo il messaggio implicito arrivato dalla Casa Bianca dopo l’incontro di Anchorage ed è comprensibile lo sbalordimento degli alleati davanti all’abisso che si è aperto tra le due sponde dell’Atlantico. Tutti conoscevano il vecchio adagio di Henry Kissinger, essere nemico degli americani è pericoloso ma essere loro amico è fatale. Nessuno credeva che valesse anche per gli europei.
Le stesse culture nazionaliste dell’Unione sono perplesse e divise. Il mondo intellettuale francese vede nel declino dell’asse occidentale un’opportunità più che un rischio. Come ha sintetizzato a suo tempo Alan Todd, una sconfitta russa in Ucraina avrebbe perpetuato per un secolo «la sottomissione europea agli americani», mentre se Mosca realizzerà i suoi piani, come è ora possibile, «la Nato si disintegrerà e l’Europa sarà
lasciata libera». La destra italiana gioca in un altro campo, la conservazione a oltranza della relazione con gli Usa, a costo di derubricare i voltafaccia di Trump a dati marginali in una trattativa più ampia sulla futura difesa europea. Il sovranismo alla Viktor Orban sceglie una strada ancora diversa, applaude in toto alle scelte del presidente Usa e si propone come bastione del futuro asse tra Washington e Mosca.
Ancora una volta, come al tempo della caduta del Muro di Berlino – l’altro gigantesco evento geopolitico che nessuno aveva previsto – la storia si mette a correre lasciando indietro chi non sa tenere il passo.
Nei sussidiari di domani riconosceremo le tappe di questa improvvisa accelerazione. La ripresa dei contatti tra Casa Bianca e il Cremlino subito dopo l’insediamento di Trump. Due giorni dopo, il discorso di JD Vance a Monaco, una vera messa in stato d’accusa del modello europeo di libertà e garanzie. Poi la netta chiusura a ogni ipotesi di Ucraina nella Nato, il de profundis per la restituzione di Donbass e Crimea, la bastonatura in diretta di Volodymyr Zelensky, l’annuncio della sospensione delle forniture di armi Usa a Kiev, l’imposizione agli europei di spese pressoché insostenibili in ambito Nato, il varo dei dazi. Infine, Ursula von der Leyen ricevuta a margine dell’inaugurazione di un campo da golf e Vladimir Putin pienamente riabilitato con tanto di tappeto rosso e applauso a scena aperta. E adesso, cosa? Lo sapremo a breve, con il vertice convocato da Trump con Kiev e gli europei, che date le premesse fa paura a tutti.
Sta cadendo un altro muro ma le forze politiche continentali, a
cominciare da quelle sovraniste e conservatrici che a Trump si sentono ideologicamente vicine, non capiscono come affrontare un mondo dove Washington trova più vantaggioso un nuovo sistema di accordi con Mosca che il restauro delle intese storiche sulla difesa europea.
Sì, forse in prospettiva l’Europa sarà più libera, come dicono i nazionalisti francesi. Forse le singole nazioni riusciranno a incrementare i rapporti bilaterali, come sperano gli italiani. Forse micro-Stati come l’Ungheria valorizzeranno il loro ruolo. Ma, al momento, la loro stessa confusione avalla la visione dell’Europa che Trump e Putin probabilmente condividono: un luogo dove nessuno ha un’idea precisa di sé, decadenti capitali incapaci di atti di autentica autonomia. Le loro leadership pregheranno per un accordo che consenta almeno di salvare la faccia. Qualcosa gli sarà concesso. E poi good bye, alla prossima partita, e vedremo a chi toccherà chinare la testa.

(da lastampa.it)

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ZELENSKY A WASHINGTON ACCOMPAGNATO DAI LEADER EUROPEI (CON L’ELMETTO)

Agosto 18th, 2025 Riccardo Fucile

“NON POSSIAMO CEDERE TERRITORI, LA CARTA CE LO VIETA”

L’ultima volta era da solo e non finì bene. Stavolta Volodymyr Zelensky andrà alla Casa Bianca per incontrare Donald Trump scortato da parecchi leader europei (ma il presidente Usa vuole prima un incontro bilaterale e poi farà entrare gli altri, scrive il giornale tedesco Bild): oltre a Giorgia Meloni, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il francese Emmanuel Macron, il tedesco Friedrich Merz, il finlandese Alexander Stubb, il britannico Keir Starmer e il segretario generale della Nato Mark Rutte. Una compagnia di giro che ieri, di persona o in video, ha accolto lo stesso Zelensky a Bruxelles proprio per preparare l’incontro di oggi col presidente Usa, quello in cui si dovrebbe capire come andare avanti nelle trattative dopo il vertice ferragostano tra il tycoon e Vladimir Putin.
Alla Casa Bianca vanno di fretta e vorrebbero mettere ucraini e russi intorno a un tavolo già questa settimana, ma l’aria nel vecchio continente non è certo quella che Trump pretenderebbe per raggiungere la pace (e il relativo Nobel). Al contrario ieri, prima e dopo una riunione dei cosiddetti Volenterosi, la retorica usata dai leader europei e dallo stesso Zelensky sembrava studiata per chiudere in anticipo ogni apertura statunitense alla Russia. Ad esempio le garanzie di sicurezza “modello Nato” per l’Ucraina, su cui gli Usa avrebbero già l’accordo di Mosca, vanno bene, “ma non bastano garanzie teoriche, la prima delle garanzie è un esercito ucraino forte”, spiegava Macron. Quasi le stesse parole pronunciate poco prima da Ursula von der Leyen, che ci ha aggiunto una frase sul fatto che l’Europa vuole continuare a riforme di armi Kiev e un suo tocco di retorica guerresca: “L’Ucraina deve essere un porcospino d’acciaio”.

E ancora: Trump ha rinunciato al cessate il fuoco in Ucraina (che pure aveva chiesto) dopo il niet di Putin? “Non si può avere una vera negoziazione senza un cessate il fuoco: la linea del fronte è quella migliore su cui parlare”, sosteneva Zelensky, mentre per il presidente del Consiglio Ue, il portoghese Antonio Costa, “senza cessate il fuoco” addirittura “la Ue e gli Usa devono aumentare la pressione sulla Russia”.
Questo a non voler citare Von der Leyen, la quale – con un piede quasi sull’aereo per gli Usa – ha annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia, il 19esimo, a settembre.
Peggio ancora vanno le cose se si passa al problema vero della futura trattativa, cioè la cessione dei territori ucraini occupati dai russi (o il congelamento del fronte, che è un po’ la stessa cosa). “Alla Casa Bianca si parlerà di cessione dei territori”, ha detto chiaramente l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, che era
presente in Alaska. “Putin non è riuscito a conquistare il Donetsk in 12 anni” e comunque “la Costituzione dell’Ucraina rende impossibile cedere territori o scambiarli”, ha risposto Zelensky; “i confini internazionali non possono essere cambiati con la forza”, gli ha fatto eco Ursula.
E Macron: “Quel che vuole Putin non è la pace, Putin vuole la capitolazione dell’Ucraina, questa è la sua proposta”. Effettivamente non un buon viatico per sedersi attorno a un tavolo col tizio che quella proposta presenterà.
Non tutti però, a partire dall’Italia e dalla Germania, usano i toni duri del fronte bellicista che vede insieme i Paesi baltici e i nordici, la Commissione e – a chiacchiere – la Francia (il britannico Starmer non può e non vuole marcare troppo la sua distanza da Trump).
Tanto è vero che la riunione dei Volenterosi ha voluto stentoreamente ribadire che nessun accordo può essere fatto senza l’Ucraina dopo un tavolo tra Kiev e Mosca: una posizione che Washington non si sogna di contestare, tanto che quel tavolo vuole organizzarlo subito.
Si vedrà oggi se quella europea è un’accorta postura negoziale per evitare che Trump forzi Zelensky a un accordo sconveniente o se l’Europa è preda di un cupio dissolvi in cui trascinerà anche gli ucraini: ai partner dell’Ue Zelensky ieri ha illustrato le posizioni del suo governo e citato tra le garanzie di sicurezza “l’adesione dell’Ucraina all’Ue”. È l’unico punto in agenda in cui dovrà litigare più con gli europei che con Vladimir Putin.

(da La Repubblica)

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